L'Olimpia/Atto IV
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ATTO IV.
SCENA I.
Teodosio vecchio, Eugenio suo figlio.
Teodosio. O patria dolce, o case tanto desiderate di rivedervi! Oh quanto mi parete piú belle del tempo passato! Che ti par, Eugenio figlio, di questa cittade?
Eugenio. Piú bella assai di quello mi avete raccontato, padre mio. Populosa cittá e piú d’ogni altra d’ameno sito e di nobilissima aria. E mi sento le carni non so come risentirsi, pensando che sia nel luogo dove sia nato.
Teodosio. Tu eri appena di duo anni che, tenendoti in braccio e andando a diporto per lo capo di Pausilippo, fummo disavedutamente presi da’ corsari. A me parendo aver un pegno dell’amor grande che portava a Sennia mia consorte carissima, mi son ito sempre teco disacerbando la passione che ne soffriva.
Eugenio. Chi avesse potuto imaginarsi, padre, che cosí facile ne fusse stato lo scampar di man di turchi dove eravamo guardati con tanta custodia, e ancora senza esser usi a vogar il remo la notte e il giorno, e senza mangiar quasi nulla ci siamo sostentati di sorte che quasi poco sentiamo della passata fatica?
Teodosio. Figlio, il vederci liberi di man di quei cani e il desiderio di riveder la patria ci soveniva di cibo e di riposo, e sopra tutto il voto fatto di portar sempre questi ferri al collo. E se trovassimo Sennia la tua madre e Olimpia sorella vive, che gioia sarebbe la nostra! O Dio, fa’ per pietade che se ebbi trista fortuna in goderle, l’abbia almen buona in ritrovarle vive!
Eugenio. Io penso che sian morte, ché di tante lettere che l’abbiamo inviate non mai di niuna n’abbiamo ricevuto risposta.
Teodosio. Potrebbe essere che le mie con le sue si fussero disperse per lo lungo viaggio; e poi non abbiamo mai avuto persone a cui sicuramente fussero state commesse. Almeno Olimpia ritrovassimo viva, che è giovane e del tuo tempo. Ma andiamo dimandando costoro: forse ne potranno dar qualche ragguaglio.
SCENA II.
Protodidascalo solo.
Protodidascalo. O mi Deus, ché per aver molto accelerato il passo non so come non sia cespitato e caduto in qualche scrobe. Il diafragma e l’organo del pulmone sono cosí quassabondi come se si volessero divellere. Io ho visto hisce oculis sbarcar Filastorgo padre di Lampridio, di che un repentino tremore m’invase cosí forte che non sapea se retrogrado dovea rimeare i passi o antigrado fugire.
Obstupui steteruntque comae et vox faucibus haesit.
Vorrei confabular con Lampridio, acciò di quello che l’ho presagito ne veggia properar l’evento piú tosto di quello che pensiculava. Nam — pro «quia, quare, quamobrem», — perché le ruine quanto meno si sperano piú tosto vengono, e con questo importuno nunzio l’intercida le sue dolcedini. Ma eccolo, mi si fa obvio: fuggirò per questa strada.
SCENA III.
Filastorgo vecchio solo.
Filastorgo. Oh che magnifica cittá è questa Napoli! non è cosa da lasciarsi di vedere. Oh che bei giardini, oh che amenitá d’aria, oh che bel mare, oh che spiagge, oh che colline! parmi che non assomigli se non a se stessa e che avanzi ogni umana imaginazione. E se non fusse il desiderio che ho di veder Lampridio mio figliuolo, mi vorrei tôrre un poco di spasso vedendo questi palaggi e ornate chiese. Ma egli mi fa star l’animo non so come suspetto, per esser stato avisato che non attende agli studi altamente ma si sia dato agli amori; e questa mattina giongendo in Salerno mi fu detto che allora era partito per Napoli. Io senza prender fiato o riposarmi, a scavezzacollo son qui venuto per lo desiderio c’ho di vederlo e che egli medesimamente deve tener di veder me: andrò dimandando per saperne qualche novella.
SCENA IV.
Trasilogo, Squadra, Teodosio, Eugenio.
Trasilogo. Caminando di su e di giú siamo omai stanchi. Sará bisogno all’ultimo di ricorrere al Truffa, ch’io non saprei a chi piú sottil barro di lui commettere il fatto in mano.
Eugenio. Padre, caminiamo senza far nulla.
Teodosio. Se mal non mi ricordo, vicino questi archi stava la casa nostra.
Eugenio. Dimandiamo costoro.
Teodosio. Giovani, siete voi di questa contrada?
Trasilogo. (Squadra, mira: costoro mi paiono al proposito).
Squadra. (Non si potriano trovar migliori, l’un vecchio e l’altro giovane, con quelli stracci adosso come se proprio fussero scampati di man di turchi).
Teodosio. Di grazia, datene risposta.
Squadra. (Lasciate che gli ragioni io). Ditemi, siete voi forestieri?
Teodosio. Siamo e or ora sbarcati qui in Napoli.
Squadra. (Oh che ventura, padrone!).
