L'Italia e la civiltà tedesca
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PROBLEMI ITALIANI
VIII.
UGO OJETTI
L’ITALIA
E LA
CIVILTÀ TEDESCA
MILANO
RAVÀ & C. - Editori
1915
PROPRIETÀ RISERVATA
TIP. LIT. RIPALTA - MILANO
La difesa della nostra civiltà.
Quasi tutti i popoli d’Europa sono in piedi, coperti d’armi e di sangue, tesi a difendere o a riconquistare con uno sforzo supremo i loro confini politici e forse a raggiungere i loro confini etnici e naturali. È lecito a noi italiani definire e difendere almeno i confini ideali dell’arte nostra e della nostra civiltà?
L’acquiescenza morale e mentale degl’italiani che si dicono colti, al dominio dell’intelligenza straniera, non è infatti stata mai tanto visibile quanto adesso. Noi che crediamo necessaria per la nostra salvezza l’azione, siamo accusati di essere sedotti e corrotti dalla civiltà francese o da quella inglese o da quella russa, — tre civiltà abbastanza contraddittorie, alla fine, tanto che l’ultima è per molti un’intelligente barbarie. Quelli che difendono l’inerzia senza riuscire a mostrarcene altri vantaggi di là da quelli del quieto vivere e della beata rassegnazione a lasciar l’Italia isolata, incompiuta e indifesa sopra innaturali confini, si dichiarano, senza ambagi, devoti propugnatori della civiltà tedesca.
Ma una civiltà italiana non esiste? O non esiste più? O per esistere deve proprio appoggiarsi mollemente alla civiltà germanica perchè sembra virile e muscolosa? La minacciata e vantata egemonia tedesca oltre il dominio politico diretto e indiretto e il dominio industriale e commerciale sull’Europa, non significherebbe anche dominio intellettuale?
Per secoli l’Italia, politicamente divisa, era unita solo dalla sua civiltà tipica, originale, inconfondibile. Ora che è politicamente quasi tutta condotta a unità, di quell’antica indipendenza intellettuale e morale si deve far getto tranquillamente senza protestare, proprio per difendere da oscure minacce la nostra nominale indipendenza politica? E non sarebbe questa peggio che niente se i nostri cervelli e le nostre coscienze dovessero tutte essere schiave della civiltà più opposta alla nostra in tutta Europa, intendo della civiltà e della cultura tedesche?
Quando noi eravamo sotto il diretto dominio degli stranieri, le menti e i cuori italiani, dall’Alfieri al Foscolo, al Mazzini e al Gioberti, per rivendicare gl’irriducibili caratteri di questa nostra civiltà insorgevano con un impeto di fede che oggi sembrerebbe, se lo rivedessimo in atto, fastidioso, presuntuoso, quasi ridicolo. Quando, ad esempio, un secolo fa vinto e cacciato Napoleone, la letteratura dei vincitori e il romanticismo tedesco finirono d’invadere l’Italia e di sconvolgere le fantasie dei poeti che per l’occasione si improvvisavano critici, la reazione classica fu tanto calda, franca e convinta che presto di quella tempestosa moda straniera poco rimase fuor che il nome vano, e il romanticismo che di là dall’Alpi aveva predicato ed esaltato la ribellione individuale ad ogni legge d’arte e di morale e ad ogni fine sociale imposto all’arte, divenne qui pratico ed ordinato, tutto inteso a costituirci una patria unita e libera e a ricostituirci una letteratura sincera e semplice e popolare.
Dopo il 1870.
Invece dopo la guerra del 1870 e il sorgere della strapotenza tedesca, quando i tedeschi dichiararono che il dominio della razza germanica sull’Europa e sul mondo per forza d’armi e di cultura era fatale, nell’Italia ormai libera e unita dove il franco parlare non sarebbe più costato nè la galera nè l’esilio ma tutt’al più l’esclusione da qualche umile cattedra universitaria, noi abbiamo veduto nelle scuole e nei laboratori, nelle banche e nelle officine, nei parlamenti e nell’esercito, la venerazione per la cultura e per gli ordinamenti dei vincitori di Sedan proclamati e accettati con un ossequio così timido ed unanime che parve la nostalgia della nostra antica schiavitù. Non solo sul presente e sull’avvenire d’Italia questi stranieri avevano messo col nostro pieno consenso il loro sigillo ma perfino sul nostro passato; la storia di Roma, la storia dei nostri Comuni, la storia del nostro Rinascimento, tutta opera di tedeschi, scritta con animo di tedeschi per la maggiore esaltazione della razza tedesca. E dopo avere in ogni attività sociale chiesto ai tedeschi d’insegnarci a pensare e ad operare, avevamo addirittura chiesto loro d’insegnarci a insegnare, così che fin dai ginnasi, anzi fin dagli asili, i bimbi e i ragazzi d’Italia fossero tutti fatti a immagine e a somiglianza del modello tedesco, con l’approvazione tedesca.
