L'avvocato veneziano/Atto II
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ATTO SECONDO.
SCENA PRIMA.
Giorno. - Strada.
Il Conte, poi Alberto vestito più ordinariamente.
Conte. Questo signor avvocato non favorisce. Se non viene1, me la pagherà. E un quarto d’ora che io aspetto. Oramai do nelle impazienze. Ma eccolo. Cammina anco di buon passo. L’amico mi conosce. Ha soggezione di me.
Alberto. Servitor obbligato; l’hoggio fatta aspettar?
Conte. Un poco.
Alberto. La compatissa. Ho cerca liberarme da sior Florindo, che in ogni forma el voleva vegnir con mi. La m’ha dito che vegna solo, e solo son vegnù.
Conte. Avete fatto bene. Voglio parlarvi segretamente.
Alberto. Vorla che andemo al caffè, dove che la m’ha dito giersera?
Conte. No, al caffè vi è sempre qualcheduno. Qui in questa strada remota siamo più sicuri di restar soli.
Alberto. Dove che la vol. (Che el me volesse far una qualche bulada2? Da muso a muso no gh’ho paura). (da sè)
Conte. Sentite... Ma prima mi avete a promettere di non parlare con chi si sia di quello che ora sono per dirvi.
Alberto. La segretezza e la fede xe do circostanze necessarissime ai avvocati, e nualtri se lasseressimo sacrificar, più tosto che svelar un arcano con pregiudizio de chi ne l’ha confidà.
Conte. Ciò non mi basta, giurate di non parlare.
Alberto. I omeni onesti non ha bisogno de zuramenti.
Conte. Gli uomini onesti non ricusano di giurare, quando non hanno intenzion di tradire.
Alberto. Via, per contentarla: zuro de non parlar.
Conte. Datemi la mano.
Alberto. Eccola.
Conte. Oh bravo! Ora brevemente vi spiccio. Credo che voi saprete essere io legato con promessa di matrimonio colla signora Rosaura.
Alberto. Lo so benissimo.
Conte. Dunque comprenderete da ciò, che la di lei causa diventa mia propria, venendomi assegnato in dote il valor della donazione fattale dal di lei padre adottivo, consistente in ventimila ducati.
Alberto. È verissimo; la causa l’interessa infinitamente.
Conte. Io non voglio esaminare se la signora Rosaura abbia torto, o abbia ragione; se la donazione si sostenga, o non si sostenga; perchè queste sono cose imbrogliate e fastidiose, troppo contrarie al mio temperèunento: ma bramerei che voi mi faceste un piacere.
Alberto. La diga pur su. Se se poderà farlo, lo farò volentiera.
Conte. Compatitemi se vi do del voi. Con gli amici parlo con libertà.
Alberto. Me maraveggio; non abbado a ste piccole cosse.
Conte. Vorrei che, a mio riguardo, abbandonaste la difesa di questa causa.
Alberto. Ma cara ela, come vorla che fazza? Xe impossibile. La causa xe istruida da mi. Mi ghe ne son in possesso. Ancuo3 la s’ha da trattar. El principal ha speso i so bezzi, tutto el mondo aspetta sta disputa, mi no so veder el modo de poderme esentar.
Conte. Il modo si trova, quando si vuole. Vi suggerirò io qualche mezzo termine. Potete dire al vostro cliente che avete letta stamane una carta non più vista, che vi fa temere dell’esito; che avete scoperte alcune ragioni dell’avversario, le quali meritano maggior tempo e maggior riflesso; che la causa ha mutato aspetto, e vi è un qualche mancamento nell’ordine, che conviene regolarlo, che vi vuol tempo. Intanto si sospende la trattazione; tramonta l’appuntamento. Voi andate a Venezia. Il cliente si stanca, viene a patti ed io fo fare l’aggiustamento a mio modo.
Alberto. Bellissimi mezzi termini, espedienti suttili e spiritosi, ma no per i avvocati onorati. Lezer carte da novo, scovrir obbietti, trovar desordini el zorno che s’ha d’andar in renga, le xe cosse prodotte o da una gran ignoranza, o da una gran malizia, indegne de chi xe arlevadi nel foro.
Conte. Facciamo così: fingetevi ammalato. Dite che non potete trattar la causa; troveremo un medico che accorderà che avete la febbre, e dirà che, per guarire, è necessaria l’aria nativa. Anderete a Venezia con reputazione, ed io vi sarò4 obbligato.
Alberto. Xe inutile che la me tenta per sto verso, perchè se fusse vero che fusse ammalà, quando la malattia no fusse grave e avesse libera la lengua da poder parlar, me faria condur al tribunal, per trattar la mia causa.
Conte. Orsù, vi compatisco; tante fatiche che avete fatte, non devono andare senza mercede. Se vincete la causa, il signor Florindo vi farà un regalo, al più al più di cinquanta zecchini; ed io, se ve n’andate, ve ne do cento.
Alberto. Caro sior Conte...
Conte. E non crediate già ch’io vi voglia promettere per non mantenere. Questi sono cento zecchini, e sono per voi, solo che tralasciate di sostenere questa causa.
Alberto. Sior Conte caro, bisogna che la creda che nualtri avvocati no vedemo mai bezzi, che no sappiemo cossa che sia cento zecchini. Ma bisogna che la sappia che nu, a Venezia, cento zecchini i ne fa tanta spezie, quanto poi far cento lire in ti so paesi. Nu no femo capital dell’oro, ma del concetto5.
Conte. Cento zecchini al merito vostro e alla qualità del favore che vi domando, saranno pochi, ma io non posso fare di più; e vi assicuro che questi mi costano qualche sforzo. Ma sentite, se voi mi promettete d’abbandonar questa causa, vi farò un obbligo di duemila e anco di tremila ducati, da pagarveli subito che avrò conseguita la dote di cui si tratta.
Alberto. Nè tre mille, nè diese mille, ne cento mille no xe capaci de farme far un’azion cattiva.
Conte. Dunque siete risoluto di voler trattar questa causa?
Alberto. Resolutissimo.
Conte. Nè v’importa di veder ridotta a un’estrema miseria una povera fanciulla innocente?
Alberto. Fiat jus et pereat mundus.
Conte. Non fate conto delle mie premure?
Alberto. Non posso tradir el mio cliente per soddisfarla.
Conte. Le offerte non servono?
Alberto. Niente affatto.
Conte. Orsù, se tutto questo non serve, troverò io la maniera di farvi fare a mio modo. (bruscamente)
Alberto. Disela dasseno?
Conte. Ditemi, sapete chi sono? (alterato)
Alberto. Non ho l’onor de conosserla, se non per la conversazion de giersera.
Conte. Io sono il Conte di Ripafiorita.
Alberto. Me ne rallegro infinitamente.
Conte. Sono uno, che negl’incontri si è saputo cavare de’ bei capricci.
Alberto. Lodo el so bel spirito.
Conte. E vi avviso che, se non mi vorrete compiacer colle buone, lo farete colle cattive. (minaccioso)
Alberto. Come sarave a dir? La se spiega.
Conte. Voglio dire che, se non tralascierete di patrocinar questa causa, se non partirete adesso subito di Rovigo, vi caccierò la spada nei fianchi.
Alberto. La me cazzerà la spada nei fianchi?
Conte. Sì, signore, vi ammazzerò.
Alberto. La me mazzerà? Con chi credela de parlar? Con un martuffo? Con un omo che concepissa timor per le so bulade6? No la me cognosse, patron. Pensela che a Venezia quei che porta la vesta7, noi sappia manizzar la spada?