Trasilogo. (Presto! narragli il fatto, fagli capire il negozio, accioché lo sappino ben fingere).
Squadra. (Lasciate il carico a me). Volete voi farne un servigio di che non vi saremo discortesi?
Teodosio. Che piacere possiamo noi farvi, poveri e forestieri?
Squadra. Lo potrete fare agevolmente.
Teodosio. Eccomi all’obedire.
Squadra. Vo’ che tu, vecchio, fingi chiamarti Teodosio, e tu, giovane, Eugenio e che sii suo figlio; e vo’ che diciate che siate or ora scampati di man di turchi, e che abbiate rotto la prigionia e siate venuti a Napoli per veder se fusse viva una tua moglie chiamata Sennia e una figliuola Olimpia. ...
Teodosio. A ponto questo?
Trasilogo. Tacete di grazia, non interrompete: ascoltiate prima, poi rispondete.
Squadra. E vo’ che entrando in casa diciate, tu, vecchio: — O Sennia, consorte cara, tu sei pur viva?, — e tu, giovane: — O Olimpia, sorella diletta, o madre cara!; — e che vi abbracciate e lasciate cader dagli ocelli due lacrimette come per tenerezza, e simili gesti e parole che sogliono farsi a parenti non visti; e bisognando sappiate rispondere a queste cose. ...
Trasilogo. Entrati che sarete in casa, vo’ che mi diate per isposa Olimpia — quella sua figlia, che tu dirai esser tua sorella e tu tua figlia; — ch’io vi darò tal mancia di questo che non avrete bisogno mentre siete vivi d’andar piú mendicando.
Squadra. ... E accioché la cosa vada meglio ordimita, arei a caro che consertaste un poco gli atti e le parole, accioché incontrandovi con esse la cosa riesca piú verisimile e naturale.
Trasilogo. Cominciate su.
Squadra. (Come sta attonito!).
Trasilogo. (Deve pensare come ave a fingere e far il doloroso). Cominciate di grazia.
Squadra. (O Dio, falli cominciar tu).
Teodosio. Dunque sei pur viva, o Sennia mia consorte cara!
Squadra. Buon principio! riesce bene, piú meglio ch’io non pensava.
Teodosio. Io veramente son Teodosio padre di Olimpia, e questo è il vero Eugenio mio vero figliuolo!
Eugenio. E siamo stati venti anni in man di turchi e abbiamo rotta la prigione e siamo venuti a Napoli per saper se fussero ancor vive.
Squadra. Oh oh, come risponde quest’altro a tuono, alle consonanze!
Teodosio. O Sennia molto amata, o Sennia poco goduta e molto sospirata!
Eugenio. O sorella Olimpia, quanta bellezza m’ha raccontato il padre, ch’era in te!
Trasilogo. (Oh che solenne barro, non si potria far meglio! appena ha inteso il fatto che l’ha subito capito e posto in esecuzione. Non ti dissi io che alla ciera mi sentiva di furbo?).
Teodosio. O moglie, o figlia, che v’ho stimate morte, poiché di tante lettere che v’ho inviate per saperne qualche novella, non mai ne abbiamo ricevuta risposta.
Squadra. (Piú di quello che gli abbiam detto: ci giongono del loro ancora).
Trasilogo. (Se fussero nati in Grecia? E il buono è che non bisogna altrimente accomodargli di vesti, che paiono or ora usciti da una galea).
Squadra. Non piú, che dite benissimo.
Eugenio. Io non posso capir tant’allegrezza e par che venghi meno, ché tutte le preghiere che ho fatto a Dio, son state che doppo aver veduta mia madre e il luogo dove sia nato, morrei sodisfattissimo.
Squadra. Basta, basta. Vedete voi quella casa? quella è la casa di Sennia.
Teodosio. Chi t’avesse detto, Teodosio, scampato di man di turchi, venir alla tua patria, trovar la moglie viva e la figliuola?
Trasilogo. (L’abbiamo pregati che comincino, or sará bisogno strapregarli che taccino).
Squadra. Sento venir genti, ed è Mastica e il romano: scostiamci ché non ci veggano e ci prendano per suspetti, e ascoltiamo da canto la riuscita.
Trasilogo. Meglio sará che ci partiamo, ché potremo dimandargli il successo a bel aggio.SCENA V.
Lampridio, Mastica, Teodosio, Eugenio.
Lampridio. Chi son questi che stanno dinanzi la porta nostra?
Mastica. Son poveretti che devono dimandare la elemosina.
Teodosio. Olá, o di casa!
Mastica. Che batti? vuoi tu spezzar questa porta?
Teodosio. È forse tua madre, che temi che sia battuta?
Mastica. Non ti morrai di fame tu per non essere importuno e prosontuoso.
Teodosio. È importuno e prosontuoso chi batte le porte di casa sua?
Mastica. È dunque questa la casa tua?
Teodosio. Dimmi prima se questa è la casa di Sennia.
Mastica. Questa è la casa di Sennia: è per questo la tua?