Fino il greco e il latino ci hanno fatto imparare sulle grammatiche dei signori Curtius, Müller o Schultz. Fino i classici latini, i padri della nostra intelligenza italiana, abbiamo a scuola dovuto leggerli sulle edizioni di Lipsia.
Quelli che tentarono di volgersi alla Francia come a una più fraterna maestra di civiltà, trovarono, e non se ne avvidero, anche la cultura e la civiltà francesi obbedienti ormai alla cultura e alla civiltà tedesche. In Francia era quello un modo ingenuo ma apparentemente logico per preparare una rivincita dopo le sconfitte e le umiliazioni del 1870: assimilarsi, cioè, della disciplina mentale, morale, sociale, militare della Germania o meglio della Prussia vittoriosa quanto era possibile per riuscire, chi sa, un giorno a vincerla e a punirla con le sue stesse armi. Ma noi che non eravamo stati vinti, noi che nello stesso anno raggiungevamo l’unità e alla meglio, Roma capitale, noi perchè dovevamo mettere sulla nostra chiara limpida aperta intelligenza la grave uniforme prussiana? Dobbiamo dire che non eravamo degni della libertà intellettuale perchè la libertà politica l’avevamo conquistata solo in parte per merito nostro e con le nostre forze, ma in gran parte essa ci era venuta, come ancora si vorrebbe che ci venisse pel Trentino e per l’Istria, dagli aiuti e dai doni altrui?
Ancora nel 1861 Pasquale Villari maestro di storia ma, quel che più conta, maestro d’energia e di vita stampava tra i preziosi opuscoli di propaganda nazionale editi dal Lemonnier il suo saggio sulla Civiltà latina e la civiltà germanica per affermare contro l’illusione dell’Alighieri che «la salute d’Italia nè allora nè mai poteva venire da un imperatore tedesco» e per provare che «non appena comparisce in mezzo a noi l’elemento germanico, cessano non solo le cagioni della guerra civile, ma ancora la necessità di restare sparsi e divisi: la famiglia latina sente il bisogno di raccogliersi e di costituirsi in nazione».
Ancora nel 1870 e nel 1872, nelle ultime pagine della Storia della letteratura italiana e nelle prime della Letteratura italiana del secolo XIX, Francesco de Sanctis osa iniziare quel processo agl’influssi del romanticismo straniero sulle nostre lettere che solo da pochi anni qualche giovane animoso ha, sulle sue tracce, ripreso. Diceva il De Sanctis: «Il romanticismo, in questa sua esagerazione tedesca e francese, non attecchì in Italia e giunse appena a scalfire la superficie. I pochi tentativi non valsero che a meglio accentuare la ripugnanza del genio italiano». Il genio italiano... Chi oserebbe oggi parlarne?
Subito dopo il 1870 con l’obbedienza politica dei nostri governi comincia l’obbedienza scientifica dei nostri professori, chè tutto in omaggio alla Germania fu scienza, anzi tutto fu, secondo il termine di moda, specialità, specialität. Pian piano, com’era giusto, di quello stesso timore reverenziale per ogni fatto e parola dei tedeschi i nostri scienziati arrivarono a fare una scienza, l’antropologia, e nel 1900, anno secolare, un buon professore della Università di Roma scrisse il suo libro sulla Decadenza delle nazioni latine, provando che noi latini correvamo verso l’abisso, anzi fra poco — son sue parole — dovevamo precipitare nel fondo di codesto abisso. Concludeva: «La resurrezione delle nazioni latine, e d’Italia specialmente, si avrà solo a condizione che le attività loro si svolgano esclusivamente nelle opere di pace». Il quale consiglio che oggi altri professori, filosofi, antropologi, zoologi, filologi, ci ripetono instancabilmente, di ridurci tutti agnelli perchè il nostro vello sia sempre più facile a tondere, il buon professore non ce lo dava, si badi bene, per far piacere a qualche suo collega tedesco predicatore dell’avvento armato della dominazione tedesca sul mondo, ma ce lo largiva con candida buona fede, convinto proprio di salvare i suoi fratelli dalla morte.
