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L'AVVOCATO VENEZIANO 445


l’animo indifferente alle tentazion, e saldo e forte nei onorati impegni della mia profession). Zentildonne riverite, do ore le xe poco lontane. Ho adempio al mio debito, le prego de despensarme. (scostandosi da Florindo)

Beatrice. Prenda pure il suo comodo. Non voglio esser causa, che si rammarichi il signor Florindo.

Alberto. La supplico scusar l’incomodo. Ghe rendo infinite grazie d’averme degnà della so esquisita conversazion. E se mai la me credesse capace de poterla obbedir, la prego onorarme dei so comandi. (a Beatrice)

Beatrice. Ella è pieno di gentilezza e di cortesia.

Alberto. Signora, ghe son umilissimo servitor. (a Rosaura)

Rosaura. (Non voglio nè rispondergli, nè mirarlo). (da se)

Alberto. Signora, l’ho reverida. (a Rosaura)

Rosaura. (Crudele!) (da sè)

Alberto. Gnanca1? Pazienza! (Che pena che me tocca a provar! Ma gnente; penar, tormentar, morir, ma che no s’intacca l’onor). (da sè, parte)

Florindo. Signora Beatrice, padroni tutti, gli son servitore. (Eppure non mi posso levar dal capo che il signor Alberto ami Rosaura. Le donne hanno avviliti i primi eroi della terra; non sarebbe maraviglia che una donna vincesse il cuore d’Alberto). (da sè, parte)

Lelio. Signore mie, se mi permettono, non voglio lasciare l’amico.

Beatrice. Servitevi con libertà. Riverite la signora Flaminia.

Lelio. Son servo a tutti. (Florindo ha delle gelosie rispetto al signor Alberto; ed io ne fui la cagione. Eppure è vero, in tutte le cose, prima di farle, bisogna consigliarsi colla prudenza, per prevedere le conseguenze). (da sè, parte)

Conte. La conversazione è finita. Servitor suo.

Beatrice. Va via, signor Conte?

Conte. Che cosa ho da fare qui?

Beatrice. Vi è la sposa.

  1. Gnanca? Nemmeno. [nota originale]