Teodosio. Io son Teodosio suo marito che sono stato venti anni in man di turchi, e or scampato la Dio mercè dalle lor mani me ne ritorno a casa mia.
Lampridio. (Mastica, costoro son quelli che manda il capitano, che poco anzi mi dicesti).
Mastica. (Quelli sono certissimo, ah ah! non ti accorgesti che subito veggendoci fuggiro via?).
Lampridio. (Racconta il fatto a Sennia e digli che venghi a tôrsi un poco spasso di fatti loro).
Teodosio. O di casa! Tic, toc.
Lampridio. Fermatevi, non battete, che or ora verrá qua Sennia tua moglie. (Non posso tener le risa in vedergli cosí ben travestiti. Dal natural certo. Vedrò se sapran fingere come io ho fatto).
Teodosio. Rallegrati, Eugenio mio, ch’or vedrai la tua madre e tua sorella. Oh con quant’allegrezza ci riceverá e bacierá! penso si dileguará dall’allegrezza.
Eugenio. Mi par ogni momento mill’anni d’incontrarci insieme.SCENA VI.
Sennia, Teodosio, Eugenio, Lampridio.
Sennia. Ove è questo mio marito nuovamente resuscitato?
Lampridio. Eccovi, madre, il bello sposo.
Teodosio. O Sennia moglie cara, giá giá vi riconosco alle fattezze se di te non mente il vivo ritratto che n’ho sempre portato nel core; giá ti conosco alla sola vista.
Sennia. Questo altro giovane chi è?
Teodosio. Eugenio vostro e mio figliuolo, che insieme con me fu rapito da’ turchi.
Lampridio. (Quanti Eugeni facesti, o madre?).
Sennia. (Ah ah, figlio, questi è un altro te. Mi dolea di aver perduto un figlio e in un medemo tempo n’ho racquistati duo).
Lampridio. (Guardate che viso di ribaldo, che faccia di cuoio! come sta saldo!).
Teodosio. Ah Sennia, come non mi raffiguri tu ancora? o forse lo strano abito in che mi vedi o i disaggi sufferti m’hanno talmente mutato il sembiante che non mi riconosci? Poiché sei mia moglie, deh lascia che t’abbracci!
Eugenio. O madre, ho pur visto chi m’ha generato.
Teodosio. Voi vi discostate da me, voi mi schivate, dubitate forse che non mentisca? Non è vivo alcun di nostri parenti? ove è Beatrice mia sorella, ove è Eunèmone mio fratello? forse mi riconosceranno meglio di voi. ...
Lampridio. (Non vedete le lacrime che gli cadono dagli occhi? mirate che affezion di piangente, che piangere naturale!).
Sennia. (Naturalissimo).
Teodosio. ... Ti sei a torto, Sennia, dimenticata di tanto nostro scambievole amore, ché in quel breve tempo che stemmo insieme non ebbe il mondo duo sposi che s’amassero piú di noi. ...
Sennia. (Eugenio, figlio, al mover della bocca e al ragionare fa certi motivi che, se ben mi ricordo, eran propri di mio marito).
Teodosio. ... Non avete un neo nell’ombelico con certi peluzzi biondi?
Sennia. (Come, figlio, ha potuto saper questo?).
Lampridio. (I furbi che vanno a torno per lo mondo, da’ nèi che vedono nella faccia, indovinano gli ascosti nella persona: lo sa per questo che v’ha visto nella faccia. Ma diamogli un poco la baia).
Sennia. Ditemi, quando vi sète riscattati?
Teodosio. Avendomo inviato molte lettere per lo riscatto, ha voluto la nostra disgrazia che di niuna ne abbiamo ricevuto risposta; cosí abbiam rotta la prigionia e siamo scampati.
Lampridio. Voi dovete esser usi a star in prigione; non deve esser questa la prima volta che l’avete rotta.
Sennia. Come sète venuti a Napoli?
Eugenio. In poco tempo, vogando il remo la notte e il giorno.
Lampridio. (N’han ciera da vogar bene: mirate che braccia sode, proprio nate per stare ad una galea!). Che strada avete voi fatta al venir di Turchia?
Eugenio. Niuna, l’avemo ritrovate fatte.
Lampridio. Che si fa, che si dice in Turchia?
Eugenio. Si fan mercanzie, palaggi e navi, e si dicono delle veritadi e delle bugie, come qui ancora.
Lampridio. Mi risponde da filosofo.
Eugenio. E tu mi dimandi come se mi volessi dar la baia.
Lampridio. (Al sicuro ragionar di costoro e a’ segni che mostra Sennia, dubito da dovero che questi sieno i veri Teodosio ed Eugenio, e io stesso m’arò dato l’ascia nelle gambe in fargli conoscere Sennia). Ma rispondetemi: quanto avete allogato questi ferri e questi cenci che avete adosso? e quanto v’ha promesso il capitano ché lo vogliate servire a questo effetto?
Eugenio. Che promesse, che servire, che capitano?
Lampridio. Ché foste venuti con dir che siate Teodosio ed Eugenio, accioché Olimpia mia sorella gli fusse data per moglie?