Oggi al principio del 1915 la difesa è diventata urgente. Io vorrei che, per preparare non solo le armi dei soldati ma anche gli animi dei cittadini, molti italiani si ponessero finalmente queste due domande: che cosa deve alla Germania la civiltà italiana? Che cosa deve all’Italia la civiltà tedesca?
Problema vasto vastissimo che può sembrare vanità voler definire e risolvere in poche pagine. Ma queste pagine vogliono soltanto porlo, accennando a tre punti che mi sono sempre sembrati fermi e indiscutibili1.
Primo, che la civiltà italiana, quello che una volta si chiamava il genio italiano, niente di sostanziale deve alla civiltà germanica, chè anzi i suoi caratteri precipui si sono tutti formati o fuori o contro ogni influsso germanico; secondo, che quanto di tedesco dopo i due più clamorosi e temibili trionfi tedeschi, dopo il 1815 e dopo il 1870, è penetrato in Italia e per un lungo e doloroso errore ci è stato imposto dopo il 1815 solo nella letteratura e nell’arte, dopo il 1870 solo nelle scuole, nelle scienze, nella politica, chè ogni opera di fantasia era ormai troppo povera in Germania, ci è stato e ci è dannosissimo, ragione precipua del nostro scadimento mentale c morale; terzo, che la civiltà tedesca mantiene ancora in pieno secolo ventesimo i suoi caratteri medievali perchè il popolo tedesco non è riuscito a vivere quel periodo di gioia serena e di armonioso rinnovamento che iniziò nei paesi latini l’epoca moderna, intendo il Rinascimento dell’età classica.
I tedeschi della Riforma.
E fu la Riforma ad impedire in Germania quella che noi giustamente chiamiamo la Rinascita. Come l’emancipazione dei Comuni dal potere imperiale in Italia fu la grande vittoria italiana contro i popoli germanici, così la Riforma di Lutero fu la grande e sincera emancipazione dei popoli germanici contro quella che era allora la più potente istituzione italiana e latina, accentratrice e disciplinata, contro, cioè, la Chiesa di Roma.
L’origine della Riforma fu veramente nazionale. Anzi la Riforma di Lutero si può dire l’atto di nascita della Germania. Ma la vita politica tedesca, anche alla fine del quattrocento, era sempre tipicamente medievale e feudale nel senso che ogni principe era indipendente di fatto dal potere centrale sebbene le città con la loro borghesia ricca attiva ed armata, pur mantenendo intatto, anzi esasperando fino all’egoismo quel particolarismo feudale, riducessero ormai a mal partito gli stessi feudatarii e spesso li obbligassero per vivere ad esercitare la rapina sulle strade maestre del gran traffico europeo. Il qual traffico europeo, dall’oriente e dal mezzogiorno verso il settentrione, passava tutto per le mani della borghesia tedesca. Insomma in Germania la civiltà alla fine del quattrocento era una civiltà pratica e utilitaria, di commerci e di industrie, tutta borghese e cittadina, attiva e godereccia, sensuale e superstiziosa, robusta e spavalda, felice nell’anarchia politica del Sacro Romano Impero che era ormai un impero senza capitali e senza capitale e senza confini definiti, un Sacro Romano Impero che, per ripetere il vecchio epigramma di Voltaire, non era nè sacro nè romano nè impero. Nei Ritratti delle cose di Lamagna dice dei tedeschi il Machiavelli che «non escono danari dal paese loro, sendo contenti di quello che il loro paese produce e nel loro paese sempre entrano e sono portati danari da chi vuole delle loro robe lavorate manualmente di che quasi condiscono tutta Italia... E così si godono questa lor vita e libertà... Costoro, (cioè le Città Franche) sono per essere fredde nella loro libertà anche di acquistare imperio; e quello che non desiderano per loro non si curano che altri lo abbia».
