La cartella n. 4/Storia d'una viola

Storia d'una viola

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Riccardo Cuor di Leone Una piccola vendetta
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STORIA D’UNA VIOLA.

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rano parecchi mesi che stavo sul lago di Como, passando il giorno a ciel sereno fra i semplici piaceri della villeggiatura, e la sera ad ascoltare della buona musica. E quelle armonie belle dell'arte, unite alle armonie della natura, avevano per me tale incanto, che non pensavo più a scrivere; o, se ci pensavo un momento, mi ravvedevo subito, perchè m'accorgevo che le mie parole messe in fila sopra la carta, erano una povera [p. 226 modifica]cosa al confronto di quella meraviglia di lago e di monti; e le mie rime appaiate avevano un misero suono al confronto di quelle musiche melodiose.

Ma se queste erano buone ragioni per me di stare in ozio, non persuadevano punto il direttore d’un giornale per cui lavoravo, il quale quando pagava voleva essere servito, — ed anche quando non pagava.

Una bella sera, tra il duetto del Don Carlos e la romanza del Ruy Blas, mi giunse, come una tegola sul capo, una letterona gialla, coi doppi bolli dell’ufficio di posta e dell’ufficio del giornale.

Per me, che non avevo una parola di scritto, fu un fulmine a ciel sereno. Rimasi là alla sponda del lago, tenendo tra le mani l’epistola senza aver il coraggio di leggerla, e pensando con raccapriccio tutte le parole amare che c’erano dentro, mentre dietro a me, nel [p. 227 modifica]salotto, risuonavano le note soavi della Dolce voluttà del Marchetti.

Ad un tratto, udendo echeggiare gli applausi, mi lasciai vincere dall’entusiasmo, alzai le mani per applaudire anch’io, e la lettera gialla cadde nel lago.

Che cosa mi diceva? Non lo seppi mai. — Era andata a seppellirsi nelle onde coi suggelli intatti, portando il suo segreto nella tomba, come si dice nei romanzi a tinte scure. Se era in versi l’avranno letta le ondine, se era in prosa gli agoni del lago, che piacciono tanto ai buongustai di Milano.

Questo incidente senza sèguito non produsse nessuna modificazione nell’impiego del mio tempo; sicchè, quando tornai in città, riportai tutta la mia carta candida come il velo d’una sposa, e le mie penne asciutte come la borsa d’uno studente. Colla vita cittadina avevo ritrovato però il proposito del lavoro, e mi af[p. 228 modifica]frettai a scrivere al direttore dalle lettere gialle, promettendogli di fare subito qualche cosuccia per lui.

Ma promettere è facile, e mantenere è difficile. Dopo un lungo ozio avevo il cervello ossidato; e non sapevo come cavarmela, quando per buona sorte, mi giunse un’altra lettera del Direttore del giornale, il quale, per ringraziarmi della mia promessa, mi mandava una viola del pensiero.

— Se mi riescisse di far parlare questo fiore! — pensai, — di cavarne un apologo alla vecchia maniera, di quelli che sotto una forma più o meno dilettevole insegnano qualche cosa ai bimbi! Se ne sono fatti già tanti e tanti.... Ma che cosa non s’è fatto a questo mondo? Anzi gli altri sono un precedente per far accettare il mio.

E dopo questa breve discussione tra me e me, domandai alla viola: [p. 229 modifica]

— Avresti una storia tu?

— Chi non ha una storia? — mi rispose.

— È di quelle che insegnano qualche cosa ai bimbi?

— No; non è pei bimbi; insegna alle giovinette a non essere incostanti, a non lasciarsi abbagliare dalle qualità apparenti, a tener conto delle virtù serie e degli affetti provati, quando debbono fare una scelta...

— È quello che mi occorre. Me la vorresti narrare?

— Perchè no? Mi resta ancora succo vitale per alcune ore, le impiegherò a fare la mia confessione generale.

Ed ecco quanto mi disse la viola del pensiero: [p. 230 modifica]


La prima sensazione che provai destandomi alla vita fu un malessere inesprimibile. Un’afa pesante mi avvolgeva. Mi sentivo oppressa. Non c’era un soffio d’aria che mi desse forza di spiegare le foglie.

