L'Altrieri (1910)/Lisa

Lisa

../Nota bibliografica ../Panche di scuola IncludiIntestazione 30 aprile 2016 25% Da definire

Nota bibliografica Panche di scuola
[p. 10 modifica]

Lisa.

I vecchi Re Magi — questi buoni amici dei fanciullini — avèvano già, per la sesta volta, colla lor stella chiomata, i loro carri zeppi di scàtole misteriose, i loro elefanti, i loro muli a pennacchi e a sonagliere, la loro famiglia color cioccolata, dai grandi anelli alle orecchie, fatto tintinnire i vetri della mia finestra, quando mi apparve.... chi? — dirò poi. Io, proprio in quel giorno, al baturlare di un tamburello, aveva nettamente saltato quella famosa cordicina che, per detto del catechismo, divide la cecità dalla chiaroveggenza, l’avventatàggine dalla posatezza; io, al di là del confine, doveva, con la intirizzita gonnelluccia (scambiata contro un pajo di calzoncini) avere svestito ogni capriccio, ogni bambineria.... Cioè! adagio.... almeno voleva così mio padre. L’eccellente persona! Guardando con superbiuzza il suo ben stampato bambino, sclamava: — ve’, gli è un ometto, ora. — Ch’io per altro lo fossi, ne dubito; anzi, riflettèndoci un pochino, sono sicuro di no. Inquantochè, cari mièi, per èssere uomo non mi bastava, certo, balbettare più nè dindobambopappo se, moralmente portavo cèrcine ancora e camminavo in [p. 11 modifica]ciò. E questo, le molte sbarre, ramate, inferriate che voi vedete ancora oggidì nei luoghi pericolosi del nostro giardino ed i giallicci conti del farmacista, lunghi come la fame — conti in cui le parole di ccrollo e di àrnica si altè rnano fino alla somma — Io cantano.

Ma qui, a scusa mia e d’ogni folletto di bimbo, confiderò alle sfiduciale mammine una incuorante opinione. Non la giurerèi, avverto; pure, credo che non la sia errata del tutto.

Voglio dire che come vi sono le fisiche espulsioni, quali le forse, la rosolìa, la scarlattina od altre ed altre, così ve ne devono èssere anche di morali, e pur benedette, poiché per esse qualcuno di noi riesce a spazzarsi via, tutta o in parte, la cattiveria infusagli dai genitori.

E — qual frùgolo ero allora, qual nabisso!

Dal punto che, godutami una dormitona, io cominciava a zampettare sotto le lenzuola, a quello in cui, scalcagnato, infangato, cadevo sopraccollo dal sonno sul canapè della sala, fate conto ch’io fossf come in mezzo alle ortiche.

Quanto diavolerìe! (pianti dispetti! Per non dire de’ ciòttoli ch’io lanciavo sui tegoli contro i piccioni o contro qualche grazioso gattino che si leccava quetamente i balletti e spiluccàvasi al sole; lasciando stare le girellelte de’ seggioloni strappate, gli squassati àlberi gravi di frutti, i sotterranei da talpe minati e sìmili piccolezze, io non poteva, a ino’ d’esempio, passar vicino a un vassojo carco di bicchieri e di chicchere, senza formicolare dalla pnirìgine di mandarlo in frantumi, nè, incontrando un contadinello, vìncer In smania di regalargli uno scapezzone o almeno almeno, un gambetto.

E, trottar sui viali.... lo sperereste? Chèli!

Era sempre al di là de’ concordati, a traverso pòpoli di vainiglia e garòfani, pestando gerani, [p. 12 modifica]fracassando vitrei guardameloni, vasi da margotte in una parola, insalando ben bene la faticata minestra di Tonio, il nostro ortolano — Tonio — il cui greggio faccione m’ho tratto tratto innanzi, grottescamente atterrito, fiso agli adaquatòi del giardino, che nuotano presso il zampillo d’una ampia vasca. LTn giorno poi (e questo è il solo dispetto in cui c’entri pazienza stratagliài il disegno della facciata di casa, forbicià ndolo finestra per finestra, porta per porta; un altro — versato sul busto in gesso del nonno, un calamajo ben pieno — per compir l’opera, m’inchiostrai viso, panni, camicia.

E a dire che intanto i miei buoni parenti ricamavano con seta ed oro mille e mille progetti sul mio avvenire! La prima agugliata, essi l’avèvano infilala (piando il mèdico del vili aggio, intascando un greve rotoletto — irfest il mio pedaggio per qui — lor presentava con prosopopè a una sentenza, chissà (piante volte riattepidita, (piella cioè che la testa del neonato, essendo di una misura e di una montuosità non comuni, indubbiamente pronosticava un uomo dai ventidùe ai ventiquattro carati: nientemeno 1 Lppure, essi, credèndoci, allinchè non fallisse un così grande avvenire mi avevano di presta ora stanato tutti quéi pochi maestri che un pìccol villaggio come Pravcrdc (in cui vivevamo, lavorando mio padre le sue tenute poteva ospitare.

Ma e che ne veniva?

Pòvero organista! — un vecchietto dai capelli bianchi, e dalla voce saltellante, Avèa bel tenermi le dila sui tasti; io mi sentiva sempre addosso il prurito: avèa bel spiegarmi il valore delle semibiscrome; io mi agitava intanto ’ o sullo sgabelletto e, cercando con i piedini (clic non toccàvano terra il pedale della gran cassa, [p. 13 modifica]andavo, sul più buono della ricerca, a gambe levate, io e il sedile.

