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L'AVVOCATO VENEZIANO | 461 |
SCENA VIII.
Alberto e Rosaura.
Alberto. (Fortuna de marineri, che voi dir tempesta de mar), (da sè)
Rosaura. Signor Alberto, se vi rincresce di restar meco, partirò subito per compiacervi; ma sappiate che io sono incapace1 di porre a rischio la vostra e la mia virtù.
Alberto. Cussì credo, cussì argomento dalla so modestia, cussì me persuade quell’aria nobile, che spira dolcemente dal so bel viso.
Rosaura. Giacchè la sorte ci ha fatto restar soli...
Alberto. Sia sorte, o sia artifizio, non implica gnente affatto.
Rosaura. Artifizio di chi?
Alberto. De un’amiga de cuor, interessada per i so vantaggi.
Rosaura. Se maliziosa credete la mia condotta, partirò per disingannarvi. (s’alza)
Alberto. No, la resta pur. M’ho lassà scampar sta parola, per una spezie de vanità de far cognosser che sul libro del mondo ho letto qualche carta anca mi.
Rosaura. Io non so che vi dite. Parlerò, se vi contentate; partirò, se me l’imponete.
Alberto. La parla: un’incognita forza me obbliga d’ascoltarla.
Rosaura. Giacchè la sorte, diceva, ci ha fatto restar soli, vorrei pregarvi a non mi negare una grazia.
Alberto. No la perda el tempo a domandarme de tralassar la difesa de sior Florindo, perchè tutto xe butta via.
Rosaura. No, non è questo ch’io voglio chiedervi. Ma una semplice verità che a voi costa poco, e per me può valere moltissimo.
Alberto. Co no se tratta de offender la delicatezza dell’onor mio, la parla con libertà, e la se comprometta de tutta la mia sincerità.
Rosaura. Vorrei che aveste la bontà di dirmi, se le frequenti volte che voi passaste2 sotto le mie finestre, sia stato mero accidente, oppure desiderio di rivedermi; se gl’inchini che di volta in volta voi mi facevate, erano puri atti di civiltà, oppure