Teodosio. Io non so che tu dica: io sono il vero Teodosio e questi è il vero Eugenio mio figliuolo.
Lampridio. Voi fingete cosí, ma non sète quelli che dite. Andate a ritrovare il capitano e ditegli da mia parte che è stato tardi, ché il vero Eugenio è prima gionto del suo falso.
Eugenio. Chi è questo Eugenio?
Lampridio. Io son desso.
Eugenio. Di chi sète figlio?
Lampridio. Per non tenerti a bada, io son tutto quello che poco anzi costui ha detto che sei tu.
Eugenio. Voi potete chiamarvi del mio nome ed esser figlio a Teodosio, ma non potete esser me giamai.
Lampridio. Mirami un poco in viso. Sta’ fermo. Non vedi che diventi rosso e che cominci a tremare?
Eugenio. Vi paio io uomo da tremare se ben sto mezzo nudo?
Lampridio. Come sei venuto cosí appunto oggi come io? Siamo ancor noi andati per lo mondo e sappiamo di malizia la parte nostra.
Eugenio. Che volete dir per questo?
Lampridio. Che non sei Eugenio.
Eugenio. Che son dunque?
Lampridio. Un truffator di nomi e delle altrui autoritá.
Eugenio. Forse con piú veritá si potrebbe dir di te.
Lampridio. Dici dunque ch’io sia uomo da far truffe?
Eugenio. Te lo dicono l’opre.
Lampridio. S’io non facessi torto al boia che ti aspetta, che ti veggio le forche scolpite negli occhi, ti sfreggiarei cotesta faccia bugiarda, accioché ogni uomo da questo segnale si guardasse non farsi ingannare da te.
Sennia. Eugenio, figlio, non gli far male; mi paiono di buona ciera.
Lampridio. Ma sono di cattivo mele.
Teodosio. Andiamo, figlio, che difesa possiamo far noi quasi nudi e disarmati?
Eugenio. Come posso patir questo torto, o padre?
Teodosio. Ove è forza, è bisogno che ceda la ragione: ci perderemo la vita.
Eugenio. Quasi ch’io stimi vita dove si tratta d’onore.
Lampridio. (Questi sono i verissimi). Su, andate per li fatti vostri.
Eugenio. Questi sono i fatti nostri, cercar i parenti e la casa nostra.
Lampridio. Partitevi di qui: andate a gridare al mercato.
Eugenio. Andremo a gridare dove s’ascolteranno le nostre ragioni e si scopriranno l’altrui vigliaccherie.
Lampridio. (Se non gli scaccio di qui, non será ben di me tutto oggi).
Sennia. Lasciategli andare, Eugenio mio, che giá si partono.
Teodosio. Ricordati, moglie, che quando mi desti le tue primizie, mi desti il possesso ancora della vita e del tuo core.
Sennia. Oimè, che questa parola m’ha veramente passato il core, ché giá mi ricordo avergli io detto questa parola in quel tempo, né penso che altra persona l’ha potuto saper giamai che accadette fra noi duo soli. Io non so a chi creder io. Dio mi liberi di qualche sciagura!
SCENA VII.
Filastorgo, Lampridio, Sennia.
Filastorgo. Son giá fastidito d’andar dimandando, e dubito se non l’incontro a caso, di non averlo a ritrovar giamai; e in cosí populosa cittá è appunto l’andar cercando lui come un ago nella paglia.
Lampridio. (L’ho cacciati in malora!). Andiamcene su, madre.
Sennia. Andiamo, ma questo forestiero che or mi par gionto in Napoli, figlio, non ti muove gli occhi da dosso.
Filastorgo. (Se il desiderio che ho di veder mio figlio non mi fa parer ogni uomo lui, questi è Lampridio mio).
Lampridio. (Se la rabbia e la còlera non m’hanno offuscati gli occhi insieme col core, questi mi par Filastorgo mio padre).
Filastorgo. (Egli è certo. Oh come l’ho ritrovato a punto! non l’arei potuto ritrovare a migliore).
Lampridio. (Oimè ch’egli è certissimo; o Dio, a che ponto viene! in presenza di Sennia! non l’arei potuto incontrare a peggiore: or serò discoverto del tutto).
Filastorgo. (Non so se debbo salutarlo o se debbo correre e abbracciarlo).
Lampridio. (Non so che fare, misero me! debbo fuggire oppur fingere di non conoscerlo?).
Filastorgo. (Lo saluterò, poi con insperato gaudio vo’ abbracciarlo).
Lampridio. (Vo’ fingere di non conoscerlo; perché se mi parto, porrò Sennia in maggior suspetto).
Filastorgo. O Lampridio, figliuolo carissimo, Iddio ti salvi!
Lampridio. Oh oh, chi sète voi?
Filastorgo. Non mi conosci?
Lampridio. Non mi ricordo avervi giamai visto.
Filastorgo. Mirami bene in faccia. Che dici ora?
Lampridio. Né tampoco mi ricordo.
Filastorgo. Hai fatto la vista cosí corta o forse l’aria di Napoli è cosí grossa che non ti fa veder bene?
