L'ombra del passato/Parte I/Capitolo IX
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IX.
In quel tempo avvenne un fatto straordinario: straordinario per Adone, ed anche per gli altri abitanti di Casalino.
La vecchia marchesa Pigozzi venne a passar l’estate e l’autunno al palazzo Dargenti. Appena si seppe ch’ella doveva arrivare cominciarono le discussioni e i commenti. A molti non piaceva il suo nome.
Ma che nome brutto! La siora marchesa Pigoss! Che sia parente del Pigoss?
E tutti cominciarono a dar la baja al vecchietto arguto, chiamandolo il marchese Pigoss. Egli sorrideva, quasi fiero del suo nuovo scudmai.
Adone passava e ripassava davanti al cancello socchiuso: Jusfin piantava dalie e girasoli nel giardino inglese: alle finestre erano state messe le tende: sulla balaustrata della terrazza che precedeva l’ingresso scintillavano due grandi vasi di smalto turchino, entro i quali fiorivano due piante di cui Adone ignorava il nome: i fiori rassomigliavano alle rose, ma d’un colore più vivo, più brillante.
Anche le donne e i vecchi si fermavano a guardare, e Adone ascoltava con curiosità i commenti.
— Ma perchè hanno messo le tende gialle, che sembrano sporche?
— E la puttina Dargenti verrà anche lei?
— Ma dicono che non verrà nè la siora marchesa nè la nipotina. Verrà solo la cameriera della vecchia: è una signora di Colorno.
— Una signora non fa la cameriera.
— Eppure, ti dico, è così: è una cameriera anche lei anzianotta: dicono, almeno.
Adone andava a riferire queste chiacchiere a Carissima e al zolfanellajo.
Carissima aspettava con ansia l’arrivo dei signori: s’era raccomandata Jusfin per farsi dare del lavoro: inoltre sperava intendersela col cuoco per le cosette che sgraffignava in casa.
Nel zolfanellajo invece la novità non destava molto interesse. Egli era molto malandato in salute: tossiva ancora, nonostante il caldo, e aveva male a un orecchio.
— Zufola, zufola! — egli diceva, toccandoselo. Mi pare d’intendere un rumore lontano: forse è il rumore dell’inferno.
Adone rideva. Bastava mostrargli un dito, per farlo ridere! Ma l’ometto parlava sul serio. Egli aveva paura di morire, e spesso domandava notizie della cestaja.
— Di’, Adone, coni’è? L’hai veduta? È gialla? Sputa molto?
Poi avvertiva il ragazzo di non avvicinarsele.
— È una malattia che attacca, quella, sai! Sta lontano da quella donna, caro.
— Ma Caterina, allora? Morrà?
— Speriamo di no! Quella donna, però, bisognerebbe portarla all’ospedale. Dicono che ci son paesi dove i tisici guariscono. Davide sa il nome, di questi paesi. Ma chi può andarci? Il viaggio costa, eh!
— Certo, lui sa il nome di quei paesi! Quando viene glielo domanderemo. Quando viene? Lui conosce la marchesa Pigozzi? E la cameriera di Colorno, la conosce?
Ritornava all’argomento di prima: ma il zolfanellajo non sapeva nulla, e la Müton borbottava parole incomprensibili, oscure minacce, contro i signori che dovevano arrivare.
⁂
Cominciarono le vacanze. Il caldo era intenso, ma i campi si mantenevano freschi e nei viottoli crescevano ancora le margherite. Guardando dall’argine, verso il tramonto, si scorgeva come un immenso anello di fuoco che circondava l’orizzonte: il fiume verde e roseo sembrava un lago fra i boschi immobili delle rive, e tutte le cose tacevano, come morte per mancanza d’aria. Verso sera, però, il cielo impallidiva, tingevasi d’un viola chiaro; un alito saliva dal fiume, il paesaggio si scuoteva, animato dallo stridio dei grilli, e la luna infocata saliva tra i vapori dell’orizzonte.
Una di queste notti Adone, che si aggirava sempre intorno al palazzo, vide arrivare una grande carrozza nera tirata da due cavalli che parevano di legno di noce, scuri e lucidi. Egli corse fino al cancello; e dalla carrozza vide scendere tre signore e una bambina.
