L'avvocato veneziano/Atto I
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ATTO PRIMO.
SCENA PRIMA.
Camera dell’Avvocato in casa di Lelio, con tavolino, scritture, calamaio ed una tabacchiera sul tavolino medesimo.
Alberto in veste da camera e parrucca, che sta al tavolino scrivendo, e guardando libri e scritture; poi Lelio.
Alberto. Me par impossibile che il mio avversario voggia incontrar sto ponto1. La rason xe evidente, la disputa è chiara, e l’articolo xe dalla legge deciso.
Lelio. Signor Alberto, che fate voi con tanto studiare? Prendete un poco di respiro; divertitevi un poco. Non vedete che il sol tramonta? Sono quattr’ore che siete al tavolino.
Alberto. Caro amigo, se me volè ben, lasseme studiar; sta causa la me preme infinitamente.
Lelio. Sono otto giorni che non si fa altro che parlare di questa causa. Un uomo del vostro sapere e del vostro spirito dovrebbe a quest’ora essern pienamente in possesso.
Alberto. (S'alza) Ve dirò, sior Lelio, le cause de conseguenza no le se studia mai abbastanza. Quando se tratta de un ponto de rason2, bisogna sempre, per chiaro che el sia, dubitar dell’esito; bisogna preveder i obbietti dell’avversario, armarse a difesa e a offesa; e un avvocato, che ha per massima el ponto d’onor, no se contenta mai de se stesso; e veglia, e suda per assicurar l’interesse del so cliente, per metter l’animo in quiete, e per autenticar el zelo del proprio decoro.
Lelio. Sono massime da par vostro, e non ho che dire in contrario. Solo bramerei che, dopo l’applicazione, mi donaste il contento di godere la vostra amenissima conversazione. So che siete ancor voi di buon gusto, e alle occasioni ho sperimentato in Venezia e sulla Brenta3 la prontezza del vostro spirito, lepido, ameno e saviamente giocoso.
Alberto. Sì, caro amigo; son anca mi omo de mondo; me piase l’allegria; co ghe son, ghe stago, e ai so tempi no me retiro. Ma adesso son a Rovigo per trattar una causa, e no per star in villeggiatura. Vu se stà quello che per un atto de bona amicizia m’ave procurà sta causa; vu avè indotto e persuaso sior Florindo a valersene della mia debole attività in una causa de tanto rimarco, e lu, fidandose della vostra amicizia, non ostante che in sta città de Rovigo ghe sia soggetti degni e capaci, el m’ha fatto vegnir mi da Venezia a posta, e la so confidanza xe tutta riposta in mi. Xe necessario non solo che applica alla causa con assiduità, ma che me contegna in tel paese con serietà, per accreditar la mia persona nell’animo del Giudice, che xe un capo essenzialissimo, che onora l’avvocato e che favorisse el cliente.
Lelio. Se io vi ho proposto al signor Florindo, ho preteso di usare un atto di buona amicizia con tutti due. Con voi, procurandovi quell'onesto profitto che meriteranno le vostre fatiche; con lui, ponendolo nelle mani di un avvocato dotto, onesto e sincero, come voi siete.
Alberto. Dotto vorria esser; onesto e sincero me vanto d’esser.
Lelio. Ma questa sera almeno non verrete per un poco alla conversazione?
Alberto. Doman se tratta la causa; no credo de poder vegnir.
Lelio. Sono in impegno di condurvi, e spero che non mi farete scomparire.
Alberto. Ma dove? Da chi?
Lelio. In casa della signora Beatrice, di quella vedova di cui vi ho parlato più volte. Ella tiene conversazione una volta la settimana; stassera ci aspetta, e vi supplico di venir meco.
Alberto. Ma fin a che ora?
Lelio. Vi starete fin che v’aggrada.
Alberto. Fin do ore m’impegno, ma gnente de più.
Lelio. Mi contento. Vi troverete una conversazione che forse non vi dispiacerà.
Alberto. Trattada che abbia sta causa4, se goderemo quattro zorni senza riserve.
Lelio. Strepito grande fa questa causa in questo paese; non si parla d’altro.
Alberto. Questo xe un maggior stimolo alla mia attenzion.
Lelio. Ditemi, avete mai veduto la cliente avversaria?
Alberto. L’ho vista diverse volte. Squasi ogni zorno la vedo al balcon. L’ho incontrada per strada. Un dì la s’ha fermà a discorrer col medico che giera in mia compagnia; l’ho considerada con qualche attenzion e ho formà de ela un ottimo concetto.
Lelio. Non è una bella ragazza?
Alberto. Bella, da omo d’onor, bella d’una bellezza non ordinaria.
Lelio. Vi piace dunque?
Alberto. Le cose belle le piase a tutti.
Lelio. Giuoco io, che più volentieri del signor Florindo, difendereste la signora Rosaura.
Alberto. Ve dirò: rispetto al piaser de trattar el cliente, siguro che tratteria più volentiera siora Rosaura del sior Florindo; ma rispetto al merito della causa, defendo più volentiera chi ha più rason.
Lelio. Povera giovane! Se perde questa causa, resta miserabile affatto.
Alberto. Confesso el vero, che la me fa peccà5. La gh’ha un’idea cussì dolce, un viso cussì ben fatto, una maniera cussì gentil, un certo patetico, missià6 con un poco de furbetto, che xe giusto quel carattere che me pol.
Lelio. Volete vedere il suo ritratto?
Alberto. Lo vederia volentiera.
Lelio. Eccolo. Il pittore mio amico ne ha fatto uno per il conte Ottavio, che deve essere suo sposo; io ho desiderato d’averne una copia, ed egli mi ha compiaciuto. (gli fa vedere il ritratto in un picciolo rame)
Alberto. L’è bello; el someggia7 assae; l’è ben desegnà; i colori no i pol esser più vivi. Vardè quei occhi; vardè quella bocca; el xe un ritratto che parla; amigo, ve ne priveressi?
Lelio. Se lo volete, siete padrone.
Alberto. Me fè una finezza, che l’aggradisso infinitamente.
Lelio. Ma parliamoci schietto. Non vorrei che foste innamorato della vostra avversaria.
Alberto. La me piase, ma non son innamorà.
Lelio. E avrete cuore di sostenere una causa contro una bella ragazza che vi piace?
Alberto. Perchè? Paderia anca contra de mi medesimo, quando lo richiedesse el ponto d’onor.´
Lelio. Badate bene.
Alberto. Via, via, no me fè sto torto. No me credè capace de sacrificar el decoro alle frascherie.
Lelio. E se la signora Rosaura sarà presente alla trattazion della causa, come anderà?
Alberto. La varderò con tutta l’indifferenza. El calor della disputa non ammette distrazion. Co l’avvocato xe in renga8, xe impiega tutto l’omo. I occhi xe attenti a osservar i movimenti del giudice, per arguir dai segni esterni dove pende l’animo suo. Le recchie le sta in attenzion, per sentir se l’avversario brontola co se parla, per rilevar dove el fonda l’obbietto e fortificar la disputa, dove la se pol preveder tolta de mira con mazor vigor. La mente tutta deve esser raccolta nella tessitura d’un bon discorso, che sia chiaro, breve e convincente, distribuido in tre essenzialissime parti: narrativa, che informa; rason, che prova; epilogo, che persuada. Le man e la vita, tutto deve essere in moto e in azion9; perchè vestendosene l’avvocato non solo della rason, ma della passion del cliente, tutto el se abbandona ai movimenti della natura, e la veemenza, colla qual el parla, serve per maggiormente imprimer nell’animo de chi l’ascolta, e per mostrar coll’intrepidezza, col spirito e col vigor la sicurezza dell’animo prepara alla vittoria.
Lelio. Non so come il dottor Balanzoni, vostro avversario, intenderà questa maniera di disputare. Egli è bolognese, e voi veneziano; a Bologna si scrive, e non si parla.
