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atto quarto | 59 |
Eugenio. E siamo stati venti anni in man di turchi e abbiamo rotta la prigione e siamo venuti a Napoli per saper se fussero ancor vive.
Squadra. Oh oh, come risponde quest’altro a tuono, alle consonanze!
Teodosio. O Sennia molto amata, o Sennia poco goduta e molto sospirata!
Eugenio. O sorella Olimpia, quanta bellezza m’ha raccontato il padre, ch’era in te!
Trasilogo. (Oh che solenne barro, non si potria far meglio! appena ha inteso il fatto che l’ha subito capito e posto in esecuzione. Non ti dissi io che alla ciera mi sentiva di furbo?).
Teodosio. O moglie, o figlia, che v’ho stimate morte, poiché di tante lettere che v’ho inviate per saperne qualche novella, non mai ne abbiamo ricevuta risposta.
Squadra. (Piú di quello che gli abbiam detto: ci giongono del loro ancora).
Trasilogo. (Se fussero nati in Grecia? E il buono è che non bisogna altrimente accomodargli di vesti, che paiono or ora usciti da una galea).
Squadra. Non piú, che dite benissimo.
Eugenio. Io non posso capir tant’allegrezza e par che venghi meno, ché tutte le preghiere che ho fatto a Dio, son state che doppo aver veduta mia madre e il luogo dove sia nato, morrei sodisfattissimo.
Squadra. Basta, basta. Vedete voi quella casa? quella è la casa di Sennia.
Teodosio. Chi t’avesse detto, Teodosio, scampato di man di turchi, venir alla tua patria, trovar la moglie viva e la figliuola?
Trasilogo. (L’abbiamo pregati che comincino, or sará bisogno strapregarli che taccino).
Squadra. Sento venir genti, ed è Mastica e il romano: scostiamci ché non ci veggano e ci prendano per suspetti, e ascoltiamo da canto la riuscita.
Trasilogo. Meglio sará che ci partiamo, ché potremo dimandargli il successo a bel aggio.