E, press’a poco con il maestro di disegno — un piccolino, débole, magro e dalla voce velala.

Infelice! Era la ventesima volta ch’egli si metteva a corrèggermi la foglia (lezione ottava) o la roccia (lezione nona) tornandomi a spiegare, per filo e per segno, il da farsi; io invece, concentrava tutta la niia attenzione a rompere la mezza pagnotta destinata alla cancellatura ed a gettarne i pezzi, uno per lino, sotto la tàvola, verso le fàuci di quel bracco che li abboccava a metà viaggio con imperturbà bile franchezza.

Dunque, per ricondurci in chiave, èrano ben tre mesi che Nencia, spigolando ritagli di grembiali, avanzi di nastri, merletti, cinigli, imbastiva già il bizzarro abbigliamento pel futuro ceppo di Natale — allorché io, la prima volta la vidi.

Fu tra il chiaro ed il bujo. Io mi trovava su uno scaglione della gradinata che metteva in giardino — nii vi trovavo, analizzando, con una tanaglia trafugata al legnajolo, un girarrosto complicatissimo — quando, sul ripiano, nello squarcio della porta, si fece, insieme alla onesta tonda persona di mio padre, quella, svelta, di uno sconosciuto, dall’aria melanconica, pàllido, con i mostacchi biondi. E questo signore teneva per mano una ragazzina di circa settenni, in una robuccia strozzata alla vita, nera, sulla quale staccàvano i bianchi polsini e l’inamidato colletto — una ragazzina gentile di complessione, graziosa nelle movenze; insomma, di quelle fràgili creature da scatolino e bambagia in cui l’ànima è tutto. Gli occhi di lei lucentissimi, lasciàvano, per così dire, lo sguardo dove fissàvansi. [p. 14 modifica]

— Marchese — diceva il babbo ai nuovo arrivato — questo è il giardino. Spazioso, ha molta ombra, e quanto più preme, è sicuro.... La vostra cara figliuola col mio demonietto.... — 10 salii verso loro.

— Ah! eccolo appunto, — esclamò mio padre.

— La nostra speranza! — aggiunse nell’indicare al nòbil signore, mè, suo impacciucato erede.

Il marchese mi fe’ un complimento. Qui noi ripeto, ma esso sta ancora, ci scommetterei, in cuore a babbo. Poi: — Giuocherài, n’è vero? — domandò egli con la mia Già, 0....0.... — e dovette interrómpersi, non conoscendo il nome del vostro amico scrittore.

— Mi chiamo Guido — gli dissi — Guido è un gran bel nome — aggiunsi con forte convinzione.

— Certo — sorrise egli.

— Ed io vorrò molto bene alla tua bimba — continuai. — Mi piace tanto, ve’!

— Allora — disse il marchese volgendosi alla bambina che si serrava timidamente a’ suoi panni — giacché il nostro Guido è così gentile, gli offriremo una mela, eh? — Lisa ne cavò due dalle sue taschine e me le porse.

— Tie’ — disse.

— Grazie — risposi. E, senza esitare, le aggraffai ambe, ne insaccocciài una, addentai l’altra.

— Sei pur buona, Già. Dammi un bacio.— La bimba aguzzò le labbra. Inutilmente.

— Ah!... già — riflettèi, orgogliosetto della mia statura — sono troppo alto, io — per cui, di botto, chinàtomi, le stampài sulle gote un par di baci sonori — Uno, due.... — Poi?., poi, pigliatole la mano, la trassi a corsa con me.

Stendèvansi, ove noi correvamo, le mie posse s[p. 15 modifica]sioni — cinque o sei metri quadrati di terra che il giardiniere, com’io ne avèa sentita vaghezza, mi aveva tosto concesso, imaginando il brav’uomo di così scampare i mille altri. A voi il dire se tale speranza potesse aver fondamento ! Sta il fatto che il pìccolo già si mangiava il grande giardino e Tonio se ne convinse ben presto, che, venendo sul mio per qualche irreperìbil falcetto, ivi scapucciava sempre e nella vanga e nel badile e in fasci di sbarbicate piantelle.

Del resto, tuttoché io continuassi, secondo il sistema delle formiche, ad ammassarvi roba su roba, certamente il mio parco non respirava ricchezza. Al contrario! Di verzura, filo: non vi si scorgevano che foglie e rami secchi, buche profonde, mucchi di sassi; un mastello interrato (il lago) pieno di un’aqua che parca sugo di lenti, pali con corde — a scopi ignoti anche per mò — più, sparpagliati, cocci di vasi, gambe di sedie, un caldarino rollo, un crivello, due parafuoco (e intanto mamma si disperava a cercarli), in poclle parole, un guazzabuglio, una confusione di cose.

Di notàbile, nulla. Tuttavìa, siccome Lisa mi era stranamente andata a genio e siccome di parlantina non ne mancavo, così dièdimi ad illustrarle la suaccennata grillaja come se si trattasse degli orti di Babilonia. Nè me ne stetti al solo presente, no: di voglia intaccài l’avvenire

le dissi cioè, quanti e quali disegni astrologava il mio biondo ciuffetto, anzi, mi lasciài andare verso di lei alle più strane, gelose confidenze.