Mi riescì appena con grande fatica e con grande lentezza di socchiudere in punta i miei petali.

Il mio occhio giallo, dal centro del mio bruno volto, potè ricevere un po’ di luce, e prendere cognizione degli oggetti situati in linea retta dinanzi a quella specie di cannocchiale che i petali attorcigliati gli facevano intorno.

Per qualche tempo non potei discernere altro che una luce fosca intercettata da una [p. 231 modifica]specie di nebbia; ma a poco a poco, esercitando meglio la vista, mi accorsi che quella che mitigava la luce intorno a me non era punto nebbia; era una parete, che dalla curva che avevo dinanzi, e di cui non vedevo il termine, argomentai essere di forma circolare. Essa non era nè abbastanza trasparente da lasciarmi distinguere gli oggetti esterni, nè abbastanza opaca da privarmi di luce.

Hoffmann, quel bizzarro ingegno che conosce tutte le lingue delle cose che non parlano, ha detto a voi altri uomini che noi fiori non moriamo se non per rinascere poi a nuove vite, nelle quali, come Cagliostro, come il conte di San Germano, serbiamo memoria di tutte le esistenze anteriori.

Io avevo terminato la mia vita precedente frammezzo a due croci nell’occhiello dell’abito d’un uomo di Stato. E là, durante la mia lenta agonia, avevo inteso parlare delle citta[p. 232 modifica]delle di Alessandria, di Fenestrelle, dello Spielberg e dei Piombi.

Ora, al vedermi quella parete intorno, pensai con raccapriccio a quelle prigioni; e feci come i discepoli di Cristo alla vista del paralitico; mi domandai per qual colpa de’ miei padri ero stata condannata a quella pena.

A questo punto interruppi la viola per dirle:

— Scusa, mio bel fiorellino. Questa erudizione evangelica l’hai acquistata anch’essa fra le croci dell’uomo di Stato?

— Che! — mi rispose: — Quelle sono croci che non cominciano dalla passione e non vanno al Calvario.... Ma dove ero rimasta? Ho perduto il filo.

— Eri al principio della tua ultima esistenza, con quella specie di muraglia della China intorno...

— Ah! sì... Ora mi rammento. — E continuò: [p. 233 modifica]

Non saprei dire precisamente quanto tempo languissi nella penombra di quella prigione. Quando mi sentii mancare, mi posi a gridare invocando soccorso, e narrando le sofferenze che mi procurava quella specie di macchina pneumatica. Allora una voce gentile mi gridò:

— Abbi pazienza, Viola. Io ti vedo e ti sento e penso a liberarti.

— Grazie, — esclamai. — Ma sollecita, ti prego. Ho esaurito il poco carbonio che c’era qui dentro. Ora l’azoto e l’ossigeno mi asfissiano.

— Non posso affrettarmi quanto vorrei, — mi rispose la stessa voce. — Sono legato anch’io, e prima di muovermi debbo svincolarmi.

— Dimmi almeno il nome di questa carcere che mi rinchiude.

— Si chiama bicchiere.

— Bic....?

— chiere. [p. 234 modifica]

— Ma che! Bicchiere è un vaso di cui gli uomini si servono per bere.

— Appunto, Viola. Ti hanno capovolto addosso uno di quei vasi.

— Ma scusa. I bicchieri sono trasparenti; me l’hanno detto le foglie di rosa che erano avvezze a nuotarci dentro sul vino di Falerno; e questo mio carcere non è punto diafano, lo vedi.

— È perchè ha fatto freddo nella notte; la brina vi si è appiccicata per di fuori ed ha appannato il vetro.

— Non ci mancava altro. — Così mi si impedisce anche di vederti. Vorresti dirmi in compenso il tuo nome?

— Tulipano bruno.

— Ah! sei un nobile fiore. Fui una volta in Olanda con un ladro francese fuggito dalla Bastiglia, ed ho udito narrare la storia de’ tuoi avi. [p. 235 modifica]

— Non sei difficile ad accontentare nella scelta de’ tuoi compagni di viaggio, Viola.