Alberto. Benissimo, lu el scriverà, e mi parlerò. Lu xe primo, e mi son segondo. Che el vegna colla so scrittura d’allegazion, studiada, revista e corretta quanto che el vol, mi ghe responderò all’improvviso. Maniera particolar de nualtri avvocati veneti, che imita el stil e el costume dei antichi oratori romani.
Lelio. Veramente è una cosa maravigliosa e sorprendente sentir gli uomini parlare all’improvviso in una maniera sì forte e sì elegante, che meglio fare non si potrebbe scrivendo. E quelle lepidezze frammischiate con tanta grazia nelle cose più serie, senza punto pregiudicare alla gravità della disputa, non incantano, non innamorano?
Alberto. Quando le xe nicchiade con artifizio, dite con naturalezza, senza offender la modestia o la carità, le xe tollerabili.
Lelio. Certo è una cosa di cui tutti i forestieri ne parlano con ammirazione e con maraviglia.
Alberto. Ma, caro amigo, troppo tempo m’avè fatto perder inutilmente. Ve prego, lasseme studiar.
Lelio. Via, studiate, e poi anderemo dalla signora Beatrice. Poco manca alla sera.
Alberto. Sta siora Beatrice la ve sta molto sul cuor.
Lelio. È una donna tutto spirito.
Alberto. No la staria ben con vu.
Lelio. Perchè?
Alberto. Perchè so che vu se un omo tutto carne.
Lelio. Bene, il di lei spirito correggeria la mia carne.
Alberto. Se el spirito moderasse la carne, felice el mondo: el mal xe che la carne fa far a so modo el spirito.
Lelio. Voi siete diventato molto morale. Da quando in qua vi siete dato allo spirito?
Alberto. Dopo che la carne m’ha fatto mal.
Lelio. Quando è così, vi compatisco. Vi lascio nella vostra libertà. Anderò a vedere come sta Flaminia mia sorella.
Alberto. Reverila da parte mia. Diseghe che ghe auguro bona salute.
Lelio. Lo farò senz’altro. A rivederci stassera. (parte)
SCENA II.
Alberto solo.
Animo, a tavolin; fenimo de far el summario delle rason. Mo gran bel ritratto! Mo el gran bel visetto! No ho mai visto un viso omogeneo al mio cuor, come questo. No vorave che sto ritratto me devertisse dalla mia applicazion. Via, via, mettemolo qua´ in sta scatola, e no lo vardemo più. (pone il ritratto nella tabacchiera che sta sul tavolino) Co sarà fenia la causa, poderò divertirme col ritratto, e anca fursi coll’original. La sarave bella che fusse vegnù a Rovigo a vadagnar una causa, e a perder el cuor! Eh! che no voggio abbadar a ste ragazzade. Animo, animo, demoghe drento, e lavoremo. La donazion xe fatta in tempo de mancanza de fioli... (scrivendo)
SCENA III.
Un Servitore ed il suddetto, poi Florindo.
Servitore. Illustrissimo.
Alberto. Cossa gh’è?
Servitore. Il signor Florindo Aretusi.
Alberto. Patron.
Servitore. (Prego il cielo che guadagni questa causa, che anch’io avrò la mancia. Noi altri servitori degli avvocati facciamo più conto delle mance, che del salario). (da sè, parte)
Alberto. L’ha fatto ben a vegnir. Daremo l’ultima pennelada al desegno della nostra causa.
Florindo. Servo, signor Alberto.
Alberto. Servitor obbligatissimo. La se comoda.
Florindo. Eccomi a darle incomodo. (siede)
Alberto. Anzi l’aspettava con ansietà. La favorissa; la vegna arente de mi. Incontreremo la fattura10.
Florindo. Come vi aggrada. Avete saputo che il Giudice non può domattina ascoltar la causa?
Alberto. Stamattina sul tardi son sta a Palazzo, e avemo accordà col Giudice e coll’avversario de trattarla dopo disnar. Questa xe la fattura; la favorissa de compagnarme coll’occhio, e suggerirme se avesse lassa qualcossa de essenzial nella narrativa dei fatti, nell’ordine dei tempi o nella citazion delle carte. El´ nobile signor Anselmo Aretusi, padre del nobile signor Florindo, s’ha maridà colla nobile signora Ortensia Rinzoni, nell’anno 1714. Fede de matrimonio, proc. A, a carte 1. Con dote de ducati cinquemille. Contratto nuzial con ricevuta, a carte 2.
Nell’anno 1724, il signor Anselmo Aretusi, non avendo figliuoli dopo dieci anni di matrimonio, ha preso per sua figlia adottiva, detta volgarmente fia d’anema, la signora Rosaura, figlia del signor Pellegrino Balanzoni mercante bolognese, negoziante in Rovigo. Attestato che giustifica, a carte 3.
Nel 1726 el detto signor Anselmo fa donazion de tutto el suo alla detta signora Rosaura. Contratto de donazion, a carte 4.
Nel 1728 dal detto signor Anselmo Aretusi e signora Ortensia jugali nasce il nobile signor Florindo, loro figlio legittimo e naturale. Fede della nascita, a carte 7.
Nel 1744 passa da questa all’altra vita la signora Ortensia, moglie del signor Anselmo, e col suo testamento lassa erede della sua dote il signor Florindo suo figlio. Testamento in atti ecc., a carte 8.
Nel 1748, ai 24 d’Avril, mor senza testamento el nobile signor Anselmo Aretusi. Fede della morte, a carte 12.
Addì 8 Maggio susseguente, la signora Rosaura Balanzoni fa sentenziar a legge11 la donazion del fu Anselmo Aretusi, per l’effetto d’andar al possesso de tutti i beni liberi de rason del medesimo. Domanda avversaria, carte 15.
Il nobile signor Florindo Aretusi, come figlio legittimo e naturale del suddetto signor Anselmo, si pone all’interdetto12, domandando taggio della donazion. Domanda nostra, a carte 14.
Produzion avversaria d’un testamento del fu Agapito Aretusi, che istituisce un fideicommisso ascendente a favor della linea Aretusi, verificò in oggi nella persona del signor Florindo, a carte 15.
Florindo. Signor Alberto, io non capisco perchè la parte avversaria abbia prodotto questo testamento, che sta a favor mio. Se un mio ascendente ha fatto un fideicommisso a mio favore, molto meno l’avversaria può pretendere nell’eredità di mio padre.
Alberto. Mo ghe dirò mi, per cossa che i l’ha prodotto. Loro i domanda i beni liberi; e una rason de domandarli xe fondada sulla miseria della fiola adottiva, oltre el fondamento della donazion. I dise: nu domandemo i beni liberi; per el fio legittimo e natural ghe resta i fideicommissi, ghe resta la dote materna. Se lu perde, nol se reduse a pessima condizion; se perde la donna, la resta senza gnente a sto mondo.
Florindo. Che dite voi sopra di questo obbietto?
Alberto. Questo xe un obbietto previsto, arguido dalle carte avversarie: se i me lo farà in causa, ghe responderò per le rime. A ela intanto ghe digo, che sotto sto cielo la pietà pol moltissimo, ma quando no se tratta del pregiudizio del terzo. Dai tribunali se profonde le grazie, ma la giustizia va sempre avanti della compassion. E quel difensor che se fida della disputa patetica e commiserante, nol poi sperar gnente, se no l’è assistido dalla rason.
Florindo. E circa il merito della donazione, che ne dite?
Alberto. Quel che sempre gh’ho dito. La sarà taggiada senz’altro.
Florindo. Dunque voi sostenete che un uomo non possa donare il suo?
Alberto. Mi, la me perdona, no sostegno sta bestialità. L’omo poi donar, ma per donar a un terzo, nol pol privar i so fioi.
Florindo. Quando ha donato, non aveva figliuoli.
