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ma anch’egli non si curava di loro che per difendersi dalle loro cattiverie. Per la Tognina, però, quando ella era malata, egli sentiva un senso di pietà.

Gli pareva un essere debode, incompleto, una bambina quasi: se ella gli avesse dimostrato un po’ d’affetto, egli si sarebbe affezionato profondamente a lei. Ma ella non si curava di lui, non si curava di nessuno: non doveva curarsi neppure di sè stessa perchè non protestava mai, non si lamentava dell’abbandono in cui la lasciavano i suoi parenti, oramai diventati padroni in casa sua. Del resto Adone era contento quando anche lei non lo maltrattava e non gli rinfacciava di mangiare a ufo il suo pane.

Oramai egli aveva dodici anni. Capiva molte cose: gli pareva di capire tutto. Si sentiva come un uccello di passaggio, in quella casa che era appunto come un nido di uccelli di diverse specie, e dove il padrone era il più furbo.

Pazienza dunque: ancora pochi anni e tutte le umiliazioni sarebbero finite. Una sera sull’imbrunire egli passò davanti all’uscio della camera di Tognina, e senti un lamento fioco, sottile, che pareva quasi il miagolio d’un gattino.

— Zia, zia, che hai? — egli chiese spingendo l’uscio.

Il lamento cessò. Una triste penombra avvolgeva la camera: solo intorno alla finestra spandevasi un chiarore cenerognolo d’una infinita melanconia. La nebbia s’addensava al di fuori, e pa-