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entra con noi nella «Nuova Esperia»; le azioni, fra uno o due mesi, quando sarà noto l’affare, aumenteranno almeno di un terzo: potrai rivendere le tue con un largo profitto; potrai far meglio ancora, aumentandole fino al numero che basti per farti entrare nel consiglio d’amministrazione, quando si rifaranno in fin d’anno le nomine.
Tutte queste belle cose narrava il conte Attilio a donna Fulvia, sotto il suggello del più profondo segreto. Ne usasse per suo conto l’amico Momino, se credeva di comprare azioni, o solamente di custodire più gelosamente quelle che già possedeva. Quanto a lui, padrone di terre e non di larghe somme in contanti, non poteva approfittare per allora della buona notizia, nè accogliere la cortese offerta dei due pezzi grossi. E del resto, poco male per lui, se avesse dovuto continuare nel suo stato presemte. Marito di Fulvia, non aveva nient’altro a desiderare nel mondo; ed egli e lei sarebbero vissuti modestamente di quel poco, facendo ancora una discreta figura, e, quel che più importava, amandosi molto. Felicità non val forse più di ricchezza?
— Sì, belle frasi; belle frasi! — diceva il signor Demetrio inuzzolito. — Ma i denari sono i denari. Se avessi pensato come lui quando facevo il cascamorto alla signorina Giuditta Vercellone, mi sarei istupidito lì per tutta la vita, senza uscir mai dalle mezzine di lardo. Audacia vuol essere; gli affari bisogna saperli inventare, o almeno agguantare quando ti si presentano alla mano. Lavori, il mio signor genero, poichè gli si offre di entrare negli affari per la porta d’oro; che dovrebbe essere come l’entrarci, diremmo noi, con gli stivali. Lavori in grosso, come io ho lavorato a minuto. Se lavora, son più contento di arrivare a duecentomila lire di dote. È un collocamento sicuro, quello che farà nella «Nuova Esperia», con un principe per presidente, e seguitando la fortuna d’un banchiere come lo Spitzbolzen. Lo conosco, quello lì, lo conosco bene, ed ha i suoi venti milioni, come è vero