Timidissima, come sono, fui mortificata da quel rimprovero, e non osai rispondere.

Intanto il tempo passava ed il Tulipano bruno non parlava più.

La mia situazione diveniva intollerabile; i miei petali ammolliti dall’aria pesante, mi si erano ripiegati sull’occhio; ero ricaduta nell’oscurità; il mio stelo si indeboliva sempre. Floscia, ricurva, sfiorando già col capo la terra aspettavo ad ogni minuto la morte; quando ad un tratto udii uno scricchiolìo, poi il rumore di qualche cosa che si spezza.

Al tempo stesso un corpo non molto pesante, ma spinto con impeto, diede un urto secco alla parete sinistra del bicchiere, che si rovesciò e cadde fuori dagli orli del vaso; lo udii frangersi rumorosamente ad una certa distanza al disotto di me; e, troppo debole per soppor[p. 236 modifica]tare il contatto immediato dell’aria, caddi, appassita per terra.



Mi ridestai al tepore d’un bel raggio di sole. Mi rizzai rinvigorita; aspirai l’aria pura che mi avvolgeva, stesi i petali foschi, ed apparvi in tutto il vigore della bellezza della gioventù.

Nella gioia di quel momento, non pensai che a godere della luce e della vita ricuperate. Mi trovavo sul davanzale d’un’ampia finestra, e guardavo intorno esaminando avidamente i luoghi e le cose.

Ma un olezzo noto mi susurrò:

— Quando n’avrai abbastanza di guardare in giro ti ricorderai pure di me? — [p. 237 modifica]

Era il Tulipano bruno. Quattro pezzi di legno stavano sul terreno intorno al mio liberatore. Uno di essi aveva il piede sul vaso del Tulipano, ed era steso in tutta la sua lunghezza traverso il mio.

Un lungo filo rosso e bianco attorcigliato giaceva fra i legni sulla terra mossa da quella rovina. Il Tulipano, libero da quei vincoli che lo tenevano ritto, aveva incurvato il suo lungo stelo, e colla bella testa toccava quasi la mia.

— Quanto ti debbo! — gli dissi: — ti sei privato per me di tutti i tuoi sostegni.

— Dacchè lo riconosci, — mi rispose, — ne sono largamente ricompensato.

— Come non riconoscerlo? — dissi eludendo il complimento. Fu certo questo legno steso dietro a me, che ha rovesciato il bicchiere maledetto.

— Oh mille volte maledetto; perchè era una barriera che ti divideva da me. [p. 238 modifica]

Mi sentii imbarazzata. Stetti alquanto in silenzio. Ma i pistilli bianchi del Tulipano mi volgevano sguardi d’amore. Per togliermi a quel fascino cercai di proseguire il discorso; e tornai a dire:

— Sei stato ben generoso a rinunciare per me alla tua nobile posizione verticale.

— Di’ che fui egoista piuttosto. Eravamo tanto lontani allora....

— Ed ora, — l’interruppi, — tutto il peso del capo ti gravita sullo stelo, e t’incurva tanto che nessuno ti vede più; non sembri più alto di me; guarda come sono vicine le nostre teste.

— Te ne lagni, Viola? — olezzò lieve lieve.

Lagnarmene! Io! Il suo profumo m’inebbriava; il suo sguardo attraeva il mio; un senso ignoto di dolcezza m’inondava il calice. Avrei voluto possedere la bellezza della camelia, il profumo della vaniglia; mi sentivo umile, bruna, piccina; ed una stilla trasparente bagnò il [p. 239 modifica]velluto delle mie foglie. Gli uomini la credettero rugiada, ma il Tulipano vide che era una lagrima. In quel punto passò un soffio di vento. Egli vi si piegò sotto, si lasciò spingere, ed il fulvo de’ suoi lunghi petali sfiorò il fulvo de’ miei, mentre tornava ad olezzare dolcemente.

— Te ne lagni, Viola?