Imperocché, figuràtevi, io le aprii il quia — quel quia di cui mio padre avèa dovuto pulirsi la bocca — sopra una buca che vaneggiava a’ pie* nostri; come essa fosse strada alla scoperta di un tesorone di soldi d’oro [p. 16 modifica](Già sbarrò gli occhi profondo.... una schioppettata e mezza; nascosto, dicèa il cocchiere, or fa millanlanni dal He Salomone — il (filale noi spartiremo — poi, accennando a varie assi scheggiate, le sussurrai a M’orecchio, che. se io avessi potuto trovare certi lunghi chiodi, che m’intendevo, ero sicuro di costruirne una disellimi sul gusto di quella delle chiòcciole....

colla differenza peraltro che volerebbe la volerebbe

e, noi — aggiunsi — ruberemo la luna.; Ciò mise la fanciullina di buon umore. Ed ella, che avèa centellalo, assaporalo le mie parole, che come carta sugante se 11 era imbevuta — finito ch’io ebbi — vinta una leggiera riluttanza, cominciò dal canto suo, con una voce sottile, accarezzante, a digabbiare colombini pensieri, a confidarmi i suoi segre lucci. Mi contò su, fra gli altri, ch’ella era la fortunata mammina di una poppatola, alta si e sì — imbaulala per anco — la quale possedeva de’ veri e ricci capelli, occhi di smalto, che si movevano; vesti, più che più.... un ombrellino.... pèttini, scarpette....

Dio! che frégola io sentii di toccarla: — (ila, lo permetterài? — Essa me lo promise Mia sbrigala, c innamorammo l’uno dell’altro, ci prendemmo tanto, che, quando Nencia venne per appollajarci, noi.

in quella, barattavamo le impronusse.

Una settimana dopo — due ànime in un nòcciolo.

Dove mi si trovava, certo, voi vedevate anche la bimba, salvo se l’aspettassi e, lei non giungendo, io non poteva requiare. E, a goccia a goccia, ci subentrò il costume — al gémere della caffettiera — di scéndere nel giardino e là, sul prateilo di fronte alla casa, produrre ciascuno fuori, una quantità di scamùzzoli di vivande, raccolti e messi da parte a tàvola, trin[p. 17 modifica]ciarne alcuni, ricuòcerne altri — poi — insieme alla bàmbola (quella graziosa donnina di legno, sopr’annunziata da Lisa e che mio babbo già mi citava come un model di saviezza) incominciare un pranzettino con istoviglie e cristalli da Lilliputiani. Appresso il (piale, persuadevo hi (iìa a rassettarsi entro la nostra carrozza, carrcttàiulola con trabalzi su e giù per i fiori e gli ortaggi e ribaltandola di tempo in tempo, o pure — e questo le quadrava di più — offertole il braccio, ci incamminavamo come due vecchiotti, piede innanzi piede, schizzando nell’ aria mille ed uno progetti.... da murarsi allorquando, sul dosso gli anni e i soldi nelle tasche, ci si sarebbero ammonticchiati — progetti capaci, se messi in òpera, di mutare la faccia del mondo. SE! tuttavìa; perocché, giudicatene: ora, trattàvasi di succhiellare un pozzo della tirata di un milione di leghe; ora, di procurarci la famosa pólvere di Pimpirlimpina che fa nàscer le ova dai sacelli e sparir le pallòttole.

Ed era allora altresì, che, tra lo sciorinamento (l’un piano e la narrazione di un sogno noi sognavamo sempre: in generale io, la notte, m’acciapinavo a zeppar bauli inempìbili e a intrabbicolar sulle sedie; (ììa parpaglionava attorno alle rose e sorrade va, volando, le scale) che tra un sogno, dico, e un piano — ci scambiavamo i più carini presenti.... Orecchini di ciliegie, collane di azzcruóle, cestelli di bòzzoli e di ossi di frutta.... tutti accomodali nella bambagia, in astucci da fiammiferi o penne, incartati di bianco e stretti da rossi nastri ni di seta.

Rasentandosi poi continuamente, i nostri carà tteri — come due palline di mercurio — Unirono a conglobarsi. Sfumali sei mesi, io poteva già assistere alla distribuzione di bricie di pane Dossi. 2 [p. 18 modifica]che Lisa, nel labbreggiar billi billi.... usava di fare ogni mattina all’uscio del gallinajo; potevo sentirmi tutto in giro, polli, chioccie, anitrocclii, galli dal rosso bargiglione e dalla cresta superba, gracidando, pigolando, senza che mi saltasse l’abituale ticchio di scompigliarli, e Già dal canto suo, la timida Già, si trastullava anche lei a battagliare sull’aja gettandomi bracciate e bracciate di fieno, o, gentilmente, con un cappello alla marinaresca e un bottaccio di limonca, a far da cantiniera al mio esèrcito. Sul quale esèrcito.... due cenni.

Guerra io l’avèa sempre nudrila contro ai polli che osavano passar l’imprunato del nostro giardino: le ostilità, sospese per la venuta di Lisa, dal moltiplicarsi delle scorrerìe nemiche, si èrano, necessariamente, riaperte.