Alberto. Giusto per questo, colla sopravvenienza dei fioli, se rende nulla la donazion.
Florindo. Dunque sempre più vi confermate nella sicurezza che abbiamo ragione.
Alberto. In quanto a mi, digo che della rason ghe ne avanza.
Florindo. Sentite: se guadagno la causa, ne avrò piacere, perchè si tratta di ventimila ducati in circa; ma poi sarò anche contento per vedere umiliata quella superba di Rosaura, che pretendeva diventare contessa.´
Alberto. Poveretta! Ella no la ghe n’ha colpa.
Florindo. E quel bravo avvocato bolognese suo zio, che è venuto apposta da Bologna per trattar questa causa, si farà onore.
Alberto. La senta. Tutti i avvocati i venze delle cause e i ghe ne perde; e ogni volta che se tratta una causa, uno ha da perder e l’altro ha da venzer; e pur tanto sarà dotto e onesto quel che venze, come quel che perde. Co se tratta de ponti de rason13, ghe xe da discorrer per una parte e per l’altra. Delle volte se scovre e se rileva de quelle cosse, che no s’ha capio, che no s’ha previsto. Bisogna star lontani dalle cause de manifesta ingiustizia, dai fatti falsi, dalle calunnie, dalle invenzion; da resto, co gh’ha logo l’opinion, chi studia, se sfadiga e s’inzegna, no gh’ha altro debito, e nissun xe responsabile della vittoria.
Florindo. Eppure gli avversari cantano già il trionfo. Quella impertinente di Rosaura mi ha detto ieri sera un non so che di voi, che mi ha acceso di collera.
Alberto. De mi? Cossa gh’ala dito, cara ela?
Florindo. Non ve lo voglio dire.
Alberto. Eh via, la me lo diga; za mi ghe prometto recever tutto con indifferenza.
Florindo. Sentite che bella maniera di parlare. Signor Florindo, mi disse, avete fatto venire un avvocato da Venezia per trattare la vostra causa. L’avete scelto molto bello; era meglio che lo sceglieste bravo. Impertinente! Vedrai chi è il signor Alberto Casaboni!
Alberto. L’ha dito che l’ha scielto un avvocato bello? (con bocca ridente)
Florindo. Sì, e non bravo. Non vi conosce ancora colei.
Alberto. Certo che, se la me cognossesse, no l’averave dito sta bestialità che son bello.
Florindo. L’avete mai veduta Rosaura?
Alberto. L’ho vista al balcon.´
Florindo. Dicono che sia bella. A me non piace per niente. Voi che ne dite?
Alberto. Lassemo andar ste freddure, e tendemo a quel che importa. La me lassa fenir sto sumarietto delle rason, e pò son con ela. (si mette a scrivere)
Florindo. Fate pure. Mi date licenza che prenda una presa del vostro tabacco?
Alberto. La se serva. (scrivendo, senza guardar Florindo)
Florindo. (Prende la scatola ov’è il ritratto di Rosaura, l’apre, lo vede, e s’alza) (Come, che vedo! Il signor Alberto ha il ritratto di Rosaura? Sarebbe mai di essa invaghito? Poco fa, quando la trattai da superba, mostrò di compassionarla; gli domandai se l’aveva veduta, non mi ha detto d’avere il suo ritratto. Gli ho chiesto se gli par bella, ed egli ha mutato discorso. Ciò mi mette in un gran sospetto; non vorrei ch’egli mi tradisse. No, un uomo onorato non è capace di tradire; ma chi m’assicura che il signor Alberto sia tale? Non lo conosco che per relazion dell’amico Lelio. Oimè, in qual confusione mi trovo! Domani s’ha da trattar la causa; se la lascio correre, son pieno di sospetti; se la sospendo, mi carico di spese, di dispiaceri, d’incomodi. Io non so che risolvere). (da sè)
Alberto. Ho fenio tutto. (s’alza)
Florindo. Gran buon tabacco avete, signor Alberto!
Alberto. De qualo hala tolto? El rapè lo gh’ho in scarsella.
Florindo. Ho preso di questo, il quale, invece di darmi piacere, mi ha offeso gli occhi non poco.
Alberto. El sarà de quel suttilo, de quel che fa pianzer.
Florindo. Sì, questo è un tabacco che può far piangere, e mi maraviglio che voi lo tenghiate sul tavolino.
Alberto. Lo tegno per divertirme dall’applicazion, el me serve per scaricar.
Florindo. Badate che non vi carichi troppo.
Alberto. Gnente affatto, la lassa veder... (Oimè, cossa vedio? El ritratto de siora Rosaura?) (da sè)
Florindo. Signor Alberto, questo è il ritratto della mia avversaria!´
Alberto. Sior sì, el xe el ritratto de siora Rosaura.
Florindo. Chi custodisce il ritratto, mostra d’amare l’originale.
Alberto. La me perdona, la dise mal. Mi me diletto de miniature; se la vegnirà a Venezia, la vederà in casa mia una piccola galleria de ritratti: tutti de zente che no cognosso, de donne che no so chi le sia. E questo l’anderà coi altri alla medesima condizion.
Florindo. Vi pare questo un ritratto da galleria?
Alberto. El gh’ha el so merito; l’è ben desegnà. La carnagion no pol esser più natural. El panneggiamento xe molto vivo. La varda quelle pieghe. La varda come ben atteggiada quella testa e quella man. In quei quattro tocchi de chiaroscuro, che forma una spezie d’architettura in piccolo, se ghe vede el maestro. El xe un bel ritratto. Sior Lelio lo gh’aveva, l’ho visto, el m’ha piasso, el me l’ha donà, e el servirà per cresser el numero dei mi ritratti.
Florindo. Amico, parliamoci con libertà. Anch’io son uomo di mondo, e so benissimo che si danno di quegli assalti, da’ quali l’uomo più saggio non si sa difendere. Se il volto della signora Rosaura avesse fatto qualche impressione nel vostro cuore, malgrado ancora della vostra virtù, vi compatirei infinitamente, perchè la nostra miserabile umanità per lo più è soggetta a soccombere. Solo vi pregherei a confidarmelo, a svelarmi colla vostra bella sincerità quest’arcano, e vi prometto da uomo d’onore, che se vi sentite qualche ripugnanza nel difendermi contro Rosaura, vi lascierò nella vostra pienissima libertà, vi dispenserò dall’impegno in cui siete, e se non credessi di offendere la vostra delicatezza, vi esibirei tutto il prezzo delle vostre fatiche, e di più ancora, per animarvi a14 confidarmi la verità.
Alberto. Sior Florindo, v’ho lassà dir, v’ho lassà sfogar senza interromper, senza defenderme; adesso che avè fenio, brevemente parlerò mi. Che la nostra umanità sia fragile, no lo nego; che un omo savio e prudente se possa innamorar, ve l’accordo; ma che un omo d’onor se lassa portar via da una cieca passion, col pregiudizio del so decoro, della so estimazion, l’è difficile più de quel che credè; e se in tal materia ghe xe sta e ghe xe dei cattivi esempi, Alberto no xe capace de seguitarli. El dubitar che vu fè della mia onestà, della mia fede, xe per mi una gravissima offesa; ma no son in grado de resentirmene, perchè el mio resentimento in sto caso el poderia autenticar le vostre parole. Son qua per defender la vostra causa, son qua per trattarla. La tratterò per l’impegno d’onor, più che per quel vil interesse che malamente e fora de tempo avè avudo ardir d’offerirme. Vederè con che calor, con che cuor, con che animo sostenirò la vostra difesa. Conosserè allora chi son, ve pentirè d’averme offeso con un indegno sospetto, e imparerè a pensar meggio dei omeni onesti, dei avvocati onorati. (parte)
Florindo. Il signor Alberto si scalda molto, ma ha ragione; un uomo di delicata reputazione non può soffrire un’ombra che lo pregiudichi. Io mi sono lasciato trasportare un poco troppo dalla passione. Ma diamine! Gli vedo il ritratto di Rosaura sul tavolino, e non ho da sospettare? Il sospetto è molto ben fondato. E tutto quel caldo del signor Alberto non potrebbe essere prodotto dal dispiacere di vedersi scoperto? No, non mi voglio inquietare. Domani si tratterà la causa, e sarà finita. E se la causa si perde? E se la causa si perde, niuno mi mi leverà dal capo che l’avvocato non mi abbia tradito, per favorire le bellezze dell’avversaria. (parte)
SCENA IV.