Lampridio. Non ti conosco né mi curo conoscerti.
Filastorgo. Non sei tu Lampridio?
Lampridio. Forestiere, m’avete tolto in cambio, perché chiamate Lampridio un che si chiama Eugenio.
Filastorgo. Il nome e i panni t’arai potuto cambiare, ma l’effigie è quella istessa che avevi in casa mia.
Lampridio. Tu sei troppo fastidioso: vuoi a forza ch’io ti conoschi non conoscendoti.
Filastorgo. Non conosci tu Filastorgo?
Lampridio. Non ho inteso nominar tal nome giamai.
Filastorgo. Che nieghi me non me ne maraviglio: maggior maraviglia sarebbe se, avendo negato te stesso, volessi accettar di conoscer me per padre.
Lampridio. Che arroganza è la tua far ingiuria a chi non conosci?
Filastorgo. L’arroganza è pur tua a non rincrescerti della tua perfidia cominciata. Pur aspettava che qualche segno di vergogna lo manifestasse. Tu pur sei Lampridio mio figliuolo che ti ho mandato di Roma per studiare a Salerno.
Sennia. Costui si dimanda Eugenio ed è mio figlio ed è stato venti anni in Turchia e non attese a studio mai.
Filastorgo. Che Eugenio, che Turchia, che parole son queste che ascolto?
Lampridio. Vo’ partirmi, ché la tua perfidia cominciata non finirá sí tosto. Andiamo su, madre.
Sennia. Andiamo.
Filastorgo. O Dio, che infideltá ho ritrovato in un figlio! negar se stesso, il padre, e finger di non conoscerlo. Ite, padri, affaticatevi in nodrir figli, in allevargli nobili e delicati; ché all’ultimo che dovrebbono con ogni loro sforzo essere il sustentamento della nostra vecchiezza, o stanno annoverando i giorni che finisca il termine della nostra vita, o ne fanno morir di doglia innanzi tempo. Lasciate la robba a quei che desiano piú la nostra morte che la propria lor vita. Oh come m’ha ben ricevuto, oh che bel riposo ha dato alla mia stanchezza del viaggio, oh che consolazione alla mia vecchiezza! Ma perché affligo me stesso? io non lo vo’ piú per figlio, poiché egli non mi vuol piú per padre: farò conto di non averlo mai piú generato o che fusse morto duo anni sono. Che figli che figli!
SCENA VIII.
Protodidascalo, Lalio paggio.
Protodidascalo. O Dio, come potrei far cerziore Lampridio dell’advento di suo padre acciò non lo colga all’improviso, e impremeditato non sappia che risponderli; come potrei io vederlo? Ma veggio un puello ludibondo uscir dalle sue edi.
Lalio. Madonna, che mi tira, che mi tira?
Protodidascalo. Alloquar hominem. Heus, puer! «Adesdum; paucis te volo» .
Lalio. Chi è costui che vola?
Protodidascalo. Heus, olá, a chi dico io?
Lalio. Se non lo sai tu a chi dici, né tampoco lo so io.
Protodidascalo. «Tibi dico, Pamphile».
Lalio. Parlate con me?
Protodidascalo. Optime quidem, sí bene.
Lalio. Chi sète voi?
Protodidascalo. Ego sum Protodidascalo gimnasiarca, ludimagistro, restitutore e reintegrator del romano eloquio all’antica candiditate «fama super aethera notus».
Lalio. (Questi deve essere qualche pedante, «cuium pecus»? che sputa «cuiussi» e parla in «bus» e «bas»). Magister, bonum sero.
Protodidascalo. Et tibi malum cito.
Lalio. Che comandate protomastro, patriarca?
Protodidascalo. «Prius te salvere iubeo».
Lalio. Io non v’intendo.
Protodidascalo. Dico che siate salvo.
Lalio. E voi salvo e contento.
Protodidascalo. Per mostrarvi la mia largitade vi vo’ fare un munuscolo di cinquanta vocabuli ciceronei abstrusi e reconditi.
Lalio. Che ceci conditi son questi che mi volete dare, di mele o di zucchero?
Protodidascalo. Dico vocabuli ciceroniani.
Lalio. Questi vocali son buoni da bere?
Protodidascalo. Son cose che quando sarete in etá piú provetta vi faranno onore nella scuola.
Lalio. Io non vo’ scola, altrimente... . Che volete da me?
Protodidascalo. Paulo ante vi ho visto uscir da questo ostio.
Lalio. Che «ostia»?
Protodidascalo. Ti allucini, figliuolo, perché «hostia» con «h», aspirazione, viene «ab hostibus», che è un animale che s’immolava dall’imperadore proficiscente alla guerra per impetrar da’ celicoli vittoria contro gli osti, cioè nemici. Onde il sulmonese poeta:
Hostibus a domitis hostia nomen habet.
Lalio. Voi volete dir gli osti che stanno nelle taverne?
Protodidascalo. Ma «ostio» sine aspiratione vuol dir le «valve», le «gianue».
Lalio. Barbagianni a me, maestro! mi parete voi un barbagianni da dovere. Parlatemi cristiano se volete che vi risponda.