E fu, da parte mia, con un esèrcito di contadinelli; — intorno a dieci. Li aveste veduti!

Schierati innanzi a mè con i pie’ nudi staccanti nel verde cupo dell’erba, silenziosissimi jo capitanava a bacchetta) portavano sulle bionde testine, un po’ in traverso, bianche calze da donna e, nelle mani, alla cìntola, armi di ogni fatta.... mànichi di scopa, sciàbole di acanto, ferri da tende, pistole di sambuco.... Martorelli graziosi! La scoletta intanto aspettava.

Ma, anche con tali ajuli, la guerra non riusciva a risultati soddisfacenti; anzi, fuorché da un mìlite che si allettava la punta di un dito nel tagliare una mela — salsa di pomidoro non signori nemici, troppe porte foravano le siepi, ed io, rattacconate venti volte le scarpe, non avèa raccolto, al post litio, sui campi dell’onore che una penna di gallo — la penna fieramente piantata nel mio berretto.

Finalmente, un «nomo, coni’io e Lisa, coccolo¬ [p. 19 modifica]ni in mezzo a un’ajuola, spiccavamo maggiostrc e ciò tanto per disallegarci i denti dall’ acerbezza di non so che frutta), udimmo grida, bàtter di mano, e vidimo la nostra ragazzaglia, che sparpagliata guardava i confini del campo, córrere attnippandosi verso di noi: dinanzi a tutti, Cecco, il mio luogotenente, reggeva alto per le zampe un pollo.

Io mi rialzili di botto; ridivenni il capitano.

Insaccocciavo carta bianca sul come trattare i prigionieri pennuti e lo confesso, trovandomi alla fin dei fini, averne uno, inclinavo verso la proposta di Cecco — quella di giustiziarlo.

5e non per crudeltà, certo, mosso dal nuovo.

Ma Già intervenne.

— Guido — pregò essa dolcemente, tirandomi per la mànica — làscialo andare.... — Io ebbi un moto di stupore. In verità la domanda oltrepassava i tegoli.

— Ebbene — riappiccò Lisa, dopo una cucchiajata di silenzio — non uccìderlo almeno.

Portiamolo a babbo, Guidelia. — Io rimasi intradùe. Guardài la bambina, fissai gli occhi sul malcapitato, mi grattài la nuca.

... ma.... Ma dirle di no, non potevo.

— Sia — sospirài. — Portiamolo a babbo. — Lisa balzò di gioja e mi mandò per l’aria un bacetto. De’ miei guerrieri èbbevi tali che applaudirono, tali che grugnàrono.

— Silenzio! — comandài. — In fila. — La fanciullaja si ordinò — nè più disse motto.

Pesche! ella covava una ladra paura (pensavo in quel tempo) per certe mie pistole di latta che recavo alla cìntola; adesso invece, lo giurerei, pei quarti d’ora che ai disobbedienti facevo contare, oltre generosi cazzotti, dietro alla ramata di una moscajuola od al graticcio di un i capponaja; poi, banda in testa (la nostra [p. 20 modifica]banda si componeva di uno zùfolo, un tamburo stonato, e due coperchi di casserola).... marciammo verso la casa.

Babbo dormiva. Dormiva precisamente nel suo fresco studiolo, dove ogni dì, dopo il pranzo meridiano, egli si ritirava con qualche gazzetta, oppure, con un certo libro piuttosto grosso

un libro del quale non mi sovviene il tìtolo, ma benìssimo due pàgine giallo-rossastre, macchiate di calle e di vino, con una carta da tresette per segno (le sole pàgine, credo, che conoscessimo, io e babbo, di lui) quando.... Vìi!

fu proprio peccato, svegliarlo. Che faccia assonnata ci mostrò egli nell*aprire ai nostri picchi l’uscio, comparendo in mànica di camìcia, mutande e pantòfole! Tuttavìa non ci rabbuffò: al contrario: raccomandatoci di andar pianini pel bujo, intanto ch’egli tastava a sbarrar le imposte, e sedutosi allo scrittoio, coll’aria hi più buona del mondo chièseci che volevamo.

Io allora, gloriosetto, deposi sopra la tàvola il prigioniero legato e, dal c’era una volta un rè a la panzana è bella e finita, spilferai su la cosa.

— Bravissimo — disse mio padre, soppesando il pollastro. E tòltasi dal borsellino una lucente lira, me la chiuse in mano.

— Vi ha — aggiunse — molti topacci in giardino.

Io ne dò un soldo la coda.

— Morte ai topi! — gridài con ferocia.

— Morte! — echeggiarono i miei.

Babbo si mise le palme alle orecchie.

E — quel giorno — fu la gran festa per tutti noi. Io aveva montato un piuolo nella stima di babbo, il mio esèrcito sgretolava un cartoccio di màndorle confettate, segno della mia alta soddisfazione, e quanto a Già. In si sentiva allegra come rondinella reputandosi la [p. 21 modifica]salvatrice di un’innocente bestiuola. È vero che poco dopo, mio padre, accomodando a pranzo sul piatto pezzi tagliati di carne con becco, avvertito da una tosse ostinata del servitore: ve’ la caccia di Guido — esclamò; è vero, ma Lisa, questo, non lo seppe mai.... mai....

Allorché ci penso, che bei tempi òran quelli!