Camera di conversazione in casa di Beatrice, con tavolini da giuoco, sedie, lumi e carte: le quali cose, mal disposte, vengono poste in ordine da Colombina e Arlecchino.
Colombina e Arlecchino.
Colombina. Animo, spicciamoci; s’appressa l’ora della conversazione.
Arlecchino. A mi no m’importa de l’ora della conversazion. Me preme quella della cena.´
Colombina. Tu non pensi che a mangiare, ed a me tocca quasi sempre far quello che dovresti far tu.
Arlecchino. Cara Colombina, son omo da poderte refar; se ti ti te sfadighi la mia parte, mi magnerò la toa.
Colombina. Orsù, ora non è tempo di barzellette. Bisogna mettere in ordine questi tavolini e queste sedie, e preparare le carte, perchè, come sai, questa sera vi sarà conversazione.
Arlecchino. Alla conversazion cossa fai delle carte?
Colombina. Oh bella! giuocano, e giuocano di grosso. Sono tutti amici quelli che vengono in questa casa, ma vorrebbero potersi spogliare l’uno con l’altro.
Arlecchino. La saria bella che i spoiasse la padrona, e che la restasse in camisa.
Colombina. Oh! non vi è pericolo; la padrona non perde mai. O per fortuna, o per convenienza, o per complimento, se vince, tira, se perde, non paga.
Arlecchino. In sta maniera vorria zogar anca mi.
Colombina. Ma questo privilegio è solo per le donne. Gli uomini perdono a rotta di collo. Ne ho veduti parecchi in questa casa rovinarsi. Vengono a conversazione, e vi trovano la malora; vengono allegri, e partono disperati.
Arlecchino. Ho sentì anca mi qualche volta a bestemmiar...
Colombina. Ecco la padrona. Presto le sedie. (s’affrettano nell'accomodar quanto occorre)
SCENA V.
Beatrice e detti.
Beatrice. E quando la finirete? Tanto vi vuole ad accomodare quattro sedie?
Arlecchino. Colombina no la fenisse mai.
Colombina. Se non fossi io! Costui non è buono a nulla. Questa sedia qui. (regolando una sedia posta da Arlecchino)
Arlecchino. Siora no, la va qua. (la scompone)
Colombina. Non va bene. La voglio qui. 15
Arlecchino. Ti è un’ignorante.
Colombina. Sei un asino.
Arlecchino. Son el diavolo che te porta. (getta con rabbia la sedia in terra)
Colombina. A me quest’affronto? (ne getta una verso Arlecchino)
Beatrice. Siete pazzi?
Arlecchino. Maledettissima. (getta in terra un altra sedia)
Beatrice. A chi dico? Temerari, così mi ubbidite? Vi caccerò entrambi di casa.
Colombina. Con colui non si può vivere. (rimette una sedia)
Arlecchino. Culia16 l’è insatanassada. (rimette un altra sedia)
Colombina. Se non fossi io! (vuol rimettere la terza sedia)
Arlecchino. Lassa star, che tocca a mi.
Colombina. Tocca a me.
Arlecchino. Tocca a mi. (si sente picchiare)
Beatrice. Picchiano.
Colombina. Vado io.
Arlecchino. Tocca a mi.
Colombina. Tocca a me. (partono tutti due e lasciano la sedia in terra)
Beatrice. Tocca a mi, tocca a me, e la sedia non si è levata. Gran pazienza vi vuole con costoro. L’ora s’avanza, e la conversazione questa sera ritarda. Se non giuoco, sto in pene; gran bel divertimento è il giuocare.
SCENA VI.
Rosaura, il Dottor Balanzoni e detta.
Beatrice. Ben venuta la signora Rosaura.
Rosaura. Ben trovata la signora Beatrice.
Beatrice. Serva divotissima, signor Dottore.
Dottore. Le faccio umilissima riverenza.
Rosaura. Sono venuta a ricevere le vostre grazie.
Beatrice. Mi avete fatto un onor singolare. Spero avremo una buona conversazione. Favorite; accomodatevi. Signor Dottore, s’accomodi. (Rosaura siede)
Dottore. Se la mi dà licenza, bisogna ch’io vada per un affare indispensabile. Ho accompagnata mia nipote, peraltro io non posso restare a godere delle sue grazie.
Beatrice. Mi dispiace infinitamente. Ma quando si è spicciato, torni, non ci privi della sua conversazione.
Dottore. Tornerò più presto ch’io potrò. La ringrazio della bontà ch’ella dimostra per un suo buon servitore.
Beatrice. Anzi mio padrone. Dica, signor Dottore, speriamo bene circa la causa della signora Rosaura?
Dottore. Spererei che dovesse andar bene.
Beatrice. La di lei virtù può tutto promettere.
Dottore. Farò certamente tutto quello che io potrò.
Beatrice. E poi l’amore che ella ha per la nipote, maggiormente l’impegnerà a porvi tutto lo studio.
Dottore. È verissimo, l’amo17 teneramente. Ella è figlia d’un mio fratello. Sono venuto a posta da Bologna, ed ho abbandonato i miei interessi, con tanto pregiudizio del mio studio, per venire ad assistere questa buona ragazza.
Beatrice. Veramente la signora Rosaura lo merita.
Dottore. Orsù, signora Beatrice, a rivederla e riverirla18.
Beatrice. Serva sua.
Rosaura. Torni presto, signor zio.
Dottore. Sì, tornerò presto; vado ad operare per voi; vado a portare al Giudice la mia scrittura d’allegazione. Voglio dare una toccatina sul punto della donazione, per sentire come egli la intende; per poter questa notte trovar dell’altre ragioni, dell’altre dottrine, se non bastassero quelle che ho ritrovate sinora. Perchè sogliamo dire noi altri dottori: Multa colleda prohant, quae singulatim non probant. (parte)´SCENA VII.
Beatrice, Rosaura, poi Colombina.
Beatrice. Con me poteva risparmiare il latino.
Rosaura. Eh! signora Beatrice, mio zio spera molto, ma io spero pochissimo.
Beatrice. Perchè?
Rosaura. Perchè con quanti parlo di questa causa, tutti mi dicono che vi è da temere.
Beatrice. Temere si deve sempre. Ma si deve anco sperare. Vostro zio sa quel che dice: è un uomo di garbo.
Rosaura. Sì, è vero, mio zio sa qualche cosa, ma non è pratico dello stile di questi paesi. Egli l’ha con queste sue allegazioni, con queste sue informazioni; ed io so che il Giudice non l’ha voluto e non lo vuole ascoltare, ma gli ha fatto dire che le sue ragioni le sentirà in contradditorio, il giorno della trattazione della causa.
Beatrice. Domani farà spiccare la sua virtù.
Rosaura. Il signor Florindo si è provveduto d’uno de’ migliori avvocati di Venezia, ed è questo quello che mi fa più paura.
Beatrice. Mi vien detto che questo signor avvocato, oltre l’essere eccellente nella sua professione, sia poi un uomo pieno di buone maniere e di una amenissima conversazione.
Rosaura. Aggiungete un uomo ben fatto, con una idea che colpisce e con una grazia che incanta.
Beatrice. L’avete veduto?
Rosaura. Sì, l’ho veduto.
Beatrice. E un bell’uomo dunque?
Rosaura. Di bellezze non me n’intendo; ma se l’avessi a giudicar io, lo preferirei ad ogni altro.
Beatrice. Gli avete mai parlato?
Rosaura. Una volta. Era egli col medico. Io, che desiderava l’occasione di sentirlo discorrere, mi fermai colla serva a chiedere al medico, s’era tempo di principiare la purga. Quel graziosissimo Veneziano entrò pulitamente nel proposito della purga, e mi ha dette le più belle e frizzanti19 cose del mondo. Cara amica20, confesso il vero, da quel giorno in qua penso più all’avvocato avversario, di quel ch’io pensi alla mia propria causa.
Beatrice. Questa è un’avventura bellissima. Se si potesse credere che egli avesse della stima per voi, potreste molto compromettervi nel caso in cui siete.
Rosaura. Dopo di quell’incontro, mi ha salutato21 con un poco più di attenzione, e spero non essergli indifferente. Ciò non ostante, credetemi, niente spero.
Beatrice. A buon conto, stassera vena qui alla conversazione.
Rosaura. Davvero?
Beatrice. Senz’altro.
Rosaura. Oh, meschina me!
Beatrice. Dovreste anzi averne piacere.
Rosaura. Mi si gela il sangue solamente a pensarvi.
Beatrice. Più bella occasione di questa non potete avere.
Rosaura. Per amor del cielo, non mi fate fare una cattiva figura.
Beatrice. Non sono già una ragazza. Ho avuto marito e so il viver del mondo. Sapete che vi ho sempre voluto bene, e desidero vedervi quieta e contenta.
Rosaura. Cara amica, quanto vi son tenuta!
Colombina. Signora padrona, è qui il signor conte Ottavio che vorrebbe riverirla.
Beatrice. Venga pure, è padrone.
Colombina. (Se alla conversazione non viene di meglio, questo signor Conte ne ha pochi da perdere). (da sè, parte)
Rosaura. Quanto m’annoia questo signor Conte!
Beatrice. V’annoia? Non ha egli da essere vostro sposo?
Rosaura. Sì, il mio signor zio mi ha fatto questo bel servizio. Mi ha fatto promettere ad uno, per cui non ho nè inclinazione, nè amore.
Beatrice. Ma perchè l’avete fatto?
Rosaura. Per necessità. Mio zio è l’unica persona ch’io abbia al mondo da potermi fidare; egli mi minacciava di abbandonarmi, se non lo faceva.
Beatrice. E il Conte vi vuol bene?
Rosaura. Mi fa qualche finezza, ma non mostra gran passione. Io credo che egli faccia all’amore ai ventimila ducati della mia eredità.
Beatrice. Dicono che sia nobile, ma di poche fortune.
Rosaura. E quel che è peggio, dicono sia un uomo che vive di prepotenza.
Beatrice. Siete ben pazza, se lo prendete.
Rosaura. Ma come ho da fare?
Beatrice. Io, io vi insegnerò il modo di liberarvene; ma eccolo.
Rosaura. Guardate, se con quella cera brusca non fa paura.
SCENA VIII.
Il Conte Ottavio, le suddette, poi Colombina.
Conte. Servitore umilissimo di lor signore. (le donne s’alzano)
Beatrice. Serva, signor Conte.
Conte. Signora Rosaura, ho riverito ancor lei.
Rosaura. Ed io lei.
Conte. Non ho sentito che mi favorisca.
Rosaura. Questa sera avrà ingrossato l’udito.
Conte. O io ho ingrossato l’udito, o ella ha assottigliata la voce.
Rosaura. (Che bella grazietta!) (piano a Beatrice)
Beatrice. (È un umore curioso).
Conte. Come sta, signora Beatrice? Sta bene?
Beatrice. Benissimo, per servirla.
Conte. E ella che ha, che mi pare accigliata? (a Rosaura)
Rosaura. Che vuol che io abbia? Penso alla mia causa.
Conte. Per dirla, questa vostra causa credo voglia andar molto male.´
Beatrice. Perchè, signor Conte? II signor Dottore, zio della signora Rosaura, spera bene.
Conte. Che cosa sa quell’animale di quel Dottore?
Rosaura. Signor Conte, parli con rispetto del mio zio.
Conte. Faccio umilissima riverenza al signor zio; ma vi dico che, se baderete a lui, perderete la causa e resterete una miserabile.
Rosaura. Perchè dite questo?
Conte. Basta; questa causa la finirò io. È venuto questo signor veneziano; ha messo tutti in soggezione, fa tremar tutti, vuol vincer tutti, vuol portar via la causa, vuole abbattere gli avversari, vuol conquassare il paese; ma niente, con due delle mie parole m’impegno che domattina se ne torna per le poste a Venezia.
Rosaura. E poi?
Conte. E poi la causa sarà finita.
Rosaura. Non vi saranno altri difensori del signor Florindo?
Conte. Chi avrà ardire d’intraprendere questa causa, l’avrà da fare con me.
Rosaura. Signor Conte, in questi paesi non si usano prepotenze.
Conte. Che cosa sono queste prepotenze? Io non fo prepotenze. Mi faccio giustizia da me medesimo, per risparmiar le spese de’ tribunali.
Colombina. Signora, è qui il signor Lelio col signore avvocato veneziano.
Beatrice. Oh! bravissimi. Ho piacere. Di’ loro che passino.
Colombina. (È tutta contenta. Il veneziano dovrebbe essere un buon pollastro per dargli una pelatina col giuoco). (da sè, parie)
Beatrice. Caro signor Conte, vi prego, in casa mia non promovete discorsi che abbiano a disturbare la conversazione.
Conte. Sì, signora, sarà servita.
Rosaura. (Tremo da capo a piè). (piano a Beatrice)
Beatrice. (Perchè?)
Rosaura. (Non lo so nemmen io).´SCENA IX.
Alberto, vestito con abito di gala, Lelio e detti. S’incontrano, si salutano con reciproche riverenze e qualche parola di rispetto, poi come segue.
Alberto. La perdoni, zentildonna22, l’ardir che me son preso de vegnirghe a dar el presente incomodo, animà dal sior Lelio, che m’ha assicurà della so bontà e della so gentilezza.
Beatrice. Il signor Lelio mi ha fatto un onor singolare, dandomi il vantaggio di conoscere un soggetto di tanto merito.
Alberto. La supplico sospender, riguardo a mi, la troppo favorevole prevenzion, perchè, savendo de no meritarla, la me serviria de rossor.
Beatrice. La di lei modestia non fa che accrescere il pregio della di lei virtù.
Alberto. Taserò, no perchè me lusinga de meritar le sue lodi, ma per assicurarla del mio rispetto.
Beatrice. La prego di accomodarsi.
Alberto. Per amor del cielo, signori, le supplico; no le stia in disagio per mi. (Tutti siedono. Alberto vicino a Beatrice, Lelio vicino ad Alberto; dall’altra parte Rosaura, e presso Rosaura il Conte.)
Lelio. (Che ne dite? È una bella conversazione?) (piano ad Alberto)
Alberto. (Amigo, me l’avè fatta. Se credeva che ghe fusse siora Rosaura, no ghe vegniva). (piano a Lelio)
Lelio. (Miratela con quell’indifferenza con cui la mirereste davanti al giudice).
Alberto. (Altro xe el tribunal, altro xe la conversazion).
Beatrice. (Amica, che avete che mi parete sorpresa? ) (a Rosaura)
Rosaura. (Pagherei una libbra di sangue a non esser qui).
Conte. Signora Rosaura, qualche volta favorisca ancor me. Io non son qui per far numero.´
Rosaura. Che mi comanda, signor Conte? Vuol che gli canti una canzonetta?