Conte. Eh! ci vuole altro che belle parole! Se metto mano, vi farò tremare.
Alberto. La se prova, e vederemo chi trema più.
Conte. Ma non mi degno di cacciar mano alla spada, contro di uno che non è capace di starmi a fronte. Voglio adoperare il bastone.
Alberto. A mi el baston? Cavalier indegno, fora quella spada. (mette mano)
Conte. Ti pentirai d’avermi provocato.
Alberto. Se morirò, morirò da par mio.
Conte. Che vol dir da par tuo?
Alberto. Da omo d’onor, da omo de spirito, da vero venezian.
Conte. Pretendi farmi paura con dire che sei veneziano? Non ti stimo, non ti temo, e non ho soggezione di te, nè di cento de’ pari tuoi.
Alberto. Cussì ti parli? Via, tocco de temerario. (si battono)
SCENA II.
Florindo con spada alla mano, in difesa d’Alberto, e detti.
Florindo. Alto, alto. (si frappone)
Alberto. Gnente, sior Florindo. Lasseme terminar8.
Conte. (Ah! mi dispiace che sia pubblicato il mio tentativo), (da sè)
Florindo. Signor Alberto, questa giornata è destinata per voi a combattere colla voce e non colla spada.
Alberto. Son bon per l’uno e per l’altro.
Florindo. Si può sapere, signori miei, la cagione delle vostre collere?
Conte. (Se questo colpo m’andò fallito, ne tenterò qualcun altro). (da sè)
Alberto. (Ho zurà de no parlar con chi che sia dell’indegna proposizion che m’ha fatta el Conte. No bisogna romper el zuramento). (da sè)
Florindo. È qualche grande arcano la vostra alterazione? Non si può sapere? Non si può rappresentare a un comune amico? Ciò mi mette, signor Alberto, in un gran sospetto.
Conte. (Ora mi scopre senz’altro). (da sè)
Alberto. (Eccolo qua coi so sospetti; bisogna disingannarlo). (da sè) Sior Florindo, ve dirò mi. Qua el sior Conte m’ha provocà, m’ha tira a cimento, e no m’ho podesto tegnir.
Florindo. Ma con quali termini, con quali ingiurie vi ha provocato?
Conte. Orsù, non ho soggezione di pubblicare io stesso la verità, giacche la debolezza del signor Alberto non sa tacerla. Io ho detto a lui...
Alberto. Zitto, patron, la me lassa parlar a mi. Tocca a mi a giustificarme, e no tocca a ela. Sappiè, sior Florindo, che sto patron ha avudo l’ardir, la temerità de parlar con poco respetto dei Veneziani. Mi che per la mia patria sparzerave el mio sangue, me farave cavar el cuor, no posso tollerar una parola, un accento, che tenda a minorar la so gloria.
Conte. Mi maraviglio di voi: io non ho detto...
Alberto. Basta cussì; la sa cossa che l’ha dito. La sa che ho zurà de no pubblicar quello che la m’ha dito. La tasa e la se consola che l’ha da far con un galantomo, che sa mantegnir la parola e trattar ben anca coi so propri nemici.
Conte. (Il ripiego non è cattivo). (da sè)
Alberto. Sior Florindo, vado a casa a serrarme in mezzà, a raccoglierme seriamente e prepararme per la disputa che doverò far. Se m’avè visto coraggioso colla spada alla man, me vederè intrepido nel tribunal; i omeni d’onor e de valor i ha da esser preparadi e disposti all’uno e all’altro esercizio, per se stessi, per i so amici, per la so patria, che va preferida a ogni impegno, a ogni interesse e alla vita istessa. (parte)
SCENA III.
Florindo ed il Conte.
Florindo. Aspettate, sono con voi...
Conte. Signor Florindo.
Florindo. Che mi comandate?
Conte. Una parola, in grazia.
Florindo. Eccomi, vi prego a non trattenermi.
Conte. Oggi dunque si tratterà questa causa.
Florindo. Oggi senz’altro.
Conte. Amico, il vostro avvocato vi tradisce.
Florindo. Come potete voi dirlo? Alberto è un uomo d’onore.
Conte. Sì, è un uomo d’onore; ma l’amore fa precipitare gli uomini più saggi ed onesti.
Florindo. È innamorato il signor Alberto?
Conte. È innamorato, perduto e pazzo della signora Rosaura.
Florindo. (Ah, ch’io non mi sono ingannato). (da sè)
Conte. (Se egli lo crede, non si fiderà che tratti la sua causa). (da sè)
Florindo. Ma come ciò voi sapete?
Conte. Ne sono certissimo. So quel che passa fra loro, e so che la signora Beatrice maneggia questo trattato.
Florindo. Di qual trattato intendete?
Conte. Di far perdere a voi la causa, per guadagnarsi la grazia della signora Rosaura.
Florindo. (Ah scellerato!) (da sè)
Conte. Perchè credete ch’io abbia messo mano alla spada contro di colui? Vi ha dato ad intendere delle fandonie. Nacque la contesa perchè, avendo io scoperto le sue fattucchierie, l’ho trattato9 da ribaldo, da traditore.
Florindo. Ma, caro signor Conte, se Rosaura vince la causa, deve sposar voi; come dunque il signor Alberto ha da impegnarsi di farla vincere, acciò sia sposa d’un altro? Se le vuol bene, ha da desiderare tutto il contrario.
Conte. Eh! amico, voi vedete poco lontano. Intanto gli preme che Rosaura sia ricca, che Rosaura gli sia grata, e poi non gli mancheranno cabale per toglierla a me e farla sua.
Florindo. Voi mi ponete in un laberinto di confusioni, di agitazioni, di smanie. Non so quel ch’io debba credere.
Conte. Dubitate forse di mia puntualità?
Florindo. Non dubito di voi: ma mi pare di fare un gran torto al signor Alberto.
Conte. E voi lasciatelo fare. Ve ne accorgerete, quando non vi sarà più rimedio.
Florindo. Possibile ch’ei mi tradisca?
Conte. Ve l’assicuro10.
Florindo. (E me lo confermano il ritratto, la conversazione e le sue parole). (da sè)
Conte. Che risolvete di fare?
Florindo. Ci penserò.
Conte. (Con un sì gran sospetto non farà correre la causa. Avrò tempo di maneggiarmi, e l’avvocato se n’anderà). (da sè, parte)
SCENA IV.
Florindo solo. Dunque Alberto m’inganna11? Parla con tanta energia dell’onore, vanta con tanto fasto la illibatezza dell’animo, sostenta 12 con tanta forza la sua sincerità, la sua fede, e poi si lascia così facilmente subornare13, si dà così vilmente ad una cieca passione in preda? Anima vile, cuor bugiardo, labbro mendace... Ma che faccio? Condanno a dirittura il mio difensore col fondamento delle asserzioni d’un suo e mio nemico? Non potrebbe egli tessermi quell’inganno, che mi figura dal mio avvocato tessuto? Certo che sì, e con molto maggior fondamento posso temere il Conte più dell’amico Alberto. Dunque si lasci ogni rio sospetto e si tratti la causa... Ma, oh dio! E se fosse vero che Alberto fosse colla mia avversaria contro di me congiurato? Ieri lo vidi col ritratto sul tavolino. Si turbò, si confuse e addusse dei mendicati pretesti. La sera lo ritrovo alla conversazione fra Rosaura e Beatrice, ed ora il Conte mi fa sospettare e dell’una e dell’altra. Questi sospetti uniti insieme formano quasi una certa prova della reità dell’animo del mio avvocato. Che farò? Che risolvo? Sospenderò la causa. E poi ricominciarla da capo? Orsù, voglio ritrovare l’amico Lelio. Vo’ farli la confidenza... Ma no, Lelio difenderà un avvocato da lui propostomi, e chi sa che Lelio non sia d’accordo: anch’egli è della conversazione. Non so che dire, non so che pensare, non so che risolvere. Quattr’ore mancano ancora al mezzo giorno, e più di otto alla trattazione della causa. Ci penserò seriamente, mi consiglierò con me stesso, e quand’altro non mi rimanga, farò una risoluzione da disperato.