Quante volte io mi sento ancor presso alla mia pìccola compagna, su quella ringhiera che rispondeva sopra la via, gonfiando bolle di sapone, le quali, staccatesi dalla cannuccia (oh!

le granate di casa) tremolavano, cullàvansi nello spazio, poi, divenute colore cangiante, trasparentissime — a gran dispetto di quattro o cinque ragazzi che li attendevano, la bocca aperta, svanivano; e quante volte anche, mi trovo faccia 4a faccia colla mia cara bimba la sera, a costrurre sul tavolino, rattenendo il fiato, torri di tarocchi e ridendo di gusto quando, per un bulTo del mio cattivo babbiiio, le sprofondinoli di colpo.

E voi, minuti d’oro, ho forse mai obliati?

minuti in cui — con de’ cappelloni di paglia — accoccolati sotto una vite, tra le frasche, i tortuosi ceppi, i pàmpani, noi sgranavamo il rosario dei gràppoli? Ah no — voi lo sapete — sempre io mi ricorderò di voi, sempre, come della intensa gioja che in noi crepitava veggemlo disserrarsi il chiusino del forno e uscirne, sopra la pala càrica di scroscianti fragranti pagnotte, i panettucci* grossi non più di noci, per noi; come del sapore di quelle gentili colazioncine di pane giallo nuotante in iscodelle di freschissimo latte — straripetute, insieme a Nencia, nelle capanne, fra una covata di bimbi ed una di pulcini, intanto che i bachi, brucando su pe’ cannicci la foglia, sembravano, con il fruscio, contare già i venti-lire del loro pa[p. 22 modifica]drone o strascicarsi dietro la sèrica vesta della signora.

Sì! lo ripeto, quelli èrano pure i bei tempi. Ma, Dio! Mentre là — dove il ruscello scendeva più lentamente sulla finissima erba, sotto il rezzo de’ pioppi, clic frascheggiando si salutà vano di continuo — noi ascoltavamo il trottolare di Nencia intorno o al vecchio incantatore Merlino o allo stregazzo di Benevento, una volta, Lisa, io la scòrsi raccapricciare tutta come allo sgrigiolìo di un ferro e volgersi, pàllida, con sospetto.

Proprio io non saprèi dirvi il punto in cui primieramente ciò avvenne, ma so che d’allora in poi pàrvemi l’aria appesantirsi come una mola mugnaja, pàrvemi che un nemico invisìbile ci seguisse dovunque, intristendo, avvizzendo la mia delicata Già e so che quando questa creaturina gricciolava, io le chiedeva: che hai? — a bassa voce, a bassa voce. Allora essa, serrandomi con passione la mano: m’iian stranamente chiamata — rispondeva. Ed io rimuginava con lo sguardo attorno: dallo stesso non incontrare mai niente, io, il rischioso fanciullo, soffocavo dalla paura.

E passane, passane — un dì — la mia tórtora, stringendosi più del consueto a mò, susurrò tremante di aver/o veduto. Era, per detto di lei, un viso ovale, smorto, colle occhiaje lìvide, che le appariva nel folto della fratta, la guaiava immòbile.... dileguava. Dio! Clic terrìbile dormiveglia io ne ebbi, la notte. Quantunque mi sentissi ancora nella mia càmera, nel mio letto, quantunque al chiaro di luna distinguessi uno per uno gli arredi, nondimeno e’ mi pareva anche di starmi in una praterìa di sprofondata lunghezza, tutta a fiori, che mi rendeva aria di un’insalata d’indivia sparsa di nasturci e begliò[p. 23 modifica]mini, in cui scorrèvano lìmpidi ramicelli d’aqua, inlertenèvansi crocchi di pini, ma dove, come nel vuoto, non propagàvasi rumore. Ed ecco staccarsi dall’estremo orizzonte, ecco ingrandirsi una massa informe (qui la memoria mi zoppica) una specie di ragno iperbòlico, giallo-limone, macchiato di nero, enfio, glutinoso, a grumi di sangue, bava, dai mille bracci, che — nel procèdere a saltacchioni o dondolandosi sulle anche — altalenava.

Allora i bei fiorelli essiccàronsi, impallidì il raggio del sole, appannàronsi i canalucci.

E quel mollame si avanza sempre, senza pietà , lasciando una lunga striscia come di arso, uno schicchoramento di lumaca, si avanzava e.... Colto dallo spavento io mi snicchiài dalle coltri, tombolai con lenzuola e imbottita, in un fascio, suirinlavolalo. Poi, riparai da mamma.

La buona donna, toccatomi la fronte che mi scottava, interrogatomi gli occhi c la lingua, tali scongiurò di non mangiar troppi lamponi.

Oli ! pel sogno ciò poteva essere, ma, storielle da nonna! per la realtà, non vi èrano nè lamponi nè susine. Per la realtà, la convinzione che qualcuno, che qualchecosa invidiasse alla felicità nostra, se non procedeva da un ragionamento lardellalo di sillogismi, veniva da un profondo misterioso senso c, tuttoché non ce la confidassimo, noi la provavamo ambedùc e sapevamo di provarla.

E sotto l’ombra di tale nero presagio, buon dato di quella briccona filatera di santi che immalinconisce il taccuino — colle sue piaghe, le glorie, i brevetti — passò.

