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440 ATTO PRIMO

Beatrice. Perchè?

Conte. Perchè, quando giuoco, le donne vicine mi fanno cattivo augurio.

Rosaura. E voi andate dall’altra parte: chi vi tiene?

Conte. Oh! voglio stare presso la mia carissima signora sposa. (con ironia)

Rosaura. (Mi fa venire il vomito). (da sè)

Conte. (Non la posso vedere). (da sè)

Alberto. Eccole servide d’un poco de monede. Le se devertissa.

Conte. Che banco è quello? Credete di giuocar colla serva?

Alberto. Quaranta o cinquanta lire de banco, per un piccolo divertimento, me par che non sia inconveniente.

Conte. Se non vi è oro, non metto.

Alberto. Ben, per servirla, metterò dell’oro. (cava una borsa e pone dell’oro in banco)

Beatrice. Eh! non vogliamo...

Conte. Lasci fare. Oh! questa è bella. Vogliamo giuocare come vogliamo noi.

Beatrice. (È pieno di buone maniere questo signor Conte), (da sè)

Alberto. Questi xe trenta zecchini: ghe basteli?

Conte. Fate buono sulla parola?

Alberto. La venza questi e ghe penseremo. (Son in te l’impegno, bisogna starghe).

Lelio. (Mi dispiace averlo condotto qui). (da sè)

Alberto. Ho taggià, le metta.

Beatrice. Asso, un filippo; metta, metta, signor Lelio.

Lelio. Due a tre lire.

Conte. Fante a un zecchino.

Rosaura. No, perderei certamente.

Beatrice. Perchè dite che perdereste?

Rosaura. Perchè il signor avvocato è venuto a Rovigo per farmi perdere.

Alberto. Pazienza! La me tormenta, che la gh’ha rason.

Rosaura. Io vi tormento da scherzo e voi mi tormentate da vero.

Conte. Animo, si giuoca o non si giuoca?´