SCENA V.
Camera d’Alberto in casa di Lelio, con tavolino e scritture.
Alberto senza spada e senza cappello, passeggiando con un foglio in mano, in modo di studiar la causa; poi un Servitore.
Alberto. Se vede chiara l’intenzion d’Anselmo Aretusi. L’ha fatto la donazion in tempo che no l’avea fioli. Se l’avesse avudo fioli, nol l’avena fatta; donca, per la sopravenienza del maschio, xe nulla la donazion. Mo el padre natural l’ha dada co sta fede al padre adottivo, l’è stada pregiudicada nei beni paterni. Se questo xe l’obbietto, el se risolve con somma facilità...
Servitore. Illustrissimo.
Alberto. Coss’è, amigo?
Servitore. L’illustrissima signora Flaminia, mia padrona, supplica vossignoria illustrissima, se volesse compiacersi di passare nella sua camera, che avrebbe da dirgli una cosa di premura.
Alberto. Cossa fala stamattina la vostra padrona?
Servitore. Sta meglio di molto. Stanotte non ha avuta febbre.
Alberto. Ho gusto da galantomo. Son a servirla; ma diseme, caro vecchio14, gh’è nissun in camera da ela.
Servitore. Illustrissimo sì, vi sono due signore venute a fare una visita alla padrona.
Alberto. Chi ele ste do signore?
Servitore. Una la signora Beatrice e l’altra la signora Rosaura.
Alberto. (Siora Beatrice e siora Rosaura?) (da sè) Sentì, amigo, diseghe alla vostra padrona che la me compatissa, che son drio a studiar la causa e che no posso vegnir.
Servitore. Dirò quel che ella mi comanda.
Alberto. Sior Lelio, vostro patron, ghe xelo?
Servitore. Illustrissimo no, è fuori di casa.
Alberto. (Tanto pezo). (da sè) Diseghe che no la posso servir.
Servitore. Illustrissimo sì.
Alberto. Serrè quella porta.
Servitore. Sarà servita. (parte e chiude la porta)
Alberto. Cossa voi dir sto negozio? Xe otto dì che son qua in sta casa, non ho mai visto ste do signore vegnir a far visita a siora Flaminia, benchè la sia stada tutto sto tempo in letto ammalada. Le vien stamattina dopo la conversazion de giersera, le me fa chiamar, le me vol parlar? Qua ghe xe qualche mistero. Siora Rosaura s’è accorta che gh’ho per ela qualche inclinazion, e la vien fursi a tentarme colla speranza de trionfar della mia costanza. Ma la s’inganna, se la crede de orbarme colla so bellezza. So per altro che in te le battaglie amorose se venze più facilmente fuggendo che combattendo, onde fuggo l’occasion de vederla, per assicurarme della vittoria. Tornemo a nu. Se la donazion fusse fatta dei soli beni acquistadi dal donator, se podaria disputar se de quelli el podeva o nol podeva disponer...
SCENA VI.
Beatrice di dentro batte alla porta della carriera, e detto.
Alberto. Chi è là?
Beatrice. Favorisce, signor Alberto? (da dentro)
Alberto. Oh maledetto el diavolo! Le xe qua.
Beatrice. Si contenta ch’io la riverisca per un momento? (come sopra)
Alberto. Padrona, son a servirla. La xe siora Beatrice; quell’altra, come putta15, poi esser che no l’ardissa vegnir. Con questa posso liberamente parlar. (apre)
SCENA VII.
Beatrice, Rosaura e detto; poi il Servitore.
Beatrice. È molto circospetto il signor Alberto.
Alberto. La perdoni, giera drio a certe carte. (Xe qua anca st’altra. Oh poveretto mi!) (da sè)
Rosaura. Il signor Alberto averà saputo che ci era io, e per questo averà fatto serrar la porta.
Alberto. Per dirghe la verità, me figurava de veder stamattina in sta casa tutte le persone del mondo, fora de ela.
Rosaura. Non crediate già ch’io sia venuta per voi. Son venuta a vedere la signora Flaminia.
Alberto. De questo ghe ne son certo; e me stupisso come la se sia degnada de vegnir in te la mia camera.
Rosaura. Vi son venuta per compiacere la signora Beatrice.
Alberto. In cossa16 la possio servir? (a Beatrice)
Beatrice. Se vi do incomodo, vado via.
Alberto. La vede, gh’ho i summari per man.
Beatrice. Non l’avete ancora studiata questa gran causa?
Alberto. Questo xe el zorno del gran conflitto.
Rosaura. Questo è il giorno in cui il signor Alberto avrà la gloria di vedermi piangere amaramente17.
Beatrice. Poverina! sarebbe una crudeltà troppo barbara. Direi che avete un cuore di tigre. (ad Alberto)
Alberto. Ele venude per tormentarme?
Beatrice. No, no, andiamo subito. Vedo l’accoglimento che voi ci fate. Non ci esibite nemmen da sedere? Non credea che gli uomini virtuosi fossero nemici del viver civile.
Alberto. No pensava che le se volesse trattegnir.
Beatrice. Ho una cosa da dirvi. Ve l’ho da dir così in piedi?
Alberto. La servirò, come la comanda. Chi è de là?
Servitore. Illustrissimo.
Alberto. Tirè avanti una carega18.
Rosaura. Ed io starò in piedi?
Alberto. (No so dove che gh’abbia la testa). (da sè) Tireghene do. (al servitore)
Beatrice. E voi non volete sedere?
Alberto. Tireghene tre, quattro, sie. (alterato al servitore)
Beatrice. No, no, basta tre. Siete molto collerico, signor Alberto.
Alberto. La compatissa. Stamattina son fora de mi.
Beatrice. Sedete là, signora Rosaura; io sederò qui e il signor Alberto nel mezzo.
Alberto. (Se vien sior Florindo, stago da frizer). (da sè) Sentì, quel zovene. (piano al servitore) (Se vegnisse el sior Florindo, e che ghe fusse qua ste do zentildonne, avanti de farlo passar, avviseme).
Beatrice. (Ehi, ci siamo intesi, quando vi fo cenno, chiamatemi; vi sarà la mancia). (piano al servitore)
Servitore. (Sarà servita). (piano a Beatrice e parte; poi torna)
Beatrice. Via, sedete, signor avvocato. (lo fa sedere in mezzo)
Rosaura. Se vi dà fastidio la mia vicinanza, mi tirerò più in qua.
Alberto. Mo no, la staga pur salda. (Me vien caldo e freddo tutto in una volta). (da sè) E cussì, cossa m’hala da comandar? (a Beatrice)
Beatrice. Io non intendo di comandare, ma di pregarvi.
Alberto. In quel che posso, sarò pronto a servirla.
Beatrice. Vi prego per quella povera sventurata.
Alberto. Mo cara ela, cossa ghe posso far?
Beatrice. Tutto potete, se di lei vi movete a pietà.
Alberto. Più che ghe penso, e manco me vedo in stato de poder far gnente per ela.
Beatrice. Dite che siete ostinato nel volerla vedere precipitata.
