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laggiù. Poi erano venuti a Roma, dove non ci era da veder meno. Roma piaceva a Tili; piaceva molto anche a Fuli. Capivano ambedue come un grande Italiano avesse potuto chiamarla «la città dell'anima»; per conto loro temevano, quando fossero per abbandonarla, di lasciarci il cuore. Roma eccelsa, monumentale, eterna, luminosa e divina! Quello era il luogo per viverci; ne avevano ragionato a lungo, notando, vagliando il pro ed il contro; si erano finalmente decisi; volevano stabilirsi a Roma, dove anche il principe Andolfi li esortava a restare, per tutte le grandi cose che Tili ci avrebbe potuto fare, dedicandosi alle vaste imprese bancarie, edilizie insieme ed artistiche, degne di un gran signore che non volesse poltrire nell’ozio, nè dormire sui vecchi allori di casa.

A Roma, dunque; avrebbero piantate le tende colà. Quanto al loro quartiere di Bologna, si poteva lasciare, cedendone la locazione. Se volevano accostarsi al vecchio nido degli Spilamberti, avevano sempre il palazzo di Modena. Ed anche quello, che necessità di tenerlo disabitato? Se si fosse offerta una buona occasione, non si poteva appigionarlo? e magari disfarsene, avendone un prezzo conveniente?

Il proposito era consigliato da uno spirito d’economia bene intesa. L’economia è la regola, è la norma, è la chiave di tutto. Senza economia non è sicurezza di vita pubblica, nè di vita privata. Queste cose qualche volta le pensano anche i ricchi. E dovevano pensarci i signori Spilamberti, che non erano poi milionarii; dovevano pensarci in tempo, se volevano fare una buona figura nel mondo. Il quartierino a Roma lo avevano trovato, e tanto carino, un vero gioiello, al Macao, che è il piccolo paradiso della nuova Roma. Ci voleva un «coupè», non potendosi intendere la vita in paradiso senza la comodità d’una quotidiana discesa all’inferno. Per fortuna, il «coupè» non era una spesa da metter paura; in Roma, sapendosi contentare, non pretendendo di aver cavalli di sangue, se ne usciva con poco.