Conte. (Impertinente! Quando sarai mia moglie, le sconterai tutte). (da sè)
Alberto. (Chi elo quel signor? ) (a Lelio)
Lelio. (È il conte Ottavio, quello che deve esser sposo della signora Rosaura).
Alberto. (Caro amigo, non me dovevi mai menar qua).
Lelio. (Se mi parlavate chiaro, non vi conduceva).
Beatrice. Signor Lelio, come sta la signora Flaminia vostra sorella?
Lelio. Sta un poco meglio. Il sangue le ha fatto bene.
Beatrice. Domattina voglio venire a vederla.
Lelio. Le farete una finezza particolare.
Beatrice. (Volete venire ancora voi?) (piano a Rosaura)
Rosaura. (Dove abita il signor Alberto?)
Beatrice. (Sì).
Rosaura. (Oh dio! non so).
Beatrice. Signor avvocato.
Alberto. La comandi.
Beatrice. Conosce questa signora?
Alberto. Me par de averla vista e rivenda qualche volta, ma non ho l’onor de conosserla precisamente.
Beatrice. Questa è la signora Rosaura Balanzoni, di lei avversaria.
Alberto. (Salza) Cara zentildonna, me rincresce infinitamente trovarme in necessità de doverghe esser avversario; ma la se consola, che avendome avversario mi, el xe un capo d’avvantaggio per ela, perchè la mia insufficienza darà mazor risalto al merito delle so rason.
Rosaura. La ringrazio infinitamente per sì gentile espressione, ma il mio scarso merito e la mia causa disavvantaggiosa non meritavano un difensore sì degno. (Non so quel ch’io mi dica). (da sè)
Alberto. (La m’ha coppà). (a Lelio, e siede)
Beatrice. Domani dunque si tratterà questa causa?
Alberto. La corre per doman.´
Beatrice. Sarebbe una temerità il chiedergli come l’intenda.
Alberto. Se no l’intendesse a favor del mio cliente, certo che no m’esponerave a trattarla.
Beatrice. Dunque la signora Rosaura sta male.
Alberto. La signora Rosaura no pol star mal.
Beatrice. Se perde l’eredità di Anselmo Aretusi, che le rimane?
Alberto. Ghe resta un capital de merito, che no xe soggetto nè a dispute, nè a giudizi.
Rosaura. Il signor avvocato mi burla. (con tenerezza)
Alberto. Non son cussì temerario.
Rosaura. (Beatrice, non posso più).
Beatrice. (Pazienza, pazienza, che anderà bene).
Conte. (Questa cara Rosaura mi pare che guardi con troppa attenzione il signor veneziano. La finirò io). (da sè) Signor avvocato.
Alberto. Patron mio reverito.
Conte. Una parola in grazia. (lo chiama a sè)
Alberto. (De che paese xelo quel sior?) (a Lelio)
Lelio. (Credo sia romagnolo).
Alberto. (El gh’ha23 del polledrin della Marca).
Conte. Favorisce?
Alberto. Son da ela. (Mel voggio goder sto sior romagnolo). (s’alza e gli va vicino)
Rosaura. (Che manieracce ha il Conte!) (da sè)
Alberto. (Cossa comandela, mio patron?)
Conte. (A che ora vi levate la mattina?)
Alberto. (Segondo; ma per el più a terza24 son sempre in pie).
Conte. (Domattina, subito che siete alzato, venite al caffè, che vi ho da parlare. Ma venite solo, e con segretezza).
Alberto. (Veramente domattina gh’ho un pochetto d’affar. No la poderia mo ela favorir a casa?)
Conte. (No, non posso. L’affare è geloso. Venite, che vi tornerà conto).´
Alberto. (Se l’è per qualche causa, la sappia che vago via e no me posso impegnar).
Conte. (Non è causa; è un affare che deve premere più a voi che a me).
Alberto. (Basta, vederò de vegnir).
Conte. (Del vederò non mi contento. Mi avete da dar parola di venire).
Alberto. (Ghe dago parola e vegnirò).
Conte. (Non occorr’altro).
Alberto. (L’è el più bel matto del mondo. Se posso, domattina voi devertirme una mezz’oretta). (da sè, toma al suo posto)
Beatrice. Signor Alberto, si diletta di giuocare?
Alberto. Qualche volta, co gh’ho tempo. Però per divertimento, no mai per vizio.
Beatrice. Se si vuole divertire, ci farà grazia.
Alberto. Per obbedirla farò tutto quello che la comanda. Ma sa sior Lelio che a do ore bisogna che me retira.
Rosaura. Il signor Alberto ha da ritirarsi per pensare contro di me.
Alberto. La me mortifica con rason, ma ghe protesto che sempre no penso contro de ela.
Rosaura. Può darsi; ma in mio favore no certamente.
Alberto. A che zogo comandele che le serva? (dopo aver guardato Rosaura pateticamente)
Rosaura. (Sentite come muta discorso a tempo?) (piano a Beatrice)
Conte. Signora Rosaura, col suo bello spinto proponga ella il giuoco che s’ha da fare.
Rosaura. Anzi ella, che è tanto gentile nelle conversazioni.
Conte. (Fraschetta! Se non fossero i ventimila scudi, non la guarderei). (da sè)
Lelio. (Quei due sposi non si possono vedere). (piarto ad Alberto)
Alberto. (A lu par che la ghe inzenda25, e per mi la saria tanto zuccaro). (da sè)
Beatrice. Siamo in cinque, a che giuoco possiamo giuocare?´
Conte. Se giuochiamo a tresette, colla signora Rosaura non ci voglio stare.
Beatrice. Perchè?
Conte. Perchè non sa tenere le carte in mano.
Rosaura. Obbligata alle sue finezze.
Conte. Io parlo schietto. Facciamo così: io e la signora Beatrice.
Alberto. (Prima io). (da sè)
Conte. L’avvocato con Lelio.
Alberto. (El parla con un imperio, che el par Kulikan26). (da sè)
Beatrice. E la signora Rosaura non ha da giuocare?
Conte. Se non ne sa.
Rosaura. Sentite, io non so giuocare, ma voi sapete poco il trattare. (al Conte)
Conte. Verrò a scuola da lei.
Alberto. La lassa che la zoga, che mi, se la se contenta, l’assisterò.
Rosaura. Voi non dovete assistere la vostra avversaria.
Alberto. Mo no la me mortifica più. L’abbia un poco de compassion.
Rosaura. Non posso aver compassione per voi, se voi non l’avete per me.
Alberto. (Sia maladetto quando son vegnù qua!) (da sè, smanioso)
Lelio. (L’amico è agitato. Mi dispiace esserne io la cagione). (da sè)
Beatrice. Orsù, per giuocare tutti, giuochiamo alla bassetta. Il signor Alberto ci favorirà di fare un piccolo banco.
Alberto. Volentiera; la servirò come la comanda.
Beatrice. Chi è di là? (vengono servitori) Tirate avanti quel tavolino ed accostate le sedie. (i servitori eseguiscono) Portate due mazzi di carte buone ed un mazzo delle vecchie. Sediamo. Qua il signor Alberto. Qua la signora Rosaura e qua io. Là il signor Lelio.
Conte. E qua io? (vicino a Rosaura)
Beatrice. Là, se vuole.
Conte. Perderò senz’altro.´
Beatrice. Perchè?
Conte. Perchè, quando giuoco, le donne vicine mi fanno cattivo augurio.
Rosaura. E voi andate dall’altra parte: chi vi tiene?
Conte. Oh! voglio stare presso la mia carissima signora sposa. (con ironia)
Rosaura. (Mi fa venire il vomito). (da sè)
Conte. (Non la posso vedere). (da sè)
Alberto. Eccole servide d’un poco de monede. Le se devertissa.
Conte. Che banco è quello? Credete di giuocar colla serva?
Alberto. Quaranta o cinquanta lire de banco, per un piccolo divertimento, me par che non sia inconveniente.
