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C’è molto da riscuotere; c’è credito, e non ho tratte che per la fine dell’altro mese. Non ci sarà da ricorrere a nessuna operazione, per far fronte agl’impegni.

— Tu mi consoli un poco, ragazzo mio. Qualche volta mi pare che la terra sia per mancarci sotto i piedi. —

Così il signor Demetrio finiva le sue nenie. Del resto, erano volate assai brevi, sfoghi di mal umore, sempre seguiti da lunghi riposi e da sogni piacevoli di grandezze, di felicità senza pari. Egli ricordava sempre con ammirazione una lettera del conte Spilamberti, la prima che il conte avesse scritta sull’argomento delle nozze sperate, e che il signor Momino gli aveva fatta leggere il giorno stesso che si erano conchiusi i patti nuziali. Era dunque anteriore a questi; il conte Attilio l’aveva scritta, non sapendo ancora che cosa si dovesse conchiudere, ignorando la sua sorte, che si decideva lontano da lui: la qual cosa ne accresceva il pregio, e il signor Demetrio era pregato a notarla. Era scritta a donna Fulvia; un’altra Fulvia la poteva leggere; e perchè quell’altra Fulvia la leggesse, il signor Momino commetteva volentieri la piccola indiscrezione di lasciare per un giorno il gelosissimo foglio tra le mani del suo buon amico Bertòla.

In quella lettera il conte Attilio ringraziava la sua gentil protettrice con le frasi più infiammate che si potessero immaginare. Dunque il suo bel sogno si avverava? La famiglia Bertòla aveva gradita la sua timida richiesta? Quanto all’interesse, al vile interesse, egli non voleva saperne nulla, non amando guastare con la immagine delle carte bollate il quadro maraviglioso della sua felicità. Anche senza un soldo avrebbe sposata la fanciulla dei Bertòla; tanto gli aveva fatto senso la sua bellezza, la sua grazia, il suo ingegno, la sua educazione veramente principesca.

Sì, proprio principesca; era questo l’aggettivo di cui si serviva il conte Spilamberti di San Cesario, che di queste cose si poteva intendere a