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66 l’olimpia

vergogna lo manifestasse. Tu pur sei Lampridio mio figliuolo che ti ho mandato di Roma per studiare a Salerno.

Sennia. Costui si dimanda Eugenio ed è mio figlio ed è stato venti anni in Turchia e non attese a studio mai.

Filastorgo. Che Eugenio, che Turchia, che parole son queste che ascolto?

Lampridio. Vo’ partirmi, ché la tua perfidia cominciata non finirá sí tosto. Andiamo su, madre.

Sennia. Andiamo.

Filastorgo. O Dio, che infideltá ho ritrovato in un figlio! negar se stesso, il padre, e finger di non conoscerlo. Ite, padri, affaticatevi in nodrir figli, in allevargli nobili e delicati; ché all’ultimo che dovrebbono con ogni loro sforzo essere il sustentamento della nostra vecchiezza, o stanno annoverando i giorni che finisca il termine della nostra vita, o ne fanno morir di doglia innanzi tempo. Lasciate la robba a quei che desiano piú la nostra morte che la propria lor vita. Oh come m’ha ben ricevuto, oh che bel riposo ha dato alla mia stanchezza del viaggio, oh che consolazione alla mia vecchiezza! Ma perché affligo me stesso? io non lo vo’ piú per figlio, poiché egli non mi vuol piú per padre: farò conto di non averlo mai piú generato o che fusse morto duo anni sono. Che figli che figli!

SCENA VIII.

Protodidascalo, Lalio paggio.

Protodidascalo. O Dio, come potrei far cerziore Lampridio dell’advento di suo padre acciò non lo colga all’improviso, e impremeditato non sappia che risponderli; come potrei io vederlo? Ma veggio un puello ludibondo uscir dalle sue edi.

Lalio. Madonna, che mi tira, che mi tira?

Protodidascalo. Alloquar hominem. Heus, puer! «Adesdum; paucis te volo» .

Lalio. Chi è costui che vola?

Protodidascalo. Heus, olá, a chi dico io?