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232 ATTO PRIMO

Pantalone. E, te, niente. Mi gnente? Aspettè. (fa diverse figure colle dita per esprimersi, ma non esprime niente di bene) Mi... a- vu tanto... che... mai... più... Ve lo digo colle man, colla bocca, col cuor e colle visceronazze.

Argentina. Mi date licenza ch’io parli?

Pantalone. Sì, parla.

Argentina. Non vi credo.

Pantalone. Giera meggio che ti tasessi.

Argentina. Se mi volete bene, m’avete da far un piacere.

Pantalone. Cossa vustu?

Argentina. Ho veduto passeggiar nel cortile il signor Ottavio; l’avete da ricevere e gli avete da far buona ciera.

Pantalone. Te l’ho dito delle altre volte: mi no vôi seccature. Vegno in campagna per góder la mia libertà, no vôi visite, no vôi complimenti, no vôi nissun.

Argentina. Mi avete pur promesso di riceverlo.

Pantalone. Ho dito de sì, perchè colle to smorfie ti m’ha fatto dir de sì per forza. Ma te digo che no voggio nissun.

Argentina. Siete pur sofistico.

Pantalone. O sofistico, o altro, la voggio cussì.

Argentina. Siete peggio d’un satiro.

Pantalone. Son chi son, e no me stè a seccar.

Argentina. Più che andate in là, più diventate rabbioso.

Pantalone. Vustu taser, frasconazza?

Argentina. Siete insoffribile.

Pantalone. A mi, desgraziada?

Argentina. Ma son la vostra cara Argentina. (ridendo con grazia)

Pantalone. (Siestu maledetta! co son per andar in collera, la me fa zo). (da sè)

Argentina. Ma sono la vostra cara Argentina.

Pantalone. Sì, baronazza, sì, te voggio ben... ma ti gh’ha una lengua...

Argentina. E mi farete questo piacere. (con vezzo)

Pantalone. De cossa?

Argentina. Di ricevere il signor Ottavio. (come sopra)