La marchesa doveva essere la più vecchia, quella piccola e grassa, vestita di nero, con gli occhiali che scintillavano alla luna. L’altra, piccola e magra, in paglietta e col vestito corto, doveva essere la cameriera di Colorno. Appena smontata, aveva aiutato a scendere le altre due. La terza signora invece era alta, sottile, vestita di chiaro.
— Dev’essere un’altra serva — pensò Adone, ricordando che il Direttore, a Viadana, aveva una governante così alta e ben vestita.
La bambina, appena smontata, era corsa sulla scalea, affacciandosi ogni tanto sulla balaustrata. La signora piccola in paglietta le gridò qualche parola che egli non capì.
— Parla tedesco? — egli si domandò. — Parleranno tutte così?
Tutte queste cose lo divertivano e lo agitavano: rimase a lungo davanti al cancello, sperando di rivedere le donne, sperando di veder uscire la carrozza. Ma la carrozza fece il giro del viale e sparì dietro il palazzo, e le signore non riapparvero più.
La luna e i fanali della scalea illuminavano il palazzo, chiaro sullo sfondo dei grandi altieri neri: le finestre parevano d’oro, e i vasi di smalto scintillavano sulla balaustrata dell’ingresso: dal giardino inaffiato, ov’erano stati messi tavolini e sedili di ferro, saliva un aspro odore di gerani. Come era bello tutto questo! Pareva un sogno. Soltanto l’idea di andar a casa per raccontare quanto aveva veduto, strappò Adone dal misterioso cancello, che sempre rappresentava per lui l’ingresso ad un mondo ignoto.
Ma arrivato a casa vide che le donne erano già andate a letto: Pirloccia doveva essere ancora fuori perchè il portone era chiuso solo col saliscendi: nel l’atrio, sotto l’immagine di San Simone Giuda, ardeva il lumino a petrolio.
Adone non aveva sonno: l’idea di andarsi a chiudere nella sua cameraccia lo rattristava. Tornò nell’aja, ma anche l’aja gli pareva stretta, quella notte: uscì ancora nella strada, e, senza la paura di esser chiuso fuori dal Pirloccia, si sarebbe allontanato ritornando nel prato della chiesa.
La luna attraversava il cielo perlaceo: sulla strada bianca di polvere le ombre nere degli allori parevano disegnate con l’inchiostro. Egli pensò al suo amico Marco: sarebbe andato volentieri a trovarlo, subito, per raccontargli ch’era giunta la marchesa. Ma come fare ad allontanarsi? Pirloccia l’avrebbe chiuso fuori. Ecco, egli non era padrone neppure di fare un viaggetto, di notte! Avesse avuto almeno una carrozza come quella della marchesa: si va svelti, in carrozza: e poì si sta anche bene, anche se si hanno dispiaceri. Sì, egli ricordava il ritorno da San Giovanni: come si stava bene, nel carrozzino!
Ripensò a Caterina e alla cestaja; gli parve che la signora in paglietta avesse chiamato Caterina la bimba smontata dalla carrozza della marchesa.
Si chiamava Caterina anche quella? Poteva darsi: anche le bambine ricche possono avere il nome delle bambine povere.
— Quella non ruberà le uova, però — considerò Adone. E gli venne da ridere, a quest’idea.
Un gallo cantò: ed il ragazzetto trasalì, e gli parve che anche dentro il suo cuore un gallo cantasse, rispondendo a quell’altro. Sì, doveva essere quasi mezzanotte, ed egli non solo non aveva sonno, ma avrebbe voluto cantare, arrampicarsi su un albero o sui tetti per veder meglio il cielo.
Ma il ritorno del Pirloccia lo trasse dai suoi sogni.
Che fai lì ancora? Ah, vegli, sì? Eh, sì, domani non devi alzarti all’alba, per lavorare: c’è chi lavora per te! Marcia a letto, palandrone! Marcia, o ti chiudo fuori!
⁂
L'indomani era domenica. Adone andò alla messa cantata, e vide che gli nomini, ritti sulla scalinata della chiesa, guardavano tutti verso il palazzo Dargenti.