Ma nel mondo degli uomini, dove l’amore fa tanto chiasso ed è tanto eloquente, il nostro amoruccio di fiori, semplice ed impacciato, deve sembrare ridicolo. Lascia dunque ch’io tenga per me le memorie di quelle espansioni soavi. Ti dirò solo che da quel giorno ed in quel bacio ci giurammo di amarci sempre; e lo zeffiro che ci aveva congiunti, portò a Flora il giuramento, con cui la Viola ed il Tulipano si erano fidanzati. [p. 240 modifica]


Quella felicità era troppo grande perchè potesse durare. Sopravvenne la fatalità che regnava su di noi sotto la forma d’una bella signora; vide i disastri accaduti, e, per buona sorte, ne incolpò di vento.

Ma tornò a rizzare sullo stelo il mio amico generoso, gli ripose intorno più saldi i bastoncini caduti, e lo rilegò più stretto di prima.

Un momento tremai di veder ricomparire anche il bicchiere; ma grazie al mio aspetto florido, quel supplizio mi fu risparmiato; e potevo vedere ancora, sebbene da lontano, il bel Tulipano il cui bacio mi aveva inebbriata.

È vero che, ritto così sulla sua alta persona, con quella barricata intorno, egli appariva [p. 241 modifica]fiero e superbo; e nel segreto del mio calice mi sentivo isolata, e rimpiangevo quella dolce espansione a cui l’avevano condotto un momento la generosità e l’amore.

Tuttavia i suoi pistilli mi guardavano sempre, il suo effluvio era sempre egualmente amorevole; ed io pensavo che gli dovevo la libertà e la vita; pensavo che era generoso e buono, ed ero felice del suo amore.

Così passarono tre ore senza che nulla turbasse la nostra pace; e la prova di quella lunga costanza, e le memorie di quel tempo trascorso insieme, riassodavano il nostro affetto.

In quella calma serena, senza agitazioni, senza tempeste, la vita mi era facile. Ma a poco a poco la noia cominciò ad insinuarsi nello spazio vuoto tra il Tulipano e me.

Per fortuna — allora dissi per fortuna, — una bestiolina verde, un bruco, venne a strisciare sugli orli del mio vaso. Sebbene fosse [p. 242 modifica]bruttina, la vista di quella bestiola mi divertì. Mi piaceva la flessibilità delle sue movenze, la facilità con cui si raccoglieva in un gruppo o si stendeva, modificando il portamento a seconda delle esigenze del cammino. Ella mi disse:

— Bella Viola, è un pezzo che vado strisciandoti intorno. Ammiro il tuo volto timido e pensoso. Lascia che mi avvicini a te; coprimi della tua ombra. Ti vorrò bene come una sorella. So che hai innamorato il Tulipano bruno; ma le barriere che ha intorno lo tengono lontano da te. Dammi ospitalità fra le tue foglie, e tu m’insegnerai parole d’amore; ed io andrò da te a lui e gliele recherò. Tu penserai per me, io striscierò per te. —

Lusingata dall’idea d’avere accanto un’amica, protesi fiduciosa le mie povere foglioline e vi raccolsi la bestiuccia strisciante. Ella tornò a dirmi: [p. 243 modifica]

— Quanto è bello il Tulipano bruno! Soffre di esserti lontano. Lo sguardo de’ suoi pistilli è pieno di tristezza; affidami parole di conforto che io gliele rechi sommesse, e sarà felice.

Ed io gli risposi:

— Non potresti dirgli nessuna cosa che non ci siamo già detta. Non intrometterti fra noi. Il tempo logorerà il filo che lo lega, ed allora saremo ancora uniti.

La bestiolina verde, irritata da quel rifiuto, si diede a suggere l’umore vitale alla mia radice. Mi sentivo indebolire, ma non sapevo il perchè; e tra il sole che mi ardeva, tra l’avidità della mia falsa amica, mi andavo lentamente struggendo. La bella signora che aveva riposto in ceppi il Tulipano, vedendomi in quello stato disse:

— Questa Viola va portata all’ombra. — E mi sollevò col mio vaso. [p. 244 modifica]

Allora la bestiolina verde strisciò rapidamente sull’orlo del vaso, e si lasciò cadere sulla finestra, poi si rimise a strisciare sul vaso del Tulipano bruno. Addolorato della mia partenza, coi pistilli rivolti verso di me, egli non si avvide della bestia. Ma io la vedevo avanzarsi lentamente fin presso lo stelo del mio nobile fiore, e mentre mi allontanavo colla signora, pensavo con ingannevole fiducia: «Quella bestiolina verde gli parlerà di me.»