Rosaura. Eh via, signora Beatrice, non gettate invano il tempo e la fatica. Il signor Alberto ha dell’avversione per me, ed è superfluo sperare aiuto da una persona che mi odia.
Alberto. No, siora Rosaura, no la odio, no gh’ho dell’avversion per ela; ma son in necessità de defender el so avversario.
Beatrice. Perchè siete in questa necessità?
Alberto. Perchè per mia disgrazia l’ho cognossù avanti de siora Rosaura, e me son impegnà de defenderlo prima d’aver visto le bellezze dell’avversaria.
Beatrice. Dunque se prima aveste veduto la signora Rosaura, avreste difesa lei e non il signor Florindo?
Alberto. Oh! questo pò no. Non è possibile che mi defenda chi no son persuaso che gh’abbia rason. Se se trattasse del mio più stretto parente, de mi medesimo, parleria schietto; e per tutto l’oro del mondo, e per qualunque passion, no me metterave mai a defender chi gh’ha torto, colla speranza de far valer19 i sofismi, le macchine e le invenzion.
Rosaura. Eh! dite piuttosto che non avreste intrapreso a difendermi per l’antipatia che avreste avuta colla cliente.
Alberto. Se me fusse lecito dirghe tutto, la poderia assicurarse che anzi una violentissima simpatia me trasporta all’ammirazion del so merito e alla compassion del so stato.
Rosaura. Se aveste compassione di me, non procurereste di rovinarmi.
Alberto. Se fusse in mio arbitrio al renderla felice e contenta, lo farave con tutto el cuor.
Beatrice. (Il discorso mi pare bene inoltrato), (da sè) Eh! ehm! (si spurga; il servilore intende il cenno ed entra)
Servitore. Signora, la mia padrona la prega di venir da lei per un momento, che le ha da dire una parola di somma premura. (a Beatrice)
Beatrice. Vengo subito. (s’alza e il servitore parte)
Rosaura. Se partite voi, vengo anch’io. (a Beatrice, alzandosi)
Beatrice. No, no, amica; trattenetevi qui per un momento, che subito torno.
Rosaura. Farò come volete.
Beatrice. Signor Alberto, ora sono da voi.
Alberto. Siora Beatrice, per amor del cielo, l’abbia carità de mi. No la me metta in necessità o de precipitarme, o de commetter una mala creanza.
Beatrice. Vi lamentate di me, perchè vi lascio con una bella ragazza? Un affronto simile dagli uomini della vostra età si prende per una buona fortuna. (parte)SCENA VIII.
Alberto e Rosaura.
Alberto. (Fortuna de marineri, che voi dir tempesta de mar), (da sè)
Rosaura. Signor Alberto, se vi rincresce di restar meco, partirò subito per compiacervi; ma sappiate che io sono incapace20 di porre a rischio la vostra e la mia virtù.
Alberto. Cussì credo, cussì argomento dalla so modestia, cussì me persuade quell’aria nobile, che spira dolcemente dal so bel viso.
Rosaura. Giacchè la sorte ci ha fatto restar soli...
Alberto. Sia sorte, o sia artifizio, non implica gnente affatto.
Rosaura. Artifizio di chi?
Alberto. De un’amiga de cuor, interessada per i so vantaggi.
Rosaura. Se maliziosa credete la mia condotta, partirò per disingannarvi. (s’alza)
Alberto. No, la resta pur. M’ho lassà scampar sta parola, per una spezie de vanità de far cognosser che sul libro del mondo ho letto qualche carta anca mi.
Rosaura. Io non so che vi dite. Parlerò, se vi contentate; partirò, se me l’imponete.
Alberto. La parla: un’incognita forza me obbliga d’ascoltarla.
Rosaura. Giacchè la sorte, diceva, ci ha fatto restar soli, vorrei pregarvi a non mi negare una grazia.
Alberto. No la perda el tempo a domandarme de tralassar la difesa de sior Florindo, perchè tutto xe butta via.
Rosaura. No, non è questo ch’io voglio chiedervi. Ma una semplice verità che a voi costa poco, e per me può valere moltissimo.
Alberto. Co no se tratta de offender la delicatezza dell’onor mio, la parla con libertà, e la se comprometta de tutta la mia sincerità.
Rosaura. Vorrei che aveste la bontà di dirmi, se le frequenti volte che voi passaste21 sotto le mie finestre, sia stato mero accidente, oppure desiderio di rivedermi; se gl’inchini che di volta in volta voi mi facevate, erano puri atti di civiltà, oppure effetti di qualche piccola inclinazione; se le finezze e le dichiarazioni fattemi ieri sera, sono stati unicamente effetti22 di mera galanteria, oppure espressioni ed effetti di un cuor parziale, di un cuore che abbia per me concepita qualche cortese stima, qualche generosa passione. Insomma, se io sono presso di voi una indifferente persona, o se posso lusingarmi di aver meritato, se non il vostro amore, almeno la vostra pietà.
Alberto. Siora Rosaura, me son impegna de responder sinceramente, onde non posso nasconderghe la mia inclinazion. Pur troppo dal primo dì che l’ho vista, me son sentio a ferir el cuor. E quando passava sotto le so finestre, e quando cercava l’occasion de vederla, giera un infermo che andava cercando qualche ristoro al so mal. Ma oh dio! La scarsezza del balsamo, in confronto della profondità della piaga, non fava che mazormente irritarla e me accresceva el tormento, nell’atto de procacciarme el remedio. Giersera, oh dio! giersera in che smanie, in che angustie me son trovà! Quei so rimproveri i giera tanti acuti stili, che me trapassava el cuor. Quelle occhiade, miste de sdegno e de tenerezza, le me strenzeva el petto a segno de no poder respirar. Vederme in grado de dover comparir nemigo in pubblico de una che adoro in privato, l’è una spezie de novo tormento, mai più prova dai omeni, mai più inventa dai demòni, mai più figurà dalla crudeltà dei tiranni.
Rosaura. Dunque mi amate?
Alberto. Colla maggior tenerezza del cuor.
Rosaura. Questo mi basta. Faccia ora di me la sorte il peggio che far ne può; soffrirò tutto senza lagnarmi, se certa sono del vostro amore.
Alberto. Sì, cara siora Rosaura, ma la sicurezza del mio amor no pol gnente contribuir al desiderio dei so vantaggi. La vede, son nella dura costituzion de dover far quanto posso per renderla miserabile; e me pianze el cuor e se me giazza23 el sangue, co penso ch’el debito della mia onestà voi che butta da banda tutte le belle speranze della mia passion.
Rosaura. Vi compatisco più di quello che figurar vi possiate; e benchè abbia mostrato d’avere a sdegno la vostra eroica costanza, l’ho intieramente approvata; e tanto più vi trovo degno dell’amor mio, quanto più vi vedo impegnato a preferir l’onore all’amore. Se foste condisceso ad abbandonare il cliente per compiacermi, avrei goduto di mia fortuna, ma non avrei avuta stima pel vostro merito; e amando l’effetto del tradimento, avrei temuto il traditore medesimo.
Alberto. Bei sentimenti, degni di un animo bello come xe el soo24! Quanto più m’innamora sta bella virtù de quel bel viso e de quei bei occhi! Siora Rosaura, per amor del cielo, no la tormenta più el mio povero cuor.
Rosaura. M’intimate voi la partenza?
Alberto. Ghe raccomando la mia reputazion. Sto nostro colloquio pien d’eroismo, pien de virtù, sa el cielo come el vegnirà interpretà da chi no sente la frase estraordinaria delle nostre parole.
Rosaura. Una sola cosa vi dico, e parto immediatamente.
