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64 | l’olimpia |
Eugenio. Quasi ch’io stimi vita dove si tratta d’onore.
Lampridio. (Questi sono i verissimi). Su, andate per li fatti vostri.
Eugenio. Questi sono i fatti nostri, cercar i parenti e la casa nostra.
Lampridio. Partitevi di qui: andate a gridare al mercato.
Eugenio. Andremo a gridare dove s’ascolteranno le nostre ragioni e si scopriranno l’altrui vigliaccherie.
Lampridio. (Se non gli scaccio di qui, non será ben di me tutto oggi).
Sennia. Lasciategli andare, Eugenio mio, che giá si partono.
Teodosio. Ricordati, moglie, che quando mi desti le tue primizie, mi desti il possesso ancora della vita e del tuo core.
Sennia. Oimè, che questa parola m’ha veramente passato il core, ché giá mi ricordo avergli io detto questa parola in quel tempo, né penso che altra persona l’ha potuto saper giamai che accadette fra noi duo soli. Io non so a chi creder io. Dio mi liberi di qualche sciagura!
SCENA VII.
Filastorgo, Lampridio, Sennia.
Filastorgo. Son giá fastidito d’andar dimandando, e dubito se non l’incontro a caso, di non averlo a ritrovar giamai; e in cosí populosa cittá è appunto l’andar cercando lui come un ago nella paglia.
Lampridio. (L’ho cacciati in malora!). Andiamcene su, madre.
Sennia. Andiamo, ma questo forestiero che or mi par gionto in Napoli, figlio, non ti muove gli occhi da dosso.
Filastorgo. (Se il desiderio che ho di veder mio figlio non mi fa parer ogni uomo lui, questi è Lampridio mio).
Lampridio. (Se la rabbia e la còlera non m’hanno offuscati gli occhi insieme col core, questi mi par Filastorgo mio padre).
Filastorgo. (Egli è certo. Oh come l’ho ritrovato a punto! non l’arei potuto ritrovare a migliore).