La bella signora mi fece attraversare parecchie sale e gabinetti, e finalmente giunta ad un salottino giallo, aperse la finestra e mi pose accanto ad un magnifico Garofano rosso, in tutto il vigore d’una vegetazione ridondante. [p. 245 modifica]

Oh lo splendido fiore! I bei petali vivaci! Le belle foglie tese e verdeggianti! Il suo olezzo profumava l’aria tutt’intorno, e mi pareva che la presenza di quel fiore bello e forte, dovesse allietarmi la vita.

Nel nostro linguaggio di profumi, egli diceva cose sorprendenti; ne diceva molte e mi faceva passare di meraviglia in meraviglia. Pensai al linguaggio degli altri fiori, e mi parve triviale, e tornai ad ascoltare il Garofano.

Pensai al Tulipano bruno; ed anche il Tulipano non mi parve più bello.

— Che cosa gli dirà la bestiolina? — dicevo nel mio cuore. — Ed in fondo al calice una voce gelosa mi rispondeva:

— La bestiolina strisciante non gli parlerà per te ma per sè stessa. Si farà amare e tu sarai dimenticata. —

E tornavo a guardare il Garofano, poi rispondevo: [p. 246 modifica]

— Oh, che m’importa?......

Qui l’olezzo della povera Viola usciva lento ed a sbalzi, come se si vergognasse di quanto diceva. E non aveva torto. Io le dissi:

— Come! Amavi già anche il Garofano, Viola? Scusa, ma non posso farti complimenti sulla tua costanza.

— Te ne ho forse domandati? — ribattè con arroganza scotendo le foglioline, per dissipare l’abbattimento che le avevano cagionato quelle memorie. — Io ti racconto la mia storia al momento di finire questa vita. È un esame severo che faccio a me stessa; non cerco nè lodi nè biasimo. Non so se fra gli uomini sia lo stesso, ma nei fiori il sentimento si impone molte volte alla volontà ed alla ragione. Sentivo di dover tutto il mio cuore al Tulipano; ma mi trovavo sola, perduta in luoghi ignoti; e senza volerlo subivo il fascino di quell’altro fiore, più ardito, più appariscente, più forte. [p. 247 modifica]


Una volta il Garofano mi disse:

— Tu mi guardi, Viola, ed anch’io ti guardo... Accanto a te sento di star bene; i tuoi petali sono freschi e vellutati, ed il tuo olezzo lieve mi piace. Ma tu, non ami un altro fiore?

Ed io rinnegai il primo amore. Rinnegai l’amico buono e generoso che mi aveva salvata, e rivolsi la faccia al Garofano. — Allora il Garofano mi disse che mi amava, e quella parola, antica come il mondo, mi parve nuova, olezzata da lui. Egli mi avvolse nella sua ombra, ed io dimenticai il mondo dei fiori per lui. Stese verso di me le sue foglie acute con tanto impeto, che ne fui punta. Ma io amai il dolore e pensai: [p. 248 modifica]

— Se la bella signora mi ponesse nel suo vaso le nostre radici potrebbero congiungersi.

Egli indovinò il mio pensiero, e ripetè sommesso ed amoroso:

— Se la bella signora ti ponesse nel mio vaso le nostre radici potrebbero congiungersi.

In quella passò il vento, e sibilando mi gridò:

— E il Tulipano bruno! —

Ma io non l’ascoltai, ed il fischio del vento si perdette nello spazio.



Si faceva buio ed era vicina la notte. La bella signora venne alla finestra, sollevò col braccio destro il Garofano, prese me coll’altra mano, e ci portò dentro. Dove andavamo? Io [p. 249 modifica]non pensai al dove. Che mi importava dacchè partivo con lui?