Alberto. L’ascolto con impazienza.
Rosaura. Vi amo e vi amerò fin ch’io viva.
Alberto. E la me vorrà amar, dopo che per causa mia la sarà infelice?
Rosaura. Vi amerò appunto per questo, perchè resa mi avrà infelice la vostra virtù.
Alberto. Un amor de sta sorte merita una maggior ricompensa.
Rosaura. Son nata misera e morirò sventurata.
Alberto. Vorria consolarla, ma no so come far.
Rosaura. (Destino perverso, sorte crudele!) (piange)
Alberto. (La tenerezza me opprime el cuor). (da sè)
SCENA IX.
Beatrice e detti.
Beatrice. Eccomi a voi.
Alberto. (Manco mal; l’è vegnuda a tempo). (da sè)
Beatrice. Che vuol dire che vi veggo tutti due turbati e sospesi? Rosaura, pare che abbiate le lacrime agli occhi.
Rosaura. Cara amica, partiamo.
Beatrice. Già me n’accorgo. Questo signor avvocato, indurito come un marmo, è inflessibile alle vostre preghiere, alle vostre lacrime. Vuol trattar la causa, non è egli vero? Vuol difendere il signor Florindo e precipitare la povera signora Rosaura? Ma che? Nemmeno mi rispondete? E questa tutta la vostra civiltà? Che ne dite, Rosaura, è un bell’uomo il signor Alberto? Ma nemmen voi parlate? Cos’è questa novità? Siete due statue? Io non vi capisco. Volete che ve la dica, mi parete due pazzi, e per non impazzire con voi, vi do il buon giorno e me ne vado per i fatti miei. (parte)
SCENA X25.
Rosaura ed Alberto.
Rosaura. Signor Alberto, abbiate compassione di me.
Alberto. La sa in che impegno che son.
Rosaura. Non dico che abbiate compassione della mia roba, ma che abbiate compassione di me.
Alberto. Come? In che maniera?
Rosaura. Vogliatemi bene. (parte)
SCENA XI26.
Alberto, poi Florindo ed il Servitore.
Alberto. Oimè! non posso più. Oh dio! el mio cuor! Oimè! non posso27 più respirar. (si getta a sedere)
Servitore. Aspetti che lo avvisi, e poi entrerà. (a Florindo, trattenendolo)
Florindo. Voglio passare. (sulla porta)
Servitore. Ma questa poi...
Florindo. Va al diavolo. (entra a forza; Alberto s’alza)
Alberto. Servo, sior Florindo. (El l’ha vista, el l’ha incontrada!) (da sè)
Florindo. Patron mio riverito. (Posso veder di più? Rosaura nella sua camera a patteggiare il prezzo del tradimento?) (da sè)
Alberto. Coss’è, sior Florindo, cossa vuol dir? Ghe fa spezie aver visto siora Rosaura in te la mia camera? La sappia...
Florindo. Alle corte, signor Alberto, mi favorisca le mie scritture.
Alberto. Quale scritture?
Florindo. Tutto quello che ella ha di mio. I processi, i contratti, le copie, le scritture, i sommari; mi favorisca ogni cosa.
Alberto. M’immagino che la burla.
Florindo. Ah sì, non mi ricordava. Prima di ritirare le mie scritture, ho da pagare il mio debito. Favorisca di dirmi quanto le ho da dare per tutto quello che si è compiaciuta fare per me.
Alberto. Me maraveggio, sior Florindo; mi no pattuisse mercede sulle mie fadighe. Quando averò tratta la causa, la farà tutto quello che la vorrà.
Florindo. No, no, non v’è bisogno che vossignoria s’incomodi. La causa non si disputa più.
Alberto. No? Perchè?
Florindo. Mi voglio accomodare, non voglio arrischiare il certo per l’incerto; si contenti di darmi le mie carte,
Alberto. Sior Florindo, no la tratta nè con un sordo, nè con un orbo. Capisso benissimo da che dipende sta novità. L’aver visto vegnir fora dalla mia camera la so avversaria, accredita quel sospetto che l’aveva concepido contro de mi; ma se el fusse sta presente ai nostri discorsi, l’averia avù motivo de consolarse, vedendo a che grado arriva la mia onestà e la mia fede.
Florindo. Son persuaso di tutto, ma voglio le mie carte indietro, ma la causa non si tratterà più.
Alberto. Le carte indrio? La causa no se tratterà più? A un omo della mia sorte se ghe fa sto boccon de affronto?
Florindo. Di me non vi potete dolere; vi ho avvisato per tempo; non solo non vi siete corretto, ma avete fatto peggio: vostro danno.
Alberto. Ah! pur troppo nasse a sto mondo de quei casi, de quei accidenti, dai quali l’omo no se pol defender, e l’animo più illibato, più giusto, comparisse in figura de reo. Tal son mi, ve lo zuro, ve lo protesto. Varie apparenze se unisse a farme creder colpevole, ma son innocente, ma son onesto, ma son Alberto, son un omo civil, che no degenera dalla so condizion.
Florindo. Potrete voi negarmi d’aver della passione, dell’amore per la’ signora Rosaura?
Alberto. No, stimo tanto la verità, che no la posso negar. Amo siora Rosaura, come mi medesimo; l’amo con tutto el cuor. Ma che per questo? Me crederessi capace de tradir el cliente, per favorir una donna che me vol ben? No, sior Florindo, morirò più tosto che commetter una simile iniquità.
Florindo. Io vi ripeterò a questo passo quello che un’altra volta vi ho detto. Se le volete bene, vi compatisco. Ma non conviene che vi arrischiate parlare contro una persona che amate.
Alberto. Se el mio amor verso sta creatura fusse nato avanti che me fusse impegnà con vu, per tutto l’oro del mondo non averave accettà sta causa contra de ela. Ma l’è nato in un tempo, che za giera impegnà, in un tempo, che no me posso sottrar dall’impegno, senza macchia della mia reputazion.
Florindo. Ma se io ve ne assolvo, non vi basta? Se son pronto pagarvi tutte le vostre mercedi, non siete contento?
Alberto. No me basta, no son contento. I bezzi no li stimo, d’una causa no fazzo conto, me preme el mio decoro, la mia fama, la mia estimazion. Cossa diria Venezia de mi, se là tornasse senza aver tratta quella causa, per la qual tutti sa che son vegnudo a Rovigo? La verità se sa presto, e per quanto la vostra onestà procurasse celarla, le male lengue se faria gloria de pubblicarla. Se diria per le piazze, per le botteghe, per i mezzai28, per i tribunali: Alberto xe vegnù a Venezia senza trattar la so causa. Perchè? Perchè el s’ha innamora della bella avversaria, el so cliente, diffidando della so onoratezza, della so pontualità, el gh’ha levà le carte, el l’ha cazzà via. Bell’onor, bella gloria che me saria acquistà a vegnir a Rovigo! Sior Florindo, no sarà mai vero che parta da sto paese senza trattar sta causa, che me sta tanto sul cuor.
Florindo. Basta, per oggi non si tratterà più; per l’avvenire ci penseremo.
Alberto. Come! No la se tratterà più? No xela deputada per ancuo dopo disnar?
Florindo. Io sono andato dal signor Giudice a levar l’ordine, e l’ho pregato di far notificare la sospensione all’avvocato avversario.
Alberto. L’halo mandada a notificar?
Florindo. Non vi era il messo, ma prima del mezzogiorno sarà notificata.
Alberto. Ah! sior Florindo, za che gh’è tempo, remediemo a sto gran desordine, impedimo sta sospension, lassemo correr la trattazion della causa. Per un sospetto, per un pontiglio, per un’idea insussistente e vana, no se precipitemo tutti do in t’una volta, no femo rider i nostri nemici.
