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460 | ATTO SECONDO |
Alberto. Oh! questo pò no. Non è possibile che mi defenda chi no son persuaso che gh’abbia rason. Se se trattasse del mio più stretto parente, de mi medesimo, parleria schietto; e per tutto l’oro del mondo, e per qualunque passion, no me metterave mai a defender chi gh’ha torto, colla speranza de far valer1 i sofismi, le macchine e le invenzion.
Rosaura. Eh! dite piuttosto che non avreste intrapreso a difendermi per l’antipatia che avreste avuta colla cliente.
Alberto. Se me fusse lecito dirghe tutto, la poderia assicurarse che anzi una violentissima simpatia me trasporta all’ammirazion del so merito e alla compassion del so stato.
Rosaura. Se aveste compassione di me, non procurereste di rovinarmi.
Alberto. Se fusse in mio arbitrio al renderla felice e contenta, lo farave con tutto el cuor.
Beatrice. (Il discorso mi pare bene inoltrato), (da sè) Eh! ehm! (si spurga; il servilore intende il cenno ed entra)
Servitore. Signora, la mia padrona la prega di venir da lei per un momento, che le ha da dire una parola di somma premura. (a Beatrice)
Beatrice. Vengo subito. (s’alza e il servitore parte)
Rosaura. Se partite voi, vengo anch’io. (a Beatrice, alzandosi)
Beatrice. No, no, amica; trattenetevi qui per un momento, che subito torno.
Rosaura. Farò come volete.
Beatrice. Signor Alberto, ora sono da voi.
Alberto. Siora Beatrice, per amor del cielo, l’abbia carità de mi. No la me metta in necessità o de precipitarme, o de commetter una mala creanza.
Beatrice. Vi lamentate di me, perchè vi lascio con una bella ragazza? Un affronto simile dagli uomini della vostra età si prende per una buona fortuna. (parte)
- ↑ Bett. e Pap.: veder.