Fece pochi passi e mi depose sopra una tavola del suo salotto. All’altro capo della tavola vidi il Tulipano bruno. La bella signora collocò lo splendido Garofano nel posto più evidente, ad un angolo del caminetto presso la lampada, poi andò a chiudere la finestra.

Ad un tratto una farfalla dalle ali azzurre si spiccò dalla parete e si pose a svolazzare intorno al lume accanto al Garofano. Era la bestiolina verde che aveva messo le ali. Allora il Garofano esalò verso di lei il suo profumo più acuto, per invitarla a posarsi sulle sue foglie.

A quella vista il mio povero calice si strinse per l’angoscia, e gridai al fiore brillante:

— Perchè non mi guardi più, Garofano? Non ti ricordi che hai detto d’amarmi! E che se la bella signora mi porrà nel tuo vaso le nostre radici si congiungeranno? [p. 250 modifica]

Egli mi rispose ridendo:

— Oh la piccola scimunita, che prende sul serio tutte le parole olezzate al vento! Non vedi ch’io sono grande e bello ed ho più profumo degli altri fiori? Sogni, povera violetta. A me la farfalla, che vive nell’aria, che sorvola alla terra, che domina lo spazio!

— Bada — gli dissi: — quando splendeva il sole, quella farfalla era un bruco, e strisciava sulla terra, strisciava sullo stelo dei fiori, e ne succhiava gli umori, e nella loro morte cercava la vita.

— Che m’importa il passato? Il bruco è scomparso, io amo l’oro e l’azzurro della farfalla.

Io tacqui, chinai la testa pensosa, e tutte le mie foglie stillarono. Ma il Garofano non lo vide. Allora il Tulipano mi disse:

— Viola; piangi perchè il Garofano non t’ama più, o piangi d’averlo amato? [p. 251 modifica]

Io scrutai profondamente il mio calice. Pensai al passato; pensai a tutto; guardai ancora una volta il Garofano vanitoso smemorato che folleggiava col bruco alato, e risposi:

— Piango d’averlo amato. —

Il Tulipano riprese:

— Vedi? il mio amore era più calmo, più ragionevole; inebbriava meno; ma era più durevole del suo. La bestiuccia verde strisciò sul mio stelo, salì sino ai miei petali; ma appena passò il vento, io mi agitai con esso e la respinsi, perchè amavo te sola. Il tempo e lo spazio si frapposero tra noi, e t’amai ancora. Mi dimenticasti per il Garofano, e ti amo sempre. Vuoi che ti perdoni? Dimmi che mi ami e ti perdonerò. —

Chinai il capo umiliata e commossa, e raccolta in me stessa, stetti pensando come rispondere a quella voce dolce e tranquilla che mi ripeteva la profferta clemente. Ero delusa [p. 252 modifica]del Garofano. Vedevo dov’era la verità, e mi sentivo felice di quel perdono.

Ma sarebbe troppo comoda la vita, se quando l’inganno non ha più seduzione per noi, bastasse tornare ai primi amori, per trovare ancora tutte le gioie dei cuori innocenti.

Mentre meditavo così la mia risposta, un dolore inatteso, acuto, infinito, mi strappò ai sogni della speranza.

Era la bella signora che m’aveva staccata dal ceppo. Ella mi porse ad un giovane in abito nero e guanti grigi, che uscì portandomi via.

Poco dopo egli mi pose in un foglio di carta scritta, la ripiegò, e rimasi qualche tempo nell’oscurità, sbalestrata in ogni senso.

Poi sentii lacerare la carta, spiegarla, e mi trovai qui.

Mi restavano pochi minuti di vita; tu li prolungasti colle tue cure, e muoio ringraziandoti. [p. 253 modifica]

— Un momento, Viola! — gridai — non morire ancora. E la morale da mettere in fondo?

— Chiama Tizio e Caio il Garofano ed il Tulipano, chiama la Viola Sempronia, e la morale salta agli occhi di tutti.

— E se a qualcuno non salta agli occhi?

— Vuol dire che è cieco e peggio per lui.

Non ebbe forza di dir altro. Rimase appassita; e così finì la storia della Viola.