Florindo. Tant’è, ho risoluto così. I miei non sono sospetti vani, ma ho in mano la sicurezza che mi volete tradire.
Alberto. Oimè! Cossa sentio? Oh! che stoccada al mio cuor. Se in altra occasion me vegnisse fatta un’offesa de sta natura, farave tornar la parola in gola a chi avesse avudo la temerità de pronunziarla; ma in sta contingenza, in sto stato nel qual me trovo, bisogna che ve prega, che ve supplica a dirme con qual fondamento me podè creder un traditor.
Florindo. Tutte le apparenze vi dimostrano tale, ma poi il signor Conte istesso mi assicura che avete patteggiato con la signora Rosaura di precipitar la mia causa, per acquistarvi la di lei grazia.
Alberto. Ah infame! ah scellerato! Se un zuramento no me impedisse parlar, ve faria inorridir, rappresentandove con che massime, con che progetti quell’anema negra ha tenta de sedurme. E vu vorrè, sior Florindo, creder a lu che ve xe nemigo, più tosto che a mi, che son el vostro avvocato?
Florindo. Per non far torto a nessuno, sospenderò di creder tutto, ma la causa non si tratterà.
Alberto. Se no se tratta sta causa, son rovinà.
Florindo. Ma io vi parlo schietto. Non voglio arrischiarmi di perderla, con questi dubbi che ho nella mente.
Alberto. No ve dubitè, no la perderemo. Sta volta la causa xe tanto chiara, che ve prometto pienissima la vittoria.
Florindo. E se si perde?
Alberto. Se la se perde per causa mia, me esibisso mi pagar tutte le spese del primo giudizio e dell’appellazion. Son pronto a farve un obbligo, e vegnì qua, che ve lo fazzo subito, se volè. Se dell’obbligo no ve fidè, ve darò in pegno tutto quello che gh’ho. Le spese della causa no se pol estender a tanto, ma n’importa, ve darò anche la camisa, ve darò el cuor, purchè se salva el mio decoro, la mia reputazion. Caro sior Florindo, omo onesto, omo da ben, abbiè compassion de mi. Son qua a pregarve che me lassè trattar sta causa, che me lassè resarcir quella macchia, che l’accidente, ma più la malizia d’un impostor, ha impressa sull’onorata mia fronte. L’unico patrimonio dell’omo onesto xe l’onor; l’onor xe el capital più considerabile dell’avvocato. Più se stima un omo onesto, che un omo dotto. No me levè sto bel tesoro, custodio con tanto zelo nell’anima; andè dal Giudice, retrattè la sospension, lassè che corra la causa, fideve de mi, credeme a mi, che più tosto moriria mille volte che sporcar con azion indegne la mia nascita, el mio decoro. Ve prego, ve supplico, ve sconzuro29.
SCENA XII30.
Lelio e detti.
Florindo.31 (Ah! sì, mi sento portato a credergli. Sarebbe troppo scellerato, se mi tradisse). (da sè)
Lelio. Amico, che avete che mi parete assai mesto? Che è ciò che tanto vi preme, che abbiate a chiedere con tanta forza? con sì gran calore32?
Alberto. Ve dirò; giera qua che me parecchiava alla disputa. Me figurava de esser davanti al Giudice, e infervora nella conclusion della renga, domandava giustizia alla rason, alla verità33.
Lelio. Questo è troppo, perdonatemi. Bisogna guardarsi da certe caricature.
Alberto. Bravo, disè ben, lo so anca mi. Ma a logo e tempo bisogna valerse dei mezzi termini. E sta volta la mia disputa giera d’un certo tenor, che bisognava terminarla cussì.
Florindo. Signor Alberto, la vostra disputa non mi dispiace. Vado a confermare al Giudice la trattazione per oggi.
Alberto. Sia ringrazià el cielo. No vedo l’ora de far conosser al mondo chi son.
Lelio. Tutti sanno che siete un bravo oratore.
Alberto. Eh! amigo, spero far cognosser una cossa, che preme più.
Lelio. Io non v’intendo.
Florindo. L’intendo io, e tanto basta. Dopo pranzo sarò da voi.
Alberto. Songio sicuro?
Florindo. Sicurissimo.
Alberto. Sieu benedetto. Tolè, che ve lo dago de cuor. (gli dà un bacio)
Florindo. (Se il Conte mi ha ingannato, me ne renderà conto). (parte)
SCENA XIII34.
Alberto e Lelio.
Lelio. Amico, ora che siamo soli, mi voglio sgravare di un peso che ho sullo stomaco. Per Rovigo si è sparsa la voce che voi siate innamorato della signora Rosaura, e ciò mi dispiace infinitamente, mentre, se ciò fosse, io ne sarei la cagione, per avervi condotto in conversazione con lei.
Alberto. Veramente savè che mi v’ho prega de lassarme a casa, e vu a forza m’ave voleste obbligar de vegnir con vu. Ve aveva confida avanti, che me piaseva siora Rosaura, ma siccome non aveva parlà longamente con ela, e non aveva scoverto el so cuor, giera in un stato da poderla trattar con indifferenza. Ve confesso la verità; la conversazion de giersera, el colloquio de stamattina m’ha fenio intieramente d’innamorar.
Lelio. Dunque, come anderà la causa?
Alberto. Benissimo, se piase al cielo.
Lelio. La tratterete con tutto l’impegno a favor del vostro cliente?
Alberto. La saria bella! Son qua per quello.
Lelio. E parlerete contro la vostra bella?
Alberto. Senza una immaginabile difficoltà.
Lelio. Ma si può far questa cosa? Si può agire contro una persona che si ama?
Alberto. Se pol benissimo.
Lelio. Come? Caro amico, spiegatemi il modo con cui ciò si può fare, perchè io non ne son persuaso.
Alberto. Ve lo spiegherò in do maniere: moralmente e fisicamente. Moralmente, rispetto a mi, considerando el mio dover, no me lasso regolar dall’affetto, ma dalla prudenza, e trovandome in un impegno, dal qual no me posso sottrar senza smacco e senza pericolo della mia reputazion, fazzo che la virtù trionfa del senso inferior. Fisicamente ve digo che xe diverse le passion de l’omo, che operando una, l’altra cede, che piena la fantasia d’una forte impression verso un oggetto, no ghe resta logo per rifletter sora d’un altro.35 Altro xe operar per accidente, altro xe operar per mistier. Se mi no fusse avvocato, no saveria e no poderia parlar contra una persona che amo; ma facendolo per profession, parlo per uso e per costume, e monto in renga per far el mio debito, senza rifletter alle mie passion.
Lelio. Bellissimo è il vostro sistema; non so però se venga comunemente abbracciato.
Alberto. Tutti i omeni d’onor se regola in sta maniera. Quando vede un avvocato in renga, disè pur francamente: quell’orator xe tanto trasformà nella persona del so cliente, che l’è incapace d’una minima distrazion.
Lelio. Ammirerò con sentimento di giubilo questa vostra magnanima azione.
Alberto. No gh’averò gnente de merito a far el mio dover.
Lelio. Mi dispiace per altro infinitamente aver dato motivo al vostro cuore di qualche pena. Credetemi, l’ho fatto innocentemente, e ve ne chiedo scusa di cuore.
Alberto. Se in tutte le operazion se vedesse le conseguenze, l’omo no falleria cussì spesso.
Lelio. Non mi mortificate d’avvantaggio. Ne provo una pena non ordinaria.
