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puntino. E questo non tralasciava di notare il signor Demetrio leggendo alla sua Fulvia il prezioso documento della gloria di casa Bertòla.
Prevedendo cortesemente le giunte obiezioni che a questo suo disegno si sarebbero mosse, il conte Attilio proseguiva, mostrando bene d’intendere che il dare una dote poteva essere, e forse doveva essere, da parte della famiglia Bertòla, una questione di dignità. E su questo punto non aveva egli a far altro che inchinarsi, accettando ogni cosa. Intendeva ancora che bisognasse collocare la contessa di San Cesario in uno stato conveniente al suo grado, come alla condizione di fortuna in cui era nata e cresciuta. Anch’egli, dal canto suo, avrebbe fatto ogni sforzo maggiore. Non voleva poltrire nell’ozio, come aveva fatto fino a quel giorno, non prevedendo la felicità a cui era destinato. Voleva adoperarsi ad accrescere le sue sostanze, lavorare, insomma, lavorare in un modo conforme al suo grado, entrando negli affari, e per la porta d’oro, come gli era consentito da alcune circostanze favorevoli, non ignote ai signori Sferralancia. Conoscevano la banca «Nuova Esperia», nella quale essi medesimi avevano investito un bel capitale, e ben sapevano come fruttasse. Il principe Andolfi, suo cugino, era presidente del consiglio d’amministrazione: il banchiere Spitzbolzen (da non confondere col suo quasi omonimo Spitzbuben) era il vice presidente, e gli voleva un gran bene. Tutti e due, passando da Modena per recarsi ad una radunanza straordinaria, e prendendolo compagno fino a Bologna nel loro compartimento riservato, gli avevano parlato del magnifico slancio che stava per prendere la banca «Nuova Esperia», assumendo (ma non ne rifiatasse ad anima viva, per carità, trattandosi di una impresa largamente fruttifera, a cui molti avrebbero voluto partecipare) assumendo i lavori del porto di Taramello, donde tanto si riprometteva il governo, per un doppio fine, militare e commerciale. Eccoti una buona occasione per occupare il tuo tempo, gli dicevano a gara il parente e l’amico;