Protodidascalo. Vorreste che dalla latina mi rivolga testé alla etrusca favella? Son contento. Dico che vi ho visto uscir da questo ostio, cioè da questo uscio; dico se stiate in cotesta casa.
Lalio. Se sto qui adesso, come sto in questa casa?
Protodidascalo. Argutule argutule. Se mi vuoi far un piacere ti farò un presentuculo.
Lalio. Che vorresti? va’ via, va’, conosco i pari tuoi.
Protodidascalo. Ferma costí, ascolta quaeso due paroline.
Lalio. Parla da lungi, di’ presto, che vuoi?
Protodidascalo. Non è venuto un certo forestiero, advena, oggi in tua casa?
Lalio. Sí bene. (O Dio, che avessi il mio schioppetto!).
Protodidascalo. Vorrei dirli duo verba.
Lalio. Vorresti per sorte che lo chiamassi? aspetta che tornerò adesso adesso.
Protodidascalo. «Heu mihi! discedens oscula nulla dedi». Oh che indole maiestale di fanciullo! gli quadra un volgare epigramma che i giorni preteriti feci in lode d’un mio scolare.
Lalio. (Aspetta che l’arai).
Protodidascalo.
O piú formoso del troian giovencolo |
Lalio. Eh! fermati un poco.
Protodidascalo. Heu Iuppiter altitonante, belligero Marte, armipotente Bellona con l’anguifera egida, soccorrete! che fulgetri, che terrifichi bombi son questi? Questo è il rispetto alla venerabil toga? questo merita chi ha sublevato da’ solecismi e dalla esecrabil barbarie il tesoro del latino sacrario, e locupletata la romana facondia? O detestabil secolo, qual immanitá l’ha impulso a cosí facinoroso atto? Un insolente fanciullo con nefario áuso attacca a me nella posterga parte i scoppicoli di pagina ignivomi, fumivomi, e mi dá in preda del foco! a me tanto nemico e prosequente, che in tanto pavore prolapso sono che non è atomo in me che non tremi, e lo spirito par che voglia migrare! Ma dove è sublato dagli occhi miei questo fugaculo? l’andrò cercando con occhio scrutatorio, e se mi vien obvio lo farò col capo arietar in un muro. Meglio será ne vada al mio cubicolo e mi vendichi con invettive di iambi ed endecasillabi che sapranno della lucubratrice lucernula, che mai dall’edace tempo seran consumpte: queste lo trafigeranno piú d’ogni cultrato mucrone. Immorigerato puerolo, ficoso catamíto, inter socraticos notissima fossa cinaedos!
SCENA IX.
Teodosio, Eugenio.
Teodosio. Mai suole venir una grande allegrezza che non si tiri appresso una grande amaritudine. Oimè! che l’allegrezza dell’acquistata libertá non mi fu tanto dolce quanto or m’è amaro vedermi scacciato dal luogo dove sperava essere disiosamente ricevuto.
Eugenio. Siamo entrati in una sventura maggior della prima; ché se ogni travaglio e affanno era leggiero con speranza al fin di riposare, quanto or mi è grave pensando esser al fin pervenuti e siamo nel cominciare!
Teodosio. O fortuna, io ti disgrazio che ne rompesti la prigionia e ne facesti scampare, che ci era piú dolce soffrir la fame, la sete, la prigionia e l’ingiuriose parole che abbiamo sofferte da quei cani, che quello che abbiamo inteso in casa nostra. O mar, la tua pietá ne è stata crudele avendoci condotti salvi: quanto mi saresti stato pietoso se in quel giorno che n’avemmo tanta paura tu n’avessi sommerso, ché sarebbomo morti contentissimi! n’hai condotto in porto per farci battere in questo scoglio crudele, per farci provare una morte piú acerba e piú dolorosa!
Eugenio. Padre, forse questa non è la casa vostra e quella donna non è Sennia vostra moglie.
Teodosio. Io l’ho ben riconosciuta. Ma questo giovane si será finto Eugenio. Sennia è amorevolissima, e il desiderio di veder suo figlio l’ará appannato di sorte gli occhi che l’ará occecati, e ce l’aranno aiutato i servi. Onde la sua astuzia, l’ardir della gioventú, la credulitá di Sennia, la malignitá di servi l’aranno servito per ruffiani.
Eugenio. In questa cittá, dov’è tanta giustizia, si trovano le genti cosí cattive?
Teodosio. Le genti cattive si trovano in ogni luogo.
Eugenio. Padre, lasciate tanti dolori, ché questi non vi restituiranno la moglie e la figliuola; e forse Iddio, che mai suole dismenticarsi de’ miseri, ne dará qualche rimedio.
Teodosio. Il rimedio sarebbe una morte che ambiduo ne togliesse di vita; ella è il medico e la medicina di tutti i mali. S’ará goduto Olimpia, che rimedio può farsi che quel che è fatto non sia fatto?
Eugenio. Almeno faremo che non la goda piú: andiamo alla giustizia, facciamolo carcerare, e quivi provi come sia me.