Alberto. Ma! l’è cussì. Chi non conversa, è salvadego. Chi conversa, precipita.36 Felice el mondo, se se usasse per tutto delle oneste e savie conversazion, composte de zente dotta, prudente e de sesso egual. Queste xe quelle che rende profitto ai omeni, decoro alle città, bon esempio alla zoventù. Da queste vien fora quei grand’omeni, pieni de bone massime e de dottrina, nati a posta per el pubblico e privato ben. El studio no profitta tanto, quanto l’uso delle oneste e dotte conversazion. Studiando se impara con fatica37 e con pena, conversando se impara con facilità e con piaser, perchè unendose quel utile dulci, tanto commendà da Orazio, l’omo se istruisce nell’atto medesimo che el se diverte. Ma le massime de bona educazion le m’ha trasportà a segno, che più no me ricordava della mia causa. Cussì, quando tratterò la mia causa, sarò trasportà intieramente in quella; e dopo, sollevaà dalla grand’azion, che requirit totum hominem, pol esser che me lassa allettar dall’amor, che xe la più forte, la più38 violente passion della nostra miserabile umanitàr (parte)
Lelio. Il signor Alberto ha fatto più profitto sovra il mio spirito con queste quattro parole, che non avrebbero fatto dieci maestri uniti assieme. Più volentieri si ode un amico, di un precettore; e più facilmente s’insinuano le correzioni amorose, di quello facciano le strepitose. Questo è quello che si guadagna a praticar degli uomini dotti; sempre s’impara qualche cosa di buono. (parte)
SCENA XIV39.
Camera della conversazione in casa di Beatrice, con tavolini e candellieri: il tutto in confuso, rimasto così dopo la conversazione della sera innanzi.
Colombina ed Arlecchino.
Colombina. Ecco qui, siamo sempre alle medesime. Da ieri sera in qua non hai fatto nulla. Le sedie, i tavolini, i candellieri, le carte, tutto in confuso.
Arlecchino. A ti, che te piase la pulizia, perchè no t’è vegnù in testa d’accomodar, de nettar, de destrigar e de no vegnirme a seccar?
Colombina. Pezzo d’animalaccio! Ho da far tutto io?
Arlecchino. Mi la mia parte la fazzo in cusina.
Colombina. Via dunque, prendi quei candellieri, e valli a ripulire.
Arlecchino. Ben, mi netterò i candellieri, e ti ri farà el resto.
Colombina. Io raccoglierò le carte, (s’accostano tutti due al tavolino)
Arlecchino. Olà! (alza un candelliere e vi trova sotto li due zecchini, lasciati da Alberto)
Colombina. Che cosa e’ è? (se ne accorge)
Arlecchino. Niente. (Li vuol nascondere)
Colombina. Hai trovati dei denari: sono a metà.
Arlecchino. Chi trova, trova; questa l’è roba mia.
Colombina. Due zecchini? Uno per uno.
Arlecchino. De questi no ti ghe ne magni. L’è roba mia.
Colombina. Non è vero. Le mance e queste cose si spartono fra la servitù.
Arlecchino. Mi no so de tanto spartir. Chi trova, trova.
Colombina. Lo dirò alla padrona.
Arlecchino. Dillo a chi ti voi. Sti do zecchini i è mii.
Colombina. Non è vero. Toccano metà per uno. La vedremo.
Arlecchino. Sì. La vederemo.
Colombina. Voglio il mio zecchino, se credessi di fare una lite.
Arlecchino. No te lo dago, se credesse de farme impiccar.
SCENA XV40.
I Dottore Balanzoni e detti.
Dottore. Chi è qui? Vi è mia nipote?
Colombina. Signor no; è uscita di casa colla mia padrona. Non sono ancora ritornate.
Dottore. L’ora s’avanza. Abbiamo da pranzare; dopo desinare corre la causa, e questa signora non si vede.
Colombina. Mi dai il mio zecchino? (ad Arlecchino)
Arlecchino. Signora no.
Colombina. Sei un ladro.
Arlecchino. Son un galantomo. Sel te vegnisse, te lo daria.
Colombina. Mi tocca assolutamente. Aspetta. Signor Dottor, ella che è avvocato, favorisca decidere una contesa, che verte fra di noi.
Arlecchino. La favorissa dir la so opinion, ma senza paga.
Dottore. Dite pure; m’immagino che sarà cosa di gran rilievo! Frattanto verrà Rosaura.
Colombina. Sappia, signor Dottore...
Arlecchino. Lasseme parlar a mi. La sappia, sior avvocato, che sti do zecchini i è mii...
Colombina. Non è vero, toccano metà per uno.
Arlecchino. Non è vero niente.
Dottore. Parlate uno alla volta, se volete che io v’intenda.
Colombina. Arlecchino ha ritrovati due zecchini sotto un candelliere. Sono stati lasciati da un tagliatore, per mancia della servitù; dunque sono metà per uno.
Arlecchino. Non è vero. Chi trova, trova.
Colombina. Noi facciamo tutte le cose della casa insieme, e anche41 l’utile deve essere a metà.
Arlecchino. Non è vero che femo le cosse assieme, perchè mi dormo nel mio letto, e Colombina nel suo.
Colombina. Dica, signor Dottore, chi ha ragione?
Arlecchino. Quei zecchini no eli mii?
Dottore. Via, da buoni amici, da buoni compagni: uno per uno.
Colombina. Sentì? (ad Arlecchino)
Arlecchino. No ghe stago.
Colombina. L’ha detto un Dottore.
Arlecchino. L’è un ignorante.
Dottore. Temerario!
SCENA XVI.
Il Conte Ottavio e detti.
Conte. Che cosa c’è? Si grida?
Dottore. Quel temerario mi ha perduto il rispetto.
Colombina. Briccone! Non lo conosci?
Arlecchino. El dis che sti do zecchini, che ho trovà sotto el candelier, li ho da spartir con Colombina.
Conte. Lascia vedere quei due zecchini.
Arlecchino. Eccoli qua, li ho trovadi mi.
Colombina. Sono metà per uno.
Conte. Questi sono li due zecchini che aveva io ieri sera; sono miei, e voi altri andate al diavolo.
Arlecchino. Come!...
Colombina. L’ho caro; nè tu, nè io.
Dottore. Ecco terminata la lite.
Arlecchino. Sior Conte, i me do zecchini.
Conte. Se parli, ti bastono.
Arlecchino. Maledetta Colombina! per causa toa; ma ti me la pagherà. (parte)
Colombina. Sì, ho piacere che non li abbia colui. Signor Conte, m’immagino che li avrà presi per darli a me.
Conte. Eh, non mi seccate.
Colombina. (Spiantataccio! Fanno così costoro. Vanno alle conversazioni per iscroccare e giuocano per negozio). (da sè, parte)
SCENA XVII.
Il Conte Ottavio e il Dottore.
Dottore. (Questo signor Conte è di buon stomaco). (da sè)
Conte. Dov’è la signora Rosaura?
Dottore. Non lo so. È fuori con la signora Beatrice, e sono qui ancor io che l’aspetto.
Conte. Ebbene, corre oggi la causa?
Dottore. Sì, signore, senz’altro.
Conte. Aveva inteso dire che era rimasta sospesa.
Dottore. Lo stesso aveva sentito anch’io; ma poi il notaro, due ore sono, mandommi ad avvertire che la causa corre.
Conte. (Dunque Florindo non ha abbadato alle mie parole). (da sè) Che cosa sperate voi di questa causa?
Dottore. Io spero bene, ma l’esito è sempre incerto; voleva parlar col Giudice, ed egli privatamente non ha voluto ascoltarmi.