Insomma, nell’ordine politico gl’interessi materiali e particolari soffocavano allora nelle maggiori e più potenti città tedesche ogni interesse generale e ogni grande sforzo collettivo; nell’ordine morale, checché affermino gli storici tedeschi, il lavoro pratico ed utile e l’amore del lucro e del godimento immediato soffocavano ogni sentimento, non dico mistico, ma soltanto gentile e cavalleresco.
E la riprova, al solito, di questi costumi è nelle arti. L’oreficeria più ricca, più frastagliata e più adorna è, delle arti minori, quella più in auge. La pittura dei paesi alemanni è senza carattere nazionale, alla mercè degli influssi più vicini: la scuola di Colonia e quella di Norimberga sotto l’influsso fiammingo; quella di Vestfalia sotto l’influsso olandese; quella di Augusta sotto l’influsso della Rinascenza italiana. Alla commozione mistica queste pitture arrivano con l’osservazione minuta, spasmodica e quasi crudele della realtà. L’espressione domina la bellezza, e un’allegria provinciale e ridanciana emana ancora dai ritratti, dai gruppi maliziosi, dai nudi femminili di Luca Cranach ornati senza eleganza solo d’un gran cappello o d’una grave collana d’oro. E Luca Cranach che viveva a Wittemberg quando Lutero affisse le sue Tesi alla porta della chiesa del Castello, che di Lutero fu intimo, che fu per anni protetto come Lutero da Federico il Saggio, Elettore di Sassonia e patrono della Riforma, è ben più tipicamente tedesco dell’Holbein per tanti anni spatriato, del Dürer che tanto dovette agli italiani, che più di qualunque altro artista tedesco fino a Goethe s’affaticò a studiare e ad assimilare il nostro umanesimo e la cultura classica, che infine, se riuscì a dare un’arte austera e solenne alla Riforma luterana coi Quattro evangelisti ora a Monaco, vi riuscì solo grazie a quei soccorsi latini. Ma più di tutte le arti, il teatro tedesco di quel tempo, grossolano e indecente anche al confronto della nostra Mandragola e della nostra Calandra dove un riflesso di commedia antica nobilita ogni più ardua battuta, ritrae i costumi tedeschi.
Ora le pretese pecuniarie del papato nella vendita delle indulgenze, le decime e le altre infinite esazioni e vessazioni ecclesiastiche, gli abusi dell’alto clero feudaleggiante, militaresco e proprietario d’un terzo delle terre tedesche, dovettero offendere quelle coscienze di buoni borghesi al banco più d’ogni altro vizio della corte di Roma. Non dico cose nuove. Un gran tedesco, Federico II, ha dichiarato nettamente che la Riforma tedesca fu solo effetto dell’interesse.
Il Rinascimento e la Chiesa Romana. |
L’assalto di Lutero è povero di dialettica e anche di nobiltà. «Pecca, pecca fortemente ma credi più fortemente ancora». È un assalto selvaggio, brutale, furioso, tipicamente — e fu il suo merito — teutonico nel senso che la cronaca stessa di questi mesi di guerra dà a questo aggettivo. Pecca sodo: picchia sodo. Lutero odiò nel Papato non la corruzione soltanto ma la cultura, la raffinatezza, la bellezza, l’ordine politico, la libertà morale, la disciplina mentale ed artistica del nostro umanesimo, odiò in una parola l’Italia e il suo Rinascimento classico e latino in nome del medioevo barbarico e germanico. E proibì per sempre nella Germania protestante l’ingresso a quella gloriosa pacifica rivoluzione che aveva condotto l’Italia fuori del medioevo sotto la guida dell’antichità risorta, che aveva spinto l’Italia a ritrovarsi questa guida con uno studio indefesso e con un metodo esemplare anche rispetto allo studio e al metodo dei moderni eruditi tedeschi oggi tanto vantati, che ci aveva finalmente dato, al contatto di quell’antichità la commozione di chi fino allora povero solo ed ansioso si ritrova un padre e una casa e una ricchezza; meglio, di chi si ritrova un paradiso in terra popolato d’eroi, splendente di bellezza, ordinato con un’armonia che dopo tanti secoli ci parve dovesse essere eterna e quasi divina. E fu ed è un vanto del papato d’aver accolto e, direi quasi, benedetto quel Rinascimento classico e pagano, quella resurrezione delle cose morte come disse il Machiavelli, dando a quelle cose morte un prestigio di cose sante.