(ìiunsc rottantasettèsimo. — Noi correvamo nel giardino; Lisa, dietro di ni è per pigliarmi; io, sostando ogni tanto, a volgermi verso lei, a rìdere, a farle bocchi.... [p. 24 modifica]

Ma, a un tratto, la veggo arrostarsi, Ella arrossa, vacilla j presa da sùbita ambascia, poggia il capo ad un tronco, tossendo violentemente.

Ed io mi rimasi impietrito.... cioè a dire mi sa rèi creduto di pietra se il cuore non mi fosse balzato a strappi. Riavèndomi, le volai a presso.

— 0 Già! — esclamili.

L’ìmpeto era cessato. Ella asciugossi le ciglia, tornò sereno il visi no ed inghiottendo un singulto

— f- niente, ve’, Guido — mormorò.

Oh! sì! niente.... ma intanto suo padre spiegazzava, nervoso, i guanti e più che fumare masticava gli zìgari, buttandone via il mozzicone con rabbia; ma intanto i miei gen tori, guardando la piccolina, parlottavano tra di loro, poi mi raccomandavano di non strapazzarci, di stare in riguardo.... Dunque, niente? ma — in questo — Già viveva, sì può dire, di limatura, s’assottigliava viepiù, traluceva a guisa di ambra Niente, niente! ed essa ingollava 7 O certi cucchìajoni di lìquidi crassi, mucilaginosi, la cui sola veduta impauriva inè non uso clic a spizzichi di santonina, a qualche po’ di magnesia.

Eppure era destino che ii dolore fisico e le pozioni non dovessero, soli, distrùggerla.

Pòvera Lisa! vedetela Ella si dirige alla i»

gabbia del suo caro uccellino, (il quel pàssero delie Canarie che, saltando sullo sportello del palazzotto in vìmini-, usava spiccare dalle labbra stesse di le* il pinocchio; che si gentilmente aliava di ballatoio in ballatojo c sciaguattava nel beverino i pieducei e beccucchiava il suo rottame di zùcchero.... L’amato cip-cip è là, sulla sabbietta, irrigidito, le ali [p. 25 modifica]sciupate, la pupilla nebbiata. Ella ribrezza, stende la mano su lui. Con uno sbàttiti che le traspare nel viso, se ravvicina, se lo preme alla guancia....

E stette in ascolto: nulla. (ìli occhi le si fecero rossi, arricciò le labbra, diede in uno scoppio di pianto. Uno scoppio si forte, così straziante che io mi stupisco ancora di non avere veduto il canarino drizzarsele in su la palma, vispo, ricominciando il suo gorgheggio, uno scoppio che, quando il cielo e Tannila mia son bruni bruni, riodo. Mi volgo allora a cercarla

inutilmente!

Ed altri ed altri dì scomparirono. Infine....

11 giorno era stalo caldissimo; uno di que* giorni di estate in cui non svetta un fil d’erba, in cui ti senti addosso, ovunque t’appiatti, un fastidio, un disagio, una nausea, e pare, che tè (stesso e lutto che ti circonda raggiunga il oo o peso morto de* corpi inzuppati. K l’aspettazione di un temporale, grande, che sembra imminente ma che non viene mai: nelTaria, un rombo, un bombitare come di api intorno al melario.

Senonchò le stelle èrano apparse: con esse il fresco.

Xoi ci trovavamo in sala. Mio babbo ad un tàvolo, sotto il giallo lume della lucerna sudava, come di sòlito, la sua camicia, pigliandosela coll’àbaco, tra una moltìplica che non batteva mai giusto e un ealamajo stopposo; il marchese, in piedi, accostalo allo stìpite della porla che riusciva sopra la scalèa, fisava, collo zìgaro in bocca, d’1111 fare astratto, i cieli; noi intanto, Lisa ed io, aggruppati sulla medésima sedia presso il clavicèmbalo cui sedeva mia mamma, ascoltavamo con angoscia quelli accenti tristissimi, quel nodo alla gola, quello [p. 26 modifica]stracciamento di cuore, che Wèber lasciò insieme alla vita nel suo «ultimo pensiero».

E gli accordi estremi — note fiacche, soffocate, a sbalzi — singhiozzarono nelle nostre ànime. Già mi si strinse al braccio.

— Guido.... — cominciò debolmente.

La interrogai collo sguardo.

— Andiamo alTaperto.... — Nessuno si oppose: uscimmo.

La viuzza, che per la prima si offriva, storcè vasi, grigia, in mezzo all’erboso punteggiato di scintillanti lùcide, e, non molto lontano, metteva capo ad un rialzo di terra e ad un boschetto di robinie. Prendendola, com’io inachinalmente dava dietro di me un*occhiata? pàrvemi l’alta persona del marchese spiccarsi dall’ardente vano della porta, poi córrere lungo il muro esterno di casa sul quale la luna tendeva lenzuoli di splendente bianchezza; pàrvemi, dico. Noi continuammo il nostro cammino, passo a passo, rat tenendo di parlare.

Con quale fatica la fanciullina si trasse su per l’ascesa ed era dolce salita) come anelante, affranta, si abbandonò sul sedile!