Conte. Credete voi che prema questa causa alla signora Rosaura?
Dottore. Certamente le deve premere. Si tratta di tutto.
Conte. Eh! so io che cosa le preme.
Dottore. Che cosa?
Conte. Ci burla tutti.
Dottore. Come?
SCENA XVIII.
Beatrice, Rosaura e detti.
Beatrice. Riverisco lor signori.
Conte. Schiavo suo.
Dottore. Ben tornata, la mia signora nipote. Mi pare che sia tempo di andare a casa.
Rosaura. Caro signor zio, fatemi il piacere, per oggi lasciatemi a pranzo colla signora Beatrice.
Dottore. Signora, no certamente. Oggi si tratta la causa, e voi avete a venire con me al tribunale.
Rosaura. Io? Che ho da fare al tribunale? Compatitemi, non ci voglio venire.
Conte. Eh sì, andate, che le vostre bellezze faranno più del vostro avvocato.
Dottore. Io non ispero nessuno avvantaggio della presenza di mia nipote, ma questo è lo stile di questo foro. I clienti, quando possono, devono personalmente intervenire.
Rosaura. Con qual fronte volete che io sostenga in pubblico la presenza del Giudice e gli occhi de’ circostanti? Io non sono avvezza.
Conte. Poverina! Temete la presenza del Giudice, gli sguardi de’ circostanti? Vi consoleranno gli occhi dell’avvocato avversario.
Rosaura. (Sfacciato!) (da sè)
Dottore. Come? Vi è qualche novità?
Conte. Oh sì, signore, la vostra cliente, la vostra nipote congiura contro di voi, contro di me e contro di se medesima.
Dottore. Ma perchè?
Conte. Perchè è innamorata del Veneziano.
Dottore. È egli vero? (a Rosaura)
Conte. Non la vedete? Col suo silenzio approva le mie parole. Io vi consiglio, signor Dottore, d’andare avanti al Giudice, rappresentar questo fatto di cui ne sarò io testimonio, e sospendere la trattazion della causa. (O per una via, o per l’altra, voglio veder se mi riesce di coglier tempo). (da sè)
Dottore. Dirò, signor Conte, se vado dal Giudice con questa ciarla, ho timore di farmi ridicolo. Sia pur la cliente innamorata, se vuole, del suo avversario, le ragioni le ho da dire io, la causa la maneggio io, onde, con sua buona grazia, la causa ha da andare innanzi.
Conte. Siete un uomo poco prudente. Andate, trattatela, perdetela; ma vi protesto, che se Rosaura rimane spogliata, se non ha i ventimila ducati, straccio il contratto, annullo l’impegno, e non è degna di essere mia consorte. (parte)
Rosaura. (Ora principio a desiderare di perder la causa e di rimaner miserabile). (da sè)
Beatrice. Povera signora Rosaura; la volete sagrificare. Il Conte non la può vedere. (al Dottore)
Dottore. Quanti matrimoni si son fatti senza amore e senza inclinazione; eppure col tempo si sono accomodati. Non è una bella cosa il diventare contessa?
Rosaura. La pace del cuore val più de’ titoli e delle ricchezze. Se vinco la causa, se sposo il Conte, vedrete, signore zio, il miserabile frutto delle mie fortune. Stare con un marito che s’odia? Vedersi tutto dì d’intorno un oggetto che si aborrisce? Averlo da obbedire, da amare, da accarezzare? È una pena che non v’ha la simile nell’inferno. Povere donne! Se alcuna mi sentisse, di quelle che dico io, piangerebbero meco per compassione, consiglierebbero i padri, i congiunti delle povere figlie, a non disporre tirannicamente di loro, a non sagrificare il cuore di una fanciulla all’idolo dell’ambizione o dell’interesse. (parte)
Dottore. Quando si tratta di disputare l’articolo della libertà, le donne ne san più dei dottori; ma non ci sarà nessun giudice che dia loro ragione, non essendo giusto di preferire una vana passione al decoro e all’utile delle famiglie. (parte)
Beatrice. Chi sente lei, ha ragione, chi sente lui, non ha torto. È vero che tutte le sentenze in questo proposito uscirebbero contro di noi. Ma perchè? Perchè i giudici sono uomini; che se potessero giudicare le donne, oh! si sentirebbero dei bei giudizi a favore del nostro sesso. (parte)
Fine dell’Atto Secondo.
Note
- ↑ Bett. e Pap. aggiungono: si è meco impegnato
- ↑ Bulada, soverchieria. [nota originale]
- ↑ Ancuo, oggi. [nota originale]
- ↑ Bett. e Pap.: vi sarò eternamente,
- ↑ Segue nelle edd. Bett. e Pap.: e più d’ogni paga, d’ogni premio, d’ogni mercede, stimemo el nostro decoro, la nostra fama, la nostra reputazion.
- ↑ Bulade, bravate. [nota originale]
- ↑ Vesta, si dice alla toga che portasi dagli avvocati. [nota originale]
- ↑ Bett. e Pap. aggiungono: con gloria un duello principia con rason.
- ↑ Bett. e Pap. premettono: da falsario.
- ↑ Bett. e Pap.: Un cavaliere ve n’assicura.
- ↑ Bett. e Pap. aggiungono: mi tradisce e al precipizio mi guida?
- ↑ Bett. e Pap.: ostenta.
- ↑ Bett.: corrompere.
- ↑ Caro vecchio, si dice anche ad un giovane per amicizia. [nota originale]
- ↑ Putta, fanciulla. [nota originale]
- ↑ Bett. e Pap.: Zentildonna, in cossa.
- ↑ Bett. e Pap. aggiungono: le mie miserie.
- ↑ Sedia.
- ↑ Bett. e Pap.: veder.
- ↑ Bett. e Pap.: una giovine onesta, incapace.
- ↑ Così Bett.; invece Pap., Pasquali, Zatta ecc.: passate.
- ↑ Bett., qui e più sotto: affetti
- ↑ Agghiaccia.
- ↑ Bett. e Pap.: d’un animo bello, collocà dal cielo in un bellissimo corpo.
- ↑ Nelle edd. Bett., Pap. ecc. questa scena fa parte della precedente.
- ↑ È sc. X nelle edd. Bett., Pap. ecc.
- ↑ Bett. e Pap.: Oimè, che moro, no posso.
- ↑ Il mezzà vuol dire lo studio. [nota originale]
- ↑ Si legge invece in Bett. e Pap.: Son qua, ve lo domando per carità.
- ↑ Sc. XI nelle edd. Bett., Pap. ecc.
- ↑ Precede nelle edd. Bett. e Pap.: «Lel. (Cosa mai chiede Alberto a Florindo per carità?) da sè, avendo udite l’ultime parole».
- ↑ Bett. e Pap.: che abbiate a chiedere per carità?
- ↑ Bett. e Pap.: domandava giustizia e carità.
- ↑ Sc. XII nelle edd. Bett., Pap. ecc.
- ↑ Bett. e Pap. aggiungono: Ma vôi finir de renderve persuaso con una rason pratica e natural.
- ↑ Bett. e Pap. aggiungono: Par che no ghe sia altro divertimento che zogo, crapula e donne. El zogo rovina la borsa, la crapula precipita la salute, le donne, per el più, le leva el giudizio.
- ↑ Così tutte le edd. invece di fadiga.
- ↑ Bett.: e la più.
- ↑ Sc. XIII nelle edd. Bett., Pap. ecc.
- ↑ Sc. XIV delle edd. Bett., Pap. ecc.
- ↑ Zatta: Non facciamo ecc. insieme? E anche.