Teodosio. Andiamo per mostrar che facciamo alcuna cosa; e poiché abbiamo perduto le robbe e le carni, poco sará se perderemo questo poco di vita che n’avanza.
SCENA X.
Lampridio, Protodidascalo.
Lampridio. Mai comincia una sciagura che non ne seguano mille, ché la fortuna non si contenta d’una sola. Appena cominciò la prima che seguí la seconda, poi la terza; e mi getta sopra monti ardenti di mali, che appena mi dá tempo di piangere, non che rimediare alla mia disgrazia. All’ultimo, per non lasciarmi tantino di speranza, fa venir Filastorgo mio padre, onde m’è stato forza finger di non conoscerlo, burlarlo e cacciarmelo dinanzi. Con che faccia gli potrò comparir piú dinanzi? Deh, perché son vivo? perché non moro? che fo in questa vita? Ma il tempo fugge e io lo sto perdendo in parole. Ecco Protodidascalo: cercherò qualche consiglio. — Che ci è, Protodidascalo?
Protodidascalo. Siam rovinati.
Lampridio. Questo vada a chi ci vuol male.
Protodidascalo. A voi è toccato in sorte.
Lampridio. Che ci è? parla presto.
Protodidascalo. Che faresti se ti portassi bene, se con tanta fretta mi dimandi il male? Ma tu ancora ignori i tuoi guai: t’apporto nuovi guai.
Lampridio. I miei guai son tanti che non se ne trovano piú per accrescerli.
Protodidascalo. Tuo padre è venuto.
Lampridio. Giá lo sai?
Protodidascalo. Ti ricerca.
Lampridio. Sai troppo.
Protodidascalo. E fra poco tempo tel troverai dinanzi.
Lampridio. Sai soverchio. Ma non sai che, avendomi trovato in presenza di Sennia, ho finto non conoscerlo e cacciatolo via. Ci è di peggio: che è venuto il vero Teodosio ed Eugenio e l’ho scacciati di casa, ed eglino sono andati alla giustizia a lamentarsi.
Protodidascalo. Heu, che non ti potea accader cosa piú mala, peggiore e pessima — positivo, comparativo e superlativo.
Lampridio. Oh con quanta difficultá s’acquistano le cose e come poi facilmente si perdono! il mio giorno ha visto la sera al far dell’alba.
Protodidascalo. Ricordati questa mane che per la via una sinistra cornice, oscine inauspicato, crocitando — per onomatopeiam, «apò tú onomatos» idest «nomen» , et «poios» quasi «factum», idest «factitium nomen» — ti predisse con infausto omine questo fatto. Giá la fortuna comincia a visitarci con le sue disgrazie, né per altro te si mostrò cosí fautrice ne’ primordi che per farti periclitare et explorare questa caduta maggiore.
Lampridio. Il superar la fortuna non è altro che sopportar i suoi colpi.
Protodidascalo. A questi colpi non ci è clipeo che li facci obstaculo, perché ubicumque ti volgi trovi nuove erumne da superare.
Lampridio. Tante piú ne soffriremo. Che difficultá può patire chi non estima la vita? Ma di grazia, facciam collegio della mia vita e cerchiamo qualche rimedio; ...
Protodidascalo. Etiam atque etiam cogitandum.
Lampridio. ... ché ben conosco che sono alle mani d’un medico che volendo saprá rimediare al mio male.
Protodidascalo. Poiché m’hai eletto per medico al tuo male benemerito, eccoti un opportuno e proficuo rimedio: fuggi di questa cittade.
Lampridio. Oimè, tu m’hai ferito, son morto!
Protodidascalo. Perché dici cosí?
Lampridio. Perché parli coltelli e pugnali e spade che m’han peggio che morto.
Protodidascalo. Questo è un buon rimedio.
Lampridio. È cattivo rimedio per me.
Protodidascalo. T’apporta salute.
Lampridio. Odio salute che viene con tanto dolore. Se stessi un’ora senza veder Olimpia non potrei vivere.
Protodidascalo. È cosí gran paradosso questo! L’egroto che non vuol obtemperare al medico, come dice il princeps medicorum Hippocrates, o perirá o patirá una egritudine diuturna.
Lampridio. Tu sei medico troppo crudele.
Protodidascalo. Il medico pio fa marcir lo apostèma e trucida l’egro. Per uscir dal termine dove sei bisogna suffrir alcuna cosa contro l’animo tuo. Fa’ conto che questo star orbato di lei sia uno di quelli alexifarmaci, alexeteri che purgano i mali umori.
Lampridio. Fuggir io, star senza vederla io? piuttosto potrei vivere senza la vita. Taci, ché questa tua medicina será piú atta ad uccidermi che la malattia.
Protodidascalo. Se perseveri in questa ostinazione adamantinale, serai in discrimine di essere obtruso in carcere e d’esserti obtruncato il capite, e perderai Olimpia e la vita.
Lampridio. Vo’ piuttosto che fuggir esser menato in prigione e patir ogni supplizio sino alla morte. Amore è cosí insignorito di me e con sí forti catene mi tiene avinto che non mi lascia partire.
