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L'AVVOCATO VENEZIANO | 437 |
Beatrice. Sarebbe una temerità il chiedergli come l’intenda.
Alberto. Se no l’intendesse a favor del mio cliente, certo che no m’esponerave a trattarla.
Beatrice. Dunque la signora Rosaura sta male.
Alberto. La signora Rosaura no pol star mal.
Beatrice. Se perde l’eredità di Anselmo Aretusi, che le rimane?
Alberto. Ghe resta un capital de merito, che no xe soggetto nè a dispute, nè a giudizi.
Rosaura. Il signor avvocato mi burla. (con tenerezza)
Alberto. Non son cussì temerario.
Rosaura. (Beatrice, non posso più).
Beatrice. (Pazienza, pazienza, che anderà bene).
Conte. (Questa cara Rosaura mi pare che guardi con troppa attenzione il signor veneziano. La finirò io). (da sè) Signor avvocato.
Alberto. Patron mio reverito.
Conte. Una parola in grazia. (lo chiama a sè)
Alberto. (De che paese xelo quel sior?) (a Lelio)
Lelio. (Credo sia romagnolo).
Alberto. (El gh’ha1 del polledrin della Marca).
Conte. Favorisce?
Alberto. Son da ela. (Mel voggio goder sto sior romagnolo). (s’alza e gli va vicino)
Rosaura. (Che manieracce ha il Conte!) (da sè)
Alberto. (Cossa comandela, mio patron?)
Conte. (A che ora vi levate la mattina?)
Alberto. (Segondo; ma per el più a terza2 son sempre in pie).
Conte. (Domattina, subito che siete alzato, venite al caffè, che vi ho da parlare. Ma venite solo, e con segretezza).
Alberto. (Veramente domattina gh’ho un pochetto d’affar. No la poderia mo ela favorir a casa?)
Conte. (No, non posso. L’affare è geloso. Venite, che vi tornerà conto).´