Conte. Se non vi è oro, non metto.
Alberto. Ben, per servirla, metterò dell’oro. (cava una borsa e pone dell’oro in banco)
Beatrice. Eh! non vogliamo...
Conte. Lasci fare. Oh! questa è bella. Vogliamo giuocare come vogliamo noi.
Beatrice. (È pieno di buone maniere questo signor Conte), (da sè)
Alberto. Questi xe trenta zecchini: ghe basteli?
Conte. Fate buono sulla parola?
Alberto. La venza questi e ghe penseremo. (Son in te l’impegno, bisogna starghe).
Lelio. (Mi dispiace averlo condotto qui). (da sè)
Alberto. Ho taggià, le metta.
Beatrice. Asso, un filippo; metta, metta, signor Lelio.
Lelio. Due a tre lire.
Conte. Fante a un zecchino.
Rosaura. No, perderei certamente.
Beatrice. Perchè dite che perdereste?
Rosaura. Perchè il signor avvocato è venuto a Rovigo per farmi perdere.
Alberto. Pazienza! La me tormenta, che la gh’ha rason.
Rosaura. Io vi tormento da scherzo e voi mi tormentate da vero.
Conte. Animo, si giuoca o non si giuoca?´
Alberto. Son qua subito. Asso, do e fante. (taglia) Fante ha vadagnà, ecco un zecchin. Do ha vadagnà, ecco tre lire. Asso vadagna, ecco un felippo.
Conte. Mescolate le carte.
Alberto. Come la comanda. (mescola le carte)
Conte. Lasciate vedere, le voglio mescolare anch’io.
Alberto. Patron, la se comoda. (Bisogna ch’el sia avvezzo a zogar con dei farabutti). (a Beatrice)
Beatrice. (È un conte che conta poco).
Alberto. (Elo conte, contin o contadin?)
Conte. Tenete. Fante a due zecchini. (dà le carte ad Alberto)
Beatrice. Asso a due filippi.
Lelio. Due a cinque lire.
Alberto. E ela no la mette?
Rosaura. Io non giuoco con chi sa perdere e vincere quando vuole.
Beatrice. Eh via, mettete.
Rosaura. Quattro a due lire.
Alberto. No la cresce la posta?
Rosaura. Non posso giuocar di più.
Alberto. Perchè?
Rosaura. Perchè domani in grazia vostra sarò miserabile.
Conte. Oh, che giuocare arrabbiato! Non la finisce mai. (Alberto taglia)
Alberto. Subito. Fante ha perso. Con so bona grazia. (tira i due zecchini)
Conte. Maledetta mano; non dà una seconda.
Alberto. El gh’ha rason. Xe quattro o cinque ore che zoghemo. (con ironia)
Conte. Va fante.
Alberto. No va altro, no va altro. Do, tiro. (tira le cinque lire di Lelio)
Beatrice. Questa volta tirate tutto.
Alberto. Magari che tirasse tutto! (guardando Rosaura)
Rosaura. Che cosa guadagnereste di buono?
Alberto. Vadagnerave el ponto, e chi lo mette.
Rosaura. Il punto val poco, e chi lo mette val meno.´
Alberto. Chi lo mette, val un tesoro.
Rosaura. Se fosse vero, non le sareste nemico.
Alberto. Oh! me xe casca le carte. Ho perso, bisogna che paga. Ecco do felippi e do lire. (si lascia cader le carte di mano e paga le due donne)
Beatrice. Siete un tagliatore adorabile.
Rosaura. Questa sera tagliate in mio favore, e domani taglierete contro di me.
Alberto. S’hala gnancora sfogà?
Rosaura. Stassera mi sfogo io, e domani vi sfogherete voi.
Alberto. (Debotto27 non posso più resister). (da sè, smanioso)
Conte. E così, che facciamo? Ho da perdere il mio denaro con questo bel gusto?
Alberto. Se no la vol zogar, nissun la sforza.
Conte. Voglio giuocare. Animo, presto. Fante a un zecchino.
Alberto. Vorla missiar?
Conte. Se volessi mescolare, mescolerei; tagliate.
Alberto. Ela xe tutto furia, e mi tutto flemma. Via, zentildonne, che le metta.
Beatrice. Che cosa abbiamo da mettere?
Alberto. Che le metta al banco.
Beatrice. L’oro mi fa paura.
Alberto. Tirerò via l’oro. Lasso sto zecchin per el sior Conte.
Beatrice. Asso al banco. (Alberto taglia)
Alberto. Fante: ho venzo mi. Sto zecchin farà compagnia a st’altro. Mettemoli qua, sotto sto candelier.28 Asso ha vadagnà, son sbancà, no se zoga più. (Beatrice tira il banco)
Conte. I miei due zecchini?
Alberto. Me despiase, ma mi non taggio altro.
Conte. Bell’azione!
Beatrice. Via, via, signor Conte, un poco di convenienza.
Conte. (Si scalda, perchè va bene per lei29). (da sè)
Lelio. (È un giovane generoso e civile). (da sè)
Alberto. Cossa disela, siora Rosaura? Siora Beatrice m’ha sbancà.
Rosaura. E voi domani sbancherete me.
Alberto. (No la me lassa star un momento). (da sè)
SCENA X.
Florindo e detti.
Florindo. Servitor umilissimo a lor signori. (tutti lo salutano) (Il signor Alberto vicino a Rosaura? Cresce il mio sospetto). (da sè)
Beatrice. Molto tardi, signor Florindo!
Florindo. Mah, chi ha degli interessi, non può prendersi molto divertimento.
Beatrice. Il signor Alberto ci ha favorito.
Florindo. Il signor Alberto può farlo, perchè non ci pensa come ci penso io.
Alberto. Signor Florindo, ella in pubblico pretende mortificarme, e mi in pubblico bisogna che me defenda. La dise che mi no penso ai so interessi, come la pensa ela; e mi ghe digo che ghe penso assae più de ela, perchè un’ora che mi ghe pensa, val più del so pensar d’una settimana. Ghe ne xe molti de sti clienti, che pretende che l’avvocato non abbia da pensar altro che alla so causa. I crede che l’intelletto dell’omo sia limità a segno che nol possa pensar che a una cossa sola. E siccome la so passion no fa che tegnirli oppressi e vincoladi tra la speranza, el timor, i vorria che l’avvocato no fasse mai altro che consolarli. Nualtri che avemo una moltitudine de affari sul tavolin, bisogna che a tutti distribuimo el nostro tempo e el nostro intelletto; e se qualche volta no respiressimo con un poco de sollievo e de devertimento, la nostra profession deventerave un supplizio, e la nostra applicazion sarave una malattia. Basta che quando s’applica a quella tal cossa, se ghe applica de cuor, con tutto el spirito, con tutto l’omo; e che nella gran zornada, quando se tratta della decision della causa, se fazza cognosser al cliente, al giudice e al mondo tutto, che messe su una balanza´ le fadighe da una banda, e la mercede dall’altra, pesa più de tutto l’oro e de tutto l’arzento i onorati sudori de un avvocato.
Beatrice. Evviva il signor Alberto.
Lelio. Amico, state cogli occhi chiusi. Avete un uomo, che per la virtù, per la eloquenza e per l’onoratezza si è reso venerabile, ed è la delizia del veneto foro.
Conte. (Sentite come parla il vostro avvocato avversario? Ma io lo farò mutar frase). (piano a Rosaura)
Rosaura. (M’innamora e mi fa tremare).
Florindo. Io non pretendo volervi a tutte l’ore e per me solo applicato; ma, signor Alberto, intendiamoci senza parlare.
Alberto. Non ho sta abilità de capir chi no parla.
Florindo. Con grazia di questi signori, vi dirò una parola.
Alberto. Con permission. (La diga). (si alza dal suo posto, e va vicino a Florindo)
Florindo. (Prima vi trovo col ritratto, ed ora coll’originale; che volete che io possa pensare di voi?)
