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Lisa 13

andavo, sul più buono della ricerca, a gambe levate, io e il sedile.

E, press’a poco con il maestro di disegno — un piccolino, débole, magro e dalla voce velala.

Infelice! Era la ventesima volta ch’egli si metteva a corrèggermi la foglia (lezione ottava) o la roccia (lezione nona) tornandomi a spiegare, per filo e per segno, il da farsi; io invece, concentrava tutta la niia attenzione a rompere la mezza pagnotta destinata alla cancellatura ed a gettarne i pezzi, uno per lino, sotto la tàvola, verso le fàuci di quel bracco che li abboccava a metà viaggio con imperturbà bile franchezza.

Dunque, per ricondurci in chiave, èrano ben tre mesi che Nencia, spigolando ritagli di grembiali, avanzi di nastri, merletti, cinigli, imbastiva già il bizzarro abbigliamento pel futuro ceppo di Natale — allorché io, la prima volta la vidi.

Fu tra il chiaro ed il bujo. Io mi trovava su uno scaglione della gradinata che metteva in giardino — nii vi trovavo, analizzando, con una tanaglia trafugata al legnajolo, un girarrosto complicatissimo — quando, sul ripiano, nello squarcio della porta, si fece, insieme alla onesta tonda persona di mio padre, quella, svelta, di uno sconosciuto, dall’aria melanconica, pàllido, con i mostacchi biondi. E questo signore teneva per mano una ragazzina di circa settenni, in una robuccia strozzata alla vita, nera, sulla quale staccàvano i bianchi polsini e l’inamidato colletto — una ragazzina gentile di complessione, graziosa nelle movenze; insomma, di quelle fràgili creature da scatolino e bambagia in cui l’ànima è tutto. Gli occhi di lei lucentissimi, lasciàvano, per così dire, lo sguardo dove fissàvansi.