Là c’intorniàvan robinie. L’ombre di esse, una di cui ci copriva, allungàvansi tra le gambe delle panchette, sul suolo, bizzarramente; e, negli squarci da fusto a fusto, scorgòvasi giù sciorinata la campagna, gibbosa, sparsa di villaggi dai lucenti tetti d’ardesia, macchiata da querceti — masse nere, cupe. In fondo, una benda argentina: il Po; al di là, terra terra, un fumoso chiarore (esalazioni appestate): una città.

Appresso, tutto si confondeva col cielo, d un azzurro cinereo, gioiellato di stelle che lappoleggià vano senza posa e dalle quali staceàvansi di tempo in tempo ràpide striscio di fuoco.

Era la calma, solenne; nè la rompeva il mo[p. 27 modifica]nòtono continuo grillare, nè della cornacchia il sinistro, rado era era.

Che notte strana! — fé’ Già raccogliendo l’àlito, con suono, che, più dolce, più carezzante, io non le avèa udito mai.

— Non è vero che è strana? — Taqui. Essa continuò: — Stasera mi chiamano da ogni parte....

ascolta.... il mio nome tintinna come in suono di baci.... piccolini.... piccolini. Io mi sento leggiera, più leggiera di una pennamatta.... volo, vado come in dileguo.... — E azzittì. Poi capriccio. Sopra di noi, ad un frullo, s’era mosso il fogliame.

Gocciarono silenziosi momenti.

Di botto: — Vedesti tu il mare? — mi domandò essa.

Risposi con un: no — appena udibile.

— Ebbene — ella seguì, fantasticando dietro a sfilali ricordi — quella sera si assomigliava punto a punto a questa.... La stessa tranquillità .... lo stesso abbarbagliamenlo di stelle. Noi sedevamo sulla spiaggia.... uno de’ mièi bracci posava sul ginocchio di babbo, la mano dell’ altro la teneva mammina.... E tacevamo. Le onde intanto, con de’ sospiri lunghissimi, ruotolà vano, si allargavano pel lido: ritirandosi lentamente, scoprivano sassolini, lùcidi come lire di zecca. Oh! mamma, quanto mi amavi!...

Mesta, fisa, era essa.... A un tratto, la prese un singhiozzo: smarrita, piangendo, curvossi su me.... E mi coperse di baci.... — Qui mancò a Già la voce. Un sospiruccio....

poi: — Ora mammina è partita — riannodò dolcissimamcnle.

— Habho dice che è in una stella, ora. In (piale sarà, Guido? — Io le ne accennài una; una che imbiancando, [p. 28 modifica]azzurrando, ci ammiccava più delle allre: Lisa, pigliatomi la mano (quanto la sua era fredda, màdida! quanto la polseggiava!) fissò intensamente lo sguardo nel diamante celeste.

— E.... e il mio canarino? — chiese la poveretta, a sbalzi, con pena.

Restài senza sangue.

In questa, il raggio lunare, passando tra ramo e ramo, colpì diritto su lei, l’avviluppò Come ne era smorta la faccia, come affossati gli occhi!

— Ah! — fece essa, liberando la sua dalla mia mano e distendendola convulsa. — Ec....

co.... lo.... — \ggrovigliò tutta; sbigottita, ritrasse la palma. E una turchina orlatura tinse le sue pàllide labbra. E cadde sulla spalliera della sedia.... Addormentala?

Un grido; il imo: un altro — lamento da ferita pantera — risuònatio. Facendosi strada per il cespuglio, il marchese precipita presso la bimba.

— Vive! — fà egli 111 tuono, non giurerei se di gioja o di angoscia — vive ancora....

E incerto si guarda attorno. Ma è un àttimo; abbranca il sedile di Già ed essa con quello — essa le cui braccìno spenzoli a no pesantemente: poi — tiene verso la casa. Io ni attacco a suoi panni, gli corro ili pari.

Amici, amici, qual notte!

Dalla salelta «love mi stavo, muro a muro colla càmera in cui il marchese avèa deposto sua figlia, udivo lo scricchiare degli stivali e n 7 n degli intavolati, i pispigliamenti, il cigolar degli armadi, il frusciare della sèrica gonna ili mamma che passava e ripassava. E scòrsi nc c tenebre rosseggiare i carboni di uno scaldaletto on aperto, e scòrsi, come io cacciava il capo dentro lo squarcio della vicina porta, sulla parete Lisa [p. 29 modifica]illuminata di faccia, tremolare la gigantesca ombra del vecchio dottore dall’adunco profilo. Pensate voi se chiusi presto palpèbra!

Dal mattino seguente in poi, stette, la finestra di Gìa, serrata; quella finestra alla quale sì spesso ella si affacciava a salutarmi, a sorrìdermi, a discèndere verso mè un secchiolino, affinchè io lo empissi di fresca aqua pel suo mangiapinocchi. E insieme a quella si serrò anche il mio cuore.

Io mi stabilii allora alla porticina che conducèa dal marchese. Là vi appostavo chi usciva.... domandavo loro.... che domandassi, è inùtile dire. E molte e molte volte vidi aprirsi le imposte davanti a mamma, a Nencia, al dottore. Dio! che lanciettate. Afflizione, travaglio, respiràvan sempre le prime; l’altro, nel ritornare al suo rinsaccante ombroso bidetto, portava in sghibescio il cappello e doppiamente lunga la faccia. Quando poi si confondeva ogni ombra — niente mùsica, niente lume in sala — di buon’ora mi si metteva a dormire, e mamma, nel suggerirmi — dolce illusione — le preci, vi ricordava il nome di Lisa. Ve l’assicuro: ben più di una volta, esso era ripetuto da me.