In Germania invece per l’opera di Lutero e della Riforma l’individuo solo con la sua fede e la Bibbia, l’individuo «chiesa a sè stesso» fu abbandonato all’indipendenza morale ma anche all’indisciplina sociale, e non sentì altri legami sociali che quelli angusti e particolari con le sue corporazioni di mestiere e con le sue città libere e borghesi. E di quella indisciplina sociale, di quel particolarismo medievale soffrì la Germania per secoli, nel centro dell’Europa moderna, la Germania che così divisa e decapitata restò per secoli povera e desolata, campo di battaglia di tutte le nazioni d’Europa, senza speranza quasi d’essere mai una nazione.
La Chiesa Romana, invece, appunto perchè romana ed erede dello spirito e della disciplina imperiale, appena sentì la profondità della ferita recatale da quel colpo diritto, seppe e potè correre ai ripari e con tanta energia e prontezza e sicurezza riaffermò i diritti non solo suoi ma dell’ordine e della compagine sociale contro quel localismo comunale e quell’insolente indisciplina germanica che allora non salvò soltanto sè stessa ma l’idea dello Stato. Riuscì perfino a crearsi in pochi anni un’arte di governo, per questo scopo: dalla pittura bolognese caraccesca all’architettura barocca. La Controriforma fu così la ragione vitale della Chiesa romana per tutta la seconda metà del cinquecento e per tutto il seicento; e talvolta parve soffocare e isterilire tutto quel che di romano e di universale era nella chiesa cattolica, tanto i nostri nemici sono sempre i nostri padroni.
Dalla Riforma in qua l’opera di ogni principe tedesco, di ogni re tedesco, di ogni statista tedesco che abbia voluto la forza della Germania, che abbia voluto cioè condurre l’ordine latino e romano e imperiale nel caos medievale e feudale in cui la Riforma luterana, passando dalla religione alla politica, lottando con Carlo V imperatore dopo aver lottato col papa, lasciò dopo la pace d’Augusta la Germania, è stata opera di Controriforma, cioè di disciplina sociale. Quando da mezza Europa venivano espulsi i gesuiti, i pretoriani cioè del Vaticano, Federico II, il fondatore dello Stato di Prussia, li accoglieva benigno come un salvatore, anche per imparare da essi a governare.
Egli imparò. Ma il suo popolo... Per vedere quanto, nonostante le apparenze, nonostante la superficiale ammirazione dei nostri dilettanti di reazione, il popolo tedesco sia rimasto quello che era ai tempi della Riforma, basta confrontare il passo del Machiavelli citato più su con questo (il confronto è onorevole) del principe di Bülow: «Al tedesco fa difetto il senso politico. I popoli dotati di senso politico premettono scientemente o piuttosto istintivamente, al momento opportuno, anche senza la pressione della necessità, gl’interessi nazionali pubblici alle mire e ai desideri particolari. È nel carattere tedesco di esercitare generalmente l’attività in particolare, di subordinare l’interesse di tutti a quello particolare, più piccino e più imminente. È ciò che Goethe constatava con la sua massima crudele spesso ripetuta: essere il tedesco valente in particolare, miserabile nel suo complesso». (La Germania imperiale, p. 134, Milano, Treves, 1914).
Il Romanticismo tedesco.
Il Romanticismo è la tipica arte d’un popolo che non ha avuto il Rinascimento. Quell’individualismo soddisfatto e licenzioso che era una degenerazione del libero esame luterano e che corrispondeva al particolarismo politico degli staterelli germanici e all’anarchia feudale riconsacrata a metà del seicento dal Trattato di Vestfalia, rimaneva sempre alla fine del settecento il precipuo carattere dell’anima e della civiltà tedesca. Quando Federico II che aveva imparato sotto Eugenio di Savoja il mestiere dell’armi e da Machiavelli e da Colbert la scienza del governo e la teoria della Ragione di Stato e nella cultura francese e italiana, da Voltaire ad Algarotti, aveva rinfrescato ed aguzzato il suo spirito alacre ed audace, fa sentire il peso d'una volontà accentratrice e chiede obbedienza, concordia ed abnegazione, quell’egoismo scoppia come un uragano, come un delirio. Sturm und Drang, Uragano ed Impeto, si chiamerà allora il primo movimