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bene! artisticamente, ma senza eccesso; graziosamente, ma con una certa rigidità contegnosa; a dir tutto con una sola parola, aristocraticamente. E il signor Demetrio ammirava con un occhio quella gloria di caratteri, mentre coll’altro badava alla sostanza dello scritto. Ad un certo punto tralasciò di ammirare, ma non di leggere; anzi, concentrate nella lettura le sue potenze visive, incalzò più strettamente il testo, e come fu giunto alla fine d’un certo paragrafo diede in un grido di giubilo, in un altro, in un altro ancora, tanto da parere un concerto di campane alla volata solenne del Sabato santo.

— Finalmente! oh, bene! ci siamo! benissimo! questa è nuova di zecca! Cari ragazzi! Come si voglion bene! Vieni qua, Virginio; leggi anche tu. Aveva dunque ragione il telegrafo di Modane a mandarci scritto «Fulitilì!» ed anche quello di Parigi, a copiare il suo fratello di Modane! La libertà non l’hanno usata ad altro che a storpiare il mio nome e cognome. —

Virginio aveva voglia di leggere, com’io e voi di farci frati. Ma a lui bisognava non parere: accettò dunque dalle mani del signor Demetrio un foglio di carta che gli scottava le dita, e lesse la lettera di Fulvia, della signora Fulvia, di donna Fulvia, della contessa Spilamberti, e di San Cesario per giunta.

La graziosa signora incominciava lo scritto dando notizie sommarie del viaggio e dell’arrivo a Parigi; viaggio bellissimo, con un tempo splendido; arrivo fantastico, tra le nebbie leggere che si levavano dalla Senna, involgendo la grande città, come un velo di mussolina bianca, trapunta di stelle d’oro. Le stelle d’oro, si capisce, erano i lumi, che in quell’ora vespertina dell’arrivo si andavano accendendo lungo le strade e le piazze della immensa capitale francese. Erano smontati all’albergo di Baden, «boulevard des Italiens»; da buoni italiani, adunque, e col vantaggio di aver sotto la mano tutti i luoghi più notevoli e più importanti così alle loro faccende quotidiane, come alla loro curiosità di viaggiatori. La sera