E la bindella dei tempi, senza capo nè estremo, continuò a svilupparsi.

Diciamolo, quel mattino, com’io, secondo l’usato, m’indirizzava al mio posto di guardia, un accoramento, una voglia di pigliarmela con qualcheduno mi tormentàvano. Erano i mièi genitori, è vero, parsi, la sera innanzi, sciolti dall’inquietùdine, dall’agonìa de’ giorni andati; ebbene, la loro inamidata tranquillità, il loro far grave, m’impaurivano al doppio, mi stuzzicavano a ricondurmi alla nota porta, grigia, dal martello di ottone. E questa, avvicinandola io, si chiuse: Nencia, nell’aggropparsi un [p. 30 modifica]fazzoletto, venìvane con un volto affilato, le occhiaje morelle, ingarbugliati i capegli.

— Guido — affoltò essa d’un tuono ràuco, — ti cercavo a punto.... Tua madre dice.... dice che non ti muovi abbastanza. Vuole che ti muova, tua madre.... Qua dunque — e bruscamente s’impossessò li mio braccio.

Io l’adocchiài con ansia, alitando. Ma ella non si trovava in vena di dire; io, d’interrogare altrimenti.

Così, noi ci avviottolammo più che di passo per quel cammino affondato tra due poggetti che erbeggiavano con un verde smagliante e sopra i quali curvàvansi flessuosi olmi — il preferito cammino di Gìa, tuttochè i suòi pieducci v’intoppicàssero ne’ ciottoloni o, soventi, restàssero nelle profonde rotaje. Da molto io non l’aveva più tocco. Pamporcini, more, vi èran spuntati a bizzeffe: oh si! potevano fioreggiare, insaporirsi a loro agio.

E noi procedevamo, tutti e due sopra fantasìa, atterrati gli sguardi; io imaginava sempre vedere, in mezzo alle fortimpresse orme di una scarpaccia a chiodi, le fresche leggiere traccie del borzacchino di Lisa.

E va e va, svoltammo alla fine in un pratello fuori di inano, abituale nostra fermata.

— Se’ stracco? — domandò Nencia sostando.

Io non lo era affatto. Nè vi avèa perchè. Pure la volli imitare: siedetti.

E lì un fastidioso silenzio. Nencia si appisolava o ne faceva le mostre.

— Neh — dissi allora tiràndola per un gherone — e Gìa? —

Che ghiribizzo died’ella! Guatommi come l’avesse con mè, le imbambolò la pupilla e, gonfiandosele il viso.... Ma no — si rattenne.

— Guido — scoppiò poi a ciarlare con [p. 31 modifica]citazione nervosa — vuoi che ti conti una istoria? una storia.... bella, lunga, di maghi? Di’, vuoi de’ quattro figli di Aimone, vuoi de’ tre pomi confusi... .del diàvol d’argento, di Goga e Magoga, eh? vuoi? di’ su, Guido, di’.... —

Io non intendeva di scégliere; tampoco di udire.

Ed ella:

— Bene, la storia delle tre melarancio d’oro — seguì convulsamente. — Ve l’ho già.... Te la dissi, credo, altra volta.... La ricorderài forse.... È quella del principino che mise al lotto.... cioè, no.... io la scambio.... questa è Dorotea». È quella del regalo della fata bianca, dell’incantamento dell’aqua che balla — e pausò.

Giusto.... proprio.... làh! cominciamo....

«C’era.... c’era dunque una volta....»

Ma, in quella, staccale note di un canto, lontan lontano, flèbile, senza speranza, ondèggiano — note che una buffata, curvando le alte leste de’ pioppi, ci apporta. Un brisciamento mi corse; rimàsero le tre melarancie nel loro cestino.

E Nencia scattava in piedi: le sue labbra tremàvano.

— Torniamo — barbugliò essa — torniamo a casa. Qui v’ha tal guazza! (non una stilla, notate) su! Guido — e la mi preso la mano.

Già tutto — riposàtosi il vento — taceva.

Il cancello era aperto: la prima cosa ch’io scòrsi fu la finestra di Gìa — aperta; l’odore che mi colpì, un leppo di arsi cerei. Ed ecco, entrare anche il marchese, instivalato, con gli speroni — mentre al muro di cinta, sul limitar della porta, sparso di rose sfogliate, fermàvansi, si aggruppàvano de’ contadini.... fra gli altri, [p. 32 modifica]alcuni angioletti dagli àbiti a strappi, i pie’ nudi, l’ali di cartone sotto le ascelle. Il marchese avèa la faccia sbattuta, silenziosamente disperata. Pàllido forse al par di colèi che se n’era partita, egli si diresse al suo nero cavallo, raccolse le rèdini, montollo. Poi — di galoppo. Nè mai più l’incontrài.

E quella sera, sdrucciolàndomi in nanna, di quanti baci, di quante carezze, oh! mi tempestò mia madre! La mi stringeva a lei, la mi guardava passionatamente e due lagrimone le tremolàvano, le scendevano per le guancie.... Cara, dolcissima mamma, — e perchè palpitavi?