Anche dentro la chiesa fresca e luminosa, le donne vestite di celeste, di rosa, di viola, col velo nero appuntato graziosamente sul capo, aspettavano, agitate e curiose. Adone si mise accanto al vecchio barcajuolo, intorno al quale un gruppo di giovanotti scherzava chiamandolo «sior marchese Pigoss». Il vecchio sorrideva, coi piccoli occhi maliziosi rivolti al cancello del parco Dargenti. E finalmente il cancello s’aprì, e riapparvero tre delle figure già vedute la sera prima da Adone. Mancava la signora in paglietta. La bambina era tutta vestita di bianco, con un cappello tremolante, di velo candidissimo: pareva una farfalla. Adone ora potè vederla meglio: e gli parve bruttina, verdolina in viso, con gli occhi cerchiati come quelli di una vecchietta, e i radi capelli castanei sparsi sulle spalle magre. Camminava però in modo grazioso, lievemente, quasi sulla punta dei piedini, calzati di bianco; sì, davvero, pareva una farfallina che volesse spiccare il volo.
Le due signore, invece, camminavano piano, e quella che Adone credeva la marchesa, si dondolava alquanto; aveva un petto prepotente, e il suo viso rotondo paffuto e rosso, pareva ridesse di continuo. I giovinetti dissero subito delle cose maliziose, vedendola, e Pino il caser mormorò:
— Pare che voglia spinger la gente per farsi largo, con quel petturòn: se passa qui vicino ci butta tutti per terra.
Adone, naturalmente, cominciò a ridere.
— La siora marchesa pare che cammini dormendo, invece!
— Non ci vede — disse Pino. — È quasi cieca.
Allora Adone guardò intensamente la bella signora alta e sottile, un po’ rigida, che camminava cautamente, con le grandi palpebre abbassate, e che ogni tre passi si fermava e pareva non dovesse muoversi più.
— Dicevano ch’era vecchia! È più giovane di me — disse Pino, alquanto beffardo. — È bionda come il granone.
A misura che la marchesa si avvicinava, un mormorio d’ammirazione si levava da quel gruppo di uomini semplici e arguti nello stesso tempo.
Essi s’aspettavano di veder una vecchia cieca, magari col bastone; invece vedevano una figura quasi ideale, dritta e bionda, vestita come una fanciulla: anche il viso era di un colore insolito; d’un rosa tendente al viola.
Quando passò in mezzo agli uomini ella si avvicinò l’occhialetto al naso e sorrise a tutti, rispondendo al saluto che tutti. Adone compreso, le rivolsero.
Durante tutta la messa egli non le staccò gli occhi dal viso, mentre anche le donne si voltavano per esaminare la bambina e specialmente la cameriera di Colorno, quella che Adone aveva creduto la marchesa. La bimba inginocchiata sulla sedia leggeva nel suo piccolo libro di preghiere, e pareva indifferente, quasi triste; ma ogni tanto volgeva intorno gli occhi d’un bel caataneo dorato, e un’espressione di curiosità furtiva le animava il visetto delicato e scuro.
Poi sedette, sbadigliò, si mise a giocherellare col libro: senza dubbio era stanca di stare in chiesa.
Dopo l’Evangelio il prevosto fece un breve sermone: poi diede il benvenuto alla marchesa, in nome della popolazione, e ricordando commosso i bei tempi quando il palazzo Dargenti poteva dirsi l’anima del paese, s’augurò che quei tempi ritornassero presto, anzi fossero già ritornati.
Il viso della marchesa non espresse nè gioia nè dolore, per l’augurio del prevosto. La signora paffuta non cessava di sorrìdere e con la testa accennava di sì, di sì. Pareva rispondesse lei per la marchesa.
⁂
Non per tutti, ma almeno per il prevosto, i bei tempi tornarono. La marchesa lo invitava ogni tre giorni a pranzo!
Anche Carissima ottenne i favori del cuoco, e trovò lavoro al palazzo. Una sera ella vi rimase fin sul tardi e Adone andò ad aspettarla al cancello. La sarta non finiva di raccontare quello che aveva veduto e sentito, ed anche quello che s’era immaginato. Fra le altre cose diceva che la signora Maria, quella dagli occhiali, era una donna molto istruita, quasi una medichessa. Per ore ed ore la marchesa si faceva sfregare da lei le braccia, le gambe, il viso ed altre parti del corpo.
