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438 ATTO PRIMO

Alberto. (Se l’è per qualche causa, la sappia che vago via e no me posso impegnar).

Conte. (Non è causa; è un affare che deve premere più a voi che a me).

Alberto. (Basta, vederò de vegnir).

Conte. (Del vederò non mi contento. Mi avete da dar parola di venire).

Alberto. (Ghe dago parola e vegnirò).

Conte. (Non occorr’altro).

Alberto. (L’è el più bel matto del mondo. Se posso, domattina voi devertirme una mezz’oretta). (da sè, toma al suo posto)

Beatrice. Signor Alberto, si diletta di giuocare?

Alberto. Qualche volta, co gh’ho tempo. Però per divertimento, no mai per vizio.

Beatrice. Se si vuole divertire, ci farà grazia.

Alberto. Per obbedirla farò tutto quello che la comanda. Ma sa sior Lelio che a do ore bisogna che me retira.

Rosaura. Il signor Alberto ha da ritirarsi per pensare contro di me.

Alberto. La me mortifica con rason, ma ghe protesto che sempre no penso contro de ela.

Rosaura. Può darsi; ma in mio favore no certamente.

Alberto. A che zogo comandele che le serva? (dopo aver guardato Rosaura pateticamente)

Rosaura. (Sentite come muta discorso a tempo?) (piano a Beatrice)

Conte. Signora Rosaura, col suo bello spinto proponga ella il giuoco che s’ha da fare.

Rosaura. Anzi ella, che è tanto gentile nelle conversazioni.

Conte. (Fraschetta! Se non fossero i ventimila scudi, non la guarderei). (da sè)

Lelio. (Quei due sposi non si possono vedere). (piarto ad Alberto)

Alberto. (A lu par che la ghe inzenda1, e per mi la saria tanto zuccaro). (da sè)

Beatrice. Siamo in cinque, a che giuoco possiamo giuocare?´

  1. Par che gli riesca amara. [nota originale]