Alberto. (L’ha da pensar che son un uomo onorato).
Florindo. (Tutto va bene. Ma io non posso soffrire di vedervi vicino alla mia avversaria).
Alberto. (Co l’è cussì, voggio contentarla. Andemo via).
Florindo. (Qui non ci dovevate venire).
Alberto. (Da omo d’onor, che no saveva che la ghe dovesse esser).
Florindo. (Quando l’avete veduta, dovevate partire).
Alberto. (Oh! questo pò no. Non son capace ne de increanze, nè de affettazion. Se mostrasse aver suggizion del cliente avversario, me dechiarirave per un omo de poco spirito. E pò nualtri avvocati no semo nemici dei nostri avversari. Se disputa la rason della causa, e no el merito della persona; e tanti e tanti i magna, i beve e i sta in bonissima conversazion con quelle istesse persone, contra le quali con tutto el spirito i se dispone a parlar. La verità xe una sola. Con questa d’avanti i occhi, no se pol fallar. El vostro sospetto deriva da debolezza de fantasia; la mia franchezza dipende dalla robustezza dell’animo indifferente alle tentazion, e saldo e forte nei onorati impegni della mia profession). Zentildonne riverite, do ore le xe poco lontane. Ho adempio al mio debito, le prego de despensarme. (scostandosi da Florindo)
Beatrice. Prenda pure il suo comodo. Non voglio esser causa, che si rammarichi il signor Florindo.
Alberto. La supplico scusar l’incomodo. Ghe rendo infinite grazie d’averme degnà della so esquisita conversazion. E se mai la me credesse capace de poterla obbedir, la prego onorarme dei so comandi. (a Beatrice)
Beatrice. Ella è pieno di gentilezza e di cortesia.
Alberto. Signora, ghe son umilissimo servitor. (a Rosaura)
Rosaura. (Non voglio nè rispondergli, nè mirarlo). (da se)
Alberto. Signora, l’ho reverida. (a Rosaura)
Rosaura. (Crudele!) (da sè)
Alberto. Gnanca30? Pazienza! (Che pena che me tocca a provar! Ma gnente; penar, tormentar, morir, ma che no s’intacca l’onor). (da sè, parte)
Florindo. Signora Beatrice, padroni tutti, gli son servitore. (Eppure non mi posso levar dal capo che il signor Alberto ami Rosaura. Le donne hanno avviliti i primi eroi della terra; non sarebbe maraviglia che una donna vincesse il cuore d’Alberto). (da sè, parte)
Lelio. Signore mie, se mi permettono, non voglio lasciare l’amico.
Beatrice. Servitevi con libertà. Riverite la signora Flaminia.
Lelio. Son servo a tutti. (Florindo ha delle gelosie rispetto al signor Alberto; ed io ne fui la cagione. Eppure è vero, in tutte le cose, prima di farle, bisogna consigliarsi colla prudenza, per prevedere le conseguenze). (da sè, parte)
Conte. La conversazione è finita. Servitor suo.
Beatrice. Va via, signor Conte?
Conte. Che cosa ho da fare qui?
Beatrice. Vi è la sposa.
Conte. La mia signora sposa, quanto meno mi vede, più mi vuol bene; non è egli vero? (a Rosaura)
Rosaura. Io non contraddico mai31.
Conte. (Già ha da finire i suoi giorni sopra d’una montagna!) Schiavo suo. (parte)
Beatrice. Andiamo nella mia camera, che aspetteremo vostro zio.
Rosaura. Cara amica, sono in un mare di confusioni.
Beatrice. Il signor Alberto pare di voi innamorato.
Rosaura. Ma se domani mi parla contro, ho perduta la causa.
Beatrice. Voglio che domattina andiamo a ritrovare la signora Flaminia, e se ci riesce di parlare al signore Alberto, può essere che si volti a vostro favore.
Rosaura. Io l’ho per impossibile.
Beatrice. Eh! amore fa fare delle belle cose.
Rosaura. Sì, ma io non son quella che lo possa innamorare a tal segno.
Beatrice. Via, via, non dite così; avete due occhi che incantano; s’io fossi un uomo, v’assicuro che mi fareste precipitare. (parte)
Rosaura. L’amica scherza, ed io ho il cuore afflitto. Domani si decide dell’esser mio; ma pure questa non è la maggiore delle mie passioni. Due oggetti, uno d’amore, l’altro di sdegno, combattono a vicenda il mio cuore. Amo Alberto, odio il Conte. Ma, oh dio! Dovrò perdere quello che adoro, dovrò sposare quello che aborrisco? Miserabile condizion della donna!32 Nacqui per penare, vivo per piangere, e morirò per non poter più resistere. Alberto, oh! caro Alberto. Sei pur vago, sei pur grazioso! Mi piaci ancorchè nemico, ti amo, benchè tu mi voglia miserabile, e ti amerei, se tu mi volessi ancor morta33. (parte)
Fine dell’Atto Primo.
Note
- ↑ Ponto è lo stesso che articolo. [nota originale]
- ↑ Articolo legale. [nota originale]
- ↑ Lungo il fiume Brenta sono le più belle villeggiature de’ Veneziani. [nota originale]
- ↑ Trattar la causa è lo stesso che disputare, secondo lo stile veneto.
- ↑ Mi move a compassione. [nota originale]
- ↑ Mescolato.
- ↑ Zatta: el ghe someggia.
- ↑ In renga, in arringa. [nota originale]
- ↑ Costume di quasi tutti gli avvocati veneti nel calor della disputa. [nota originale]
- ↑ Chiamasi col nome di fattura una specie di sommario che si fa dei fatti e delle ragioni. [nota originale]
- ↑ Primo atto legale con cui si principia una causa. [nota originale]
- ↑ Contraddizione all’atto suddetto. [nota originale]
- ↑ Articoli legali. [nota originale]
- ↑ Così l’ediz. Bettin.; sbagliano le altre: per animarvi e.
- ↑ (la rimette dove era)
- ↑ Colei.
- ↑ Bett. e Pap.: mia nipote l’amo.
- ↑ Bett.: a buon riverirla.
- ↑ Bett.: brillanti.
- ↑ Bett. e Pap.; Due o tre facezie egli ha detto frizzanti, ma modeste, che mi hanno incantato e, cara amica e
- ↑ Bett. e Pap.: Dopo di quell’incontro è sempre passato due o tre volte il giorno sotto le mie finestre. Mi ha salutato ecc.
- ↑ Termine di galanteria con cui si trattano le donne civili. [nota originale]
- ↑ Bett. e Pap.: El gh’ha, el gh’ha.
- ↑ Comunemente le 9 del mattino: v. Boerìo, Diz. cit., e altri.
- ↑ Par che gli riesca amara. [nota originale]
- ↑ Allude al feroce Thamas Kouli-Kan, re di Persia e terrore dell’Oriente, morto assassinato nel giugno 1747: che in Europa diede argomento a opere sceniche, a storie, a leggende d’ogni maniera.
- ↑ Debotto, or ora. [nota originale]
- ↑ Pone li due zecchini sotto al candeliere. [nota originale]
- ↑ Bett. e Pap.: perchè li mangia lei.
- ↑ Gnanca? Nemmeno. [nota originale]
- ↑ Bett. e Pap. aggiungono: «a quello che dice lei. Cont. (Se potessi avere i Ventimila ducati senza costei!) Schiavo divoto. Beatr. Serva sua. Cont. (Già ha da finire ecc.)».
- ↑ Bett. e Pap. aggiungono: Miserabilissima condizion di Rosaura!
- ↑ Bettin. e Paper. aggiungono: Ti adoro, benchè tu tenti privarmi delle mie sostanze, e ti adorerei, se tu mi volessi strappare ancora dal seno il cuore.