— Questo si chiama il messaggio, e dicono che fa prolungare la vita.
Pirloccia e i suoi figli ridevano pazzamente quando Carissima raccontava queste cose. Anche Adone rideva. Del resto la marchesa era una bravissima donna: faceva molte elemosine e andava a trovare i poveri nei loro abituri. Quasi ogni sera invitava a pranzo i notabili del paese: molti signori venivano a trovarla, dalle piccole città vicine.
A pocco a poco la gente s’abituò a veder riaperto le finestre del palazzo Dargenti, e ciascuno tornò a pensare ai casi suoi. Anche Davide, quando in settembre venne al paese, fu invitato al palazzo e vi andò nonostante tutti i suoi principi democratici.
Ma un giorno Adone sentì lo studente beffarsi della vecchia marchesa.
— Non parla che di topi! Il palazzo ne è infestato ed ella ne ha una gran paura. Mi ha domandato se in casa mia c’erano topi!...
— Se viene a vedere gliene metto uno sotto la gonna, — disse la zolfanellaja.
E Adone aggiunse, incoraggiato dall'esempio della donna:
— E se viene in camera mia gliene metto dieci, anzi venti, anzi cento! Tutti quelli che vuole.
E rise al suo modo solito, gettando la testa all’indietro e giungendo le mani.
⁂
Passò l’estate, s’inoltrò l’autunno: nulla di straordinario avvenne. In ottobre lo zio Carlino venne a passare alcuni giorni al paese, ma andò ad ospitare presso altri parenti, e Adone lo vide appena due o tre volte. Anche lo zio Carlino non pensava più a lui.
Poi cominciò il tempo nebbioso. Davide partì, la marchesa partì. La figura di Jusfin tornò a dominare, sola e solenne, dietro il cancello chiuso.
E Adone ritornò a scuola, riprendendo le sue relazioni con Marco.
Egli aveva di nuovo il suo mantellaccio, che ora non sfiorava più il suolo; e naturalmente egli se ne vergognava sempre più, ma d’altronde non poteva liberarsene. Faceva già freddo: già Belluss vedeva ritornare al suo casolare i ragazzi che egli chiamava «gli uslin del fredd»1.
Agli scolaretti si aggiunsero quell'anno alcune ragazze di Cabalino e di Casale che frequentavano la scuola tecnica di Viadana. Anche loro, queste studentesse freddolose, erano qualche volta costrette a far tappa da Belluss, per riscaldarsi; ma per lo più passavano rapide lungo l’argine e pei viottoli, sdegnose di unirsi ai ragazzacci che si indugiavano a saltare i fossi o a giuocare nella strada. Del resto, anche i ragazzi non badavano a loro. Eppure un giorno Adone fu colpito nel vedere una ragazzetta imbacuccata in uno scialle a quadrati neri e grigi: ella doveva recarsi alla scuola a Viadana perchè aveva una borsetta di stoffa attaccata al braccio con una cordicella. Le spalle e la testa sparivano entro lo scialle: in cambio si vedevano le gambucce rossastre e i grossi piedi calzati con zoccoli che la scolaretta strascicava lentamente. Pareva ch’ella non avesse fretta di arrivare.
— Quella è Caterina, — disse Adone a Marco. E che, va a scuola a Viadana?
— Eh sì! La zia Barberina la manda a Viadana, perchè Caterina ha litigato, a Casale: ha dato pugni e graffi alle altre ragazzette, che non la volevano vicino.
— Perchè non la volevano vicino?
— Perchè ci attacca il male della sua matrigna.
— E come ce l’attacca se lei è sana? — gridò Adone, sempre pronto a difendere le cause giuste.
— Eh, così! Non lo so, — rispose l’altro, stizzito. — Del resto, anche tu, l’altro giorno, hai detto che avevi paura di entrare dalla zia Ballerina.
— È vero, ma è altra cosa...
— Va là, va là, sta zitto! È la stessa cosa.
— No, ti dico. Eppoi, per farti vedere che non ho paura, ora vado assieme con Caterina.
— Se tu vai con lei, io non vengo più con te! Mai più in tutta la vita! — gridò Marco, arrabbiato, spingendo col piede tutt’i sassolini che trovava.