Protodidascalo. Io dunque, imponendo coronide al mio dire, ti lascio senza medico e senza medicina. Vale.
Lampridio. Io me ne andrò a casa, ché se ben sto col corpo fuore, l’animo è dentro. Oimè, chi sono costoro che vengono?
SCENA XI.
Teodosio, Capitano di birri, Lampridio.
Teodosio. Questi è l’ingannatore, signor capitano. Birri, prendetelo.
Capitano. ¡Alto á la corte! Sois preso; o vos, atadle.
Lampridio. Che ho fatto io, che feci mai?
Capitano. Lo sabrás como serás en carcel.
Lampridio. Aspettatemi un poco, lasciatemi parlare.
Capitano. Habla cuanto quieres.
Lampridio. Non stringer cosí forte, lasciatemi parlare.
Capitano. Ya no hablas con las manos.
Lampridio. (O Dio, come scamperò dalle mani di costoro?). Ascoltate, signor capitano, due parole all’orecchio.
Capitano, ¡Válame Dios! clerigo sois. Dejadle, dejadle.
Lampridio. Signor capitano, costui, che forse non conoscete, è scemo di cervello e va dicendo a ciascheduno che è venuto di Turchia e che ha trovato in casa sua un non so chi, che dice esser figlio a sua moglie e fratello a sua figlia, e mille altre filastroche; e si piglia diletto di dar la baia a tutta questa cittade. Mirate che stracci da mascalzoni.
Capitano. Por cierto yo me lo he imaginado da mi mismo viendole llorar y echar gritos tan altos por todo. Venid acá, ¿que quereis vos de este?
Teodosio. Questi, sotto nome d’Eugenio mio figlio vero, è intrato in casa d’una mia moglie; fingendo esser suo figlio e fratello d’Olimpia, una mia figlia, s’è fatto falso fratello e vero innamorato.
Capitano. Yo no entiendo que diga de mujer y de hermano, ni de falso ni de veras.
Lampridio. Mirate che faccia rossa, che gesti strani: l’aria proprio d’un pazzo.
Teodosio. Io pazzo? pazzo pari tu a me.
Lampridio. Ad un pazzo tutti gli altri paiono pazzi: e che sia vero dimandiamogli alcuna cosa e vedrete come risponde a proposito.
Capitano. Dime ¿que has comido esta mañana?
Teodosio. Che dimande son queste? Un canchero!
Capitano. Por ti es buen pasto que has comido.
Teodosio. Cacasangue!
Capitano. Buen provecho.
Teodosio. Voi vi fate beffe di me: cosí s’adempie l’uffizio della giustizia?
Lampridio. Vòltati qua, gli alberi che fioriro l’estate che verrá, che frutti produrranno la primavera passata?
Teodosio. Produrranno una forca dove fosti appiccato!
Lampridio. Io mi fo la croce: non dice parola che non meriti un anno di prigionia.
Teodosio. O Dio, che questo ribaldo mi fa proprio divenir matto.
Lampridio. Non diverrai tu matto, perché sei matto giá. Signor capitano, si trova una spezie di còlera che movendosi per lo corpo fa ferneticare: non vedete la faccia sparsa di macchie nere? giá si muove la còlera nera.
Capitano. En verdad, que este me parece loco.
Lampridio. Discostatevi, ché non pigli alcuna pietra e ve la tiri. Non vedete gli occhi come sfavillano? giá li mali umori l’assaltano e lo cominciano a stimulare.
Teodosio. Mi rodo di rabbia che non trovo una pietra per romper la testa a costui.
Lampridio. Non vedete che va cercando una pietra per trarvela? discostatevi, signor capitano, ché non v’uccida.
Teodosio. (O Dio, che questo truffatore ha dato ad intendere a costoro ch’io sia matto; e se lo credono). Capitano, vorrei dirvi due parole da solo a solo.
Lampridio. Guardatevi, signor capitano, ché come gli sarete vicino, vi strapperá il naso dal viso con i denti; e i morsi di pazzi son velenosi. Questi sono i guadagni che si fanno con i pazzi.
Capitano. Yo no me acercaré; habla á la larga.
Teodosio. Non son cose queste da dirsi alla larga.
Capitano. Ni yo soy hombre de dejarme coger á la estrecha contigo.
Teodosio. Ascoltate, non temete; questi vi burla.
Lampridio. (Se questi l’ascolta io son spacciato). Signor capitano, se non lo fate ligare e strascinar in prigione, storpiará alcuno e fará piú strane cose di queste.
Teodosio. Ascoltatemi, di grazia: due altre parole.
Capitano. Y de missa tambien. ¡Válgame nuestra Señora! Tomad este y arrastradle. Gentilhombre, váyase V. M. en buena hora; y le beso las manos.
Teodosio. Son uomo da esser cosí ligato e strascinato? questa è la giustizia?
Capitano. Gentilhombre, me perdonarás si no conosciendole le he offendido.
Lampridio. Non fa offesa chi non pensa di farla. (Vo’ seguirli per veder che succede di questo fatto).