Caterina si volse. Era rosea in viso, con gli occhi brillanti, le labbra accese: era bella come una Madonnina, nel suo scialle nere e grigiastro: sembrava l’immagine della salute.
Tuttavia Marco e Adone la raggiunsero e la schivarono. Ed ella non disse niente, ma si accorse della loro mossa. Ella aveva paura di Marco, che minacciava sempre di bastonarla: e se era prepotente con le bambine e si vendicava graffiandole e sputando loro addosso, perchè si accorgeva benissimo che la sfuggivano come un’appestata, non si azzardava di fare altrettanto coi maschi. Anche lei era prudente: e non era affatto selvaggia, e neppure cattiva: ma aveva una morale tutta sua: si serviva della sua forza e della sua astuzia fin dove potevano riuscirle utili.
Quando l’ebbero lasciata indietro Adone si volse, e la guardò. Ella tirò fuori la lingua, ma accennò verso Marco: Adone capì che l’atto di disprezzo non era per lui, e cominciò a ridere.
— Che hai? — disse l’altro, sempre più indispettito. — Se ti volti ancora, vado avanti e non vengo più con te.
— Oh, bella! Non posso neppure voltarmi, ora!
— Sì, non voglio!
— Ed io invece mi volto!
— E io vado avanti!
Marco infatti si mise a correre; ma Adone lo raggiunse, lo sorpassò, si volse e rise. Era impossibile tenergli il broncio. Ripresero a camminare assieme, vicini, discutendo su tante cose. Marco era dispettoso quella mattina: Adone invece era allegro: ogni tanto rideva e scuoteva il suo mantellaccio come un uccello scuote le ali bagnale.
Caterina rimase indietro, e quando Adone si volse un’ultima volta gli parve che la ragazzetta fosse piccola piccola, con la testa e i piedi sproporzionati: ma il suo visino roseo, nella cornice grigiastra dello scialle, sullo sfondo grigiastro della strada nebbiosa, pareva una rosellina d’autunno.
⁂
Anche quell’unno l’inverno fu lungo e rigidissimo. Tognina dovette rimettersi a letto, con le ginocchia gonfie, e invano Carissima tentò di farle il messaggio come la signora Maria le aveva una volta consigliato.
Del resto anche Carissima aveva i suoi guai: era incinta, aveva un bambino malato, che piangeva tutta la notte, e ben presto si stancò di curare la Tognina.
Anche la zia Siena aveva da fare: Pirloccia, poi, ritornato dal solito giro, aveva paura di ammalarsi come l’anno scorso, e per curare la sua salute, quando non lavorava se ne stava nell’osteria di Elettra raccontando le sue avventure di viaggio. Quando la moglie dell’altro gemello o le innumerevoli cugine e parenti di Tognina venivano in casa entravano appena un momento dalla malata, poi se ne andavano nella cucina o nella stufa, e chiacchieravano e ridevano con Carissima.
La malata, stesa sul suo letto di piume, piccola e nera come una mummia, pareva rassegnata alla sua solitudine: le bastava la compagnia silenziosa delle sue sedie e dei suoi vasi di conserva!
Anche Adone entrava in fretta, guardava intorno curiosamente, sempre in cerca di qualche novità, poi fuggiva. Gli altri non badavano a lui che per deriderlo o rinfacciargli la sua vita oziosa; ma anch’egli non si curava di loro che per difendersi dalle loro cattiverie. Per la Tognina, però, quando ella era malata, egli sentiva un senso di pietà.
Gli pareva un essere debode, incompleto, una bambina quasi: se ella gli avesse dimostrato un po’ d’affetto, egli si sarebbe affezionato profondamente a lei. Ma ella non si curava di lui, non si curava di nessuno: non doveva curarsi neppure di sè stessa perchè non protestava mai, non si lamentava dell’abbandono in cui la lasciavano i suoi parenti, oramai diventati padroni in casa sua. Del resto Adone era contento quando anche lei non lo maltrattava e non gli rinfacciava di mangiare a ufo il suo pane.
Oramai egli aveva dodici anni. Capiva molte cose: gli pareva di capire tutto. Si sentiva come un uccello di passaggio, in quella casa che era appunto come un nido di uccelli di diverse specie, e dove il padrone era il più furbo.
Pazienza dunque: ancora pochi anni e tutte le umiliazioni sarebbero finite. Una sera sull’imbrunire egli passò davanti all’uscio della camera di Tognina, e senti un lamento fioco, sottile, che pareva quasi il miagolio d’un gattino.
— Zia, zia, che hai? — egli chiese spingendo l’uscio.
Il lamento cessò. Una triste penombra avvolgeva la camera: solo intorno alla finestra spandevasi un chiarore cenerognolo d’una infinita melanconia. La nebbia s’addensava al di fuori, e pareva fosse penetrata anche nella camera umidiccia e fredda.
Adone s’avvicinò al letto fra i cui materassi Tognina si sprofondeva e quasi spariva.
- Zia, zia, dormi? Vuoi che accenda il lume? Hai freddo? Vuoi qualche cosa?
La donna non rispose. Teneva chiusi gli occhi, la testa avvolta in un fazzoletto di lana giallognolo: pareva un cadavere.
Adone ricordava sempre la morte dello zio, avvenuta quasi all’improvviso, e aveva l’idea fissa che tutti dovessero morire così, da un momento all’altro. Credette che la donna fosse morta: un terrore misterioso lo assalì; gli parve che tutte le cose, tutti gli uomini, il mondo intero infine, dovesse sparire così, improvvisamente, spento da una cupa nebbia, da un tenebrore senza fine.
Fu un momento. Egli non ebbe neppure la forza di gridare: gli parve di morire e cadde svenuto appoggiandosi al letto e poi scivolando a terra.
— Adone! — gridò allora Tognina, — che fai?
Non ricevendo risposta, anche lei si spaventò: senza muovere la persona indolenzita prese la scatola dei zolfanelli e ne accese uno: prese il lume e l’accese. Il fanciullo non si moveva. La donna gemette, chiamò: nessuno venne, nessuno rispose.
Allora Tognina fece uno sforzo, si sollevò gemendo, e buttò sulla testa di Adone l’acqua del bicchiere che stava sul tavolino. Dopo un momento il fanciullo riaprì gli occhi: guardò, vide il lume, vide la zia protesa sul letto, gialla in viso come il suo fazzoletto di lana. Egli provò una sensazione di dolcezza: ricordò lo spavento che lo aveva abbattuto, ma gli parve di aver dormito a lungo, e di aver fatto un sogno. Ora non avrebbe voluto muoversi, ma Tognina gemeva e lo chiamava disperata.
— Adone, caro, su, che hai? T’è venuto male? Su, Adone, su, viscere belle, su! Che hai avuto? Che spavento! Su, bello!
Che dolcezza sentirsi chiamare così! Egli s’alzò, s’appoggiò al letto, si passò le mani sul viso esilile vesti bagnate.
— Ti credevo morta... così, sola, così, al bujo! Che spavento, anch’io!
Tognina lo guardò e ridiventò cupa, e rimettendo la testa sul cuscino ricominciò a gemere ed a piangere. Pareva una bambina.
Adone le passò la mano umida sul viso, e si mise a piangere anche lui. Perchè? Egli non sapeva: ma aveva bisogno di piangere, e ne provava una strana voluttà.
— Taci taci, — disse alfine la donna, asciugandosi le lagrime con la manina fredda del fanciullo. — Taci, taci. Ti sei spaventato, poveretto. Mi vuoi bene dunque? Tanto bene, mi vuoi?
— Sì, sì, zia mia! Tanto bene.
— Non c’è nessuno, giù? Ho chiamato tanto.
— La zia Elena è andata a comperare il burro e la minestrina per te: Carissima faceva la polenta: Fiorello teneva il bimbo: gli altri non sono tornati.
— Senti, Adone, — disse allora Tognina, mettendo la mano sotto il cuscino. — Ora ti do la chiave della cantina: va, prendi una scodella, grande, quella con l’orlo rosso, e riempila di vino. Di’ a Carissima che lo faccia scaldare e ci metta un po’ di zucchero: poi me lo porti, eh? Lo berremo assieme: fa bene per lo spavento. Va: non dare la chiave a nessuno. Hai capito? Levati la giacca bagnata.
Egli andò, stringendo la chiave con ambe le mani. Era la prima volta che la zia gli dava un segno di fiducia. Il cuore gli palpitava di riconoscenza.
Fece tutto da sè, e Fiorello, che teneva fra le braccia il nipotino malato, non poteva credere ai suoi occhi vedendo in mano di Adone la chiave della cantina; quella chiave che la zia affidava solo al Pirloccia, ed anche raramente.
Carissima invece parve rallegrarsi di quest’avvenimento: diede lo zucchero al fanciullo, poi si mise a tagliar col filo la polenta, canterellando. Nonostante i suoi guai ella era sempre allegra.
— Di’ alla zia se vuole una fetta calda calda, — disse, mentre Adone vuotava il vino bollente nella scodella dal filo rosso. — Oh, senti, Adone, se facessimo una cosa, ora che ci hai la chiave! Se prendessimo un salamino?
— Proprio no, veh! — gridò il ragazzo, arrossendo di sdegno. Poi aggiunse: — Se vuoi glielo dico, alla zia.
— No, no, non dir niente, balordo! Va via, va!
Egli andò via, cautamente, con la scodella calda fra le mani.
— Bada che ti pesa! — disse Fiorello ironico. — Bevine un po’ per via!
Adone non rispose. Salì le scale al bujo, si fermò: dalla scodella saliva un così grato odore, un così tiepido vapore, che egli provava l’impressione di trovarsi sotto un pergolato carico di uva matura, al sole di ottobre!
Vinto, egli chinò la testa e mise le labbra sull’orlo caldo della scodella!
⁂
Da quella sera egli prese a voler bene alla zia, come non gliene aveva mai voluto. Le pareva di proteggerla, di esserle indispensabile. Ella non gli si mostrava sempre buona come quella sera: spesso lo sgridava, lo mandava via: ma egli ritornava sempre da lei, prendendosi il gusto, come da bambino, di sedersi sulle sedie preziose e di guardare i vasi sul camino spento. Qualche volta le giornate erano splendide, la sera calava luminosa e fredda, e dietro i vetri gelati si scorgeva il cielo roseo, cristallino. Pareva che tutto il mondo fosse di vetro: s’udivano certi strilli, certe voci lontane vibrare a lungo, come tintinnii di cristallo. Adone guardava e s’incantava: sogni confusi gli attraversavano la mente. Gli piaceva immensamente starsene in camera della zia, ove tutto era ordinato, pulito, silenzioso. Pensava:
— Quando sarò grande e avrò moglie, mi farò una camera così.
Pensando alla moglie pensava ad Andromaca: e pensando ad Andromaca arrossiva senza saperne il perchè.
Egli cominciava ad entrare in un periodo critico: era nervoso, eccitabile, aveva bisogno di amare, di odiare, di soffrire; di amare sopratutto. Bastava fargli una piccola gentilezza perchè egli si infiammasse di affetto e di riconoscenza. Aveva un po’ dimenticato Davide, ma ora pensava continuamente al suo maestro, — un ragazzo pallido e malaticcio che era d’un’indulgenza eccessiva coi suoi alunni — e pensava a Marco con affetto geloso. Ma il suo amore più forte, dopo quello per la mamma, era per Andromaca. La figlia del cordajo diventava sempre più bella, alta, slanciata, bionda, con la fossetta sul mento e gli occhi dorati, lunghi e voluttuosi. Per lei Adone trascurava anche il suo amico il zolfanellajo, sempre più malato.
D’inverno il cordajo lavorava nella sua cucina, lunga e stretta come un andito: la parete di fondo era tutta occupata dal camino. Egli disfaceva qualche corda usata, e scardassava e pettinava la canapa: seduto in mezzo ai suoi mucchi di corde grigie attortigliate, egli borbottava e sembrava un fattucchiere circondato da serpenti che ai suoi strappi improvvisi pareva si animassero un momento per poi ricadere morti sul pavimento bruno.
La moglie e la figlia andavano e venivano: Adone, seduto davanti al cordaio, guardava e chiacchierava. Ma Sison, al contrario del zolfanellajo, non lo prendeva sul serio, non gli dava retta, e si rivolgeva a lui solo quando aveva da parlar male della Tognina e dei suoi parenti.
— Son tutti matti, — gridava allora, volgendosi minaccioso verso Adone. — Diglielo pure, a tua zia, dille che Sison s’infischia di loro e della loro roba! Matti ma furbi, — aggiungeva poi. — Sì, puttino, qualche giorno ti accorgerai che tua zia e suo fratello sono matti ma furbi.
— Lascialo dire; e non ripetere quello che egli dice, — consigliavano le donne.
Allora il Cordajo s’arrabbiava con sua moglie, e proferiva oscure minacce contro i parenti di Adone.
— Io ho lavorato tutta la vita, — diceva, — e non sono ancora riuscito a farmi un buco dove morire. Una corda, se la voglio, Per appiccarmi: ecco che cosa son riuscito a fare. E loro vivono da signori, senza aver mai lavorato: loro hanno rubato... loro hanno fatto quello che han fatto... Ma verrà un giorno... La corda sarà per loro... Verrà un giorno...
Ecco, egli parlava come la Müton! La moglie diceva:
— Ma taci, Sison! Taci, linguetta!
Egli si arrabbiava di più: strappava le corde, le agitava, minacciava di strangolare la donna. Adone rideva.
Sì, il cordaio era molto povero. Tanto povero che Pino, il figlio del casèr, non si decideva a domandare Andromaca per moglie, perchè ella non aveva neppure il corredo. I due giovani però continuavano ad amoreggiare, e Adone s’incaricava dei loro messaggi amorosi.
Un giorno egli sentì dire da Carissima che Pino non avrebbe mai sposato Andromaca.
— E la sposerò io, allora, sicuro! — egli disse.
Subito lo presero in giro, beffandosi di lui, e andarono a riferire le sue parole alla ragazza. E da quel giorno Andromaca ogni volta che lo vedeva lo abbracciava, mettendosi a saltare con lui, e chiamandolo il suo sposo. Egli lasciava fare: quando la ragazza lo stringeva a sè, costringendolo a volteggiare con lei per l’aja o per la cucina, egli provava una dolce vertigine, un vago senso di ebbrezza come quando beveva il vino caldo con lo zucchero che la zia qualche volta si faceva fare da lui.
Una sera Andromaca era sola nella cucina melanconica piena di corde e di mucchi di canapa. Adone entrò e le disse, piano piano!
— Pino ti siluta e dice che forse quest’anno lo zafferano non costerà tanto.
Queste parole dovevano avere per Andromaca un lieto significato perchè ella corse al fanciullo e lo abbracciò e si mise a ballare con lui, con più allegria del solito, e canterellò:
— E allora ne compreremo tanto. E allora ci sposeremo... con te, sai, caro il mio sposino! Caro caro caro, caro il mio sposin!
— Ti ricordi, — disse Adone, — una volta sotto il pergolato abbiamo fatto un gioco curioso. Facciamolo ancora.
— Che gioco, sposino?
— Così: tu correvi, io ti raggiungevo: fingevamo di litigare e cadevamo tutti e due per terra. Una volta m’hai morsicato le labbra.
— Ah, sì? — ella gridò, sempre più allegra. — Vuoi essere morsicato? Ecco, ti basta?... Ancora: ecco. Bau, bau, bau...
Ella finse di abbajare e lo morsicò lievemente: egli impallidì di piacere: si attaccò a lei e le morsicò forte la guancia destra.
— Ah, perdinci, tu fai davvero! — ella gridò, respingendolo. — Va via subito, cagnolino! Va via o ti do un ceffone!
Egli non sapeva se ridere o piangere, ma la guardava così mortificato che ella si rabbonì, e passandosi la mano sulla guancia ove i dentini di lui avevano lascialo il segno, disse:
— Dovresti cercarti una sposina piccola, una cagnolina come te, per fare questi giuochi. Va via; io non ti voglio più.
Ed egli pensò a Caterina. Rivide col pensiero la figurina imbacuccata che percorreva l’argine trascinando gli zoccoli, rivide le guancie rosse e rotonde come due mele, che si scorgevano anche da lontano nel grigiore della strada solitaria, e pensò che sarebbe stato bello giocare con lei come con Andromaca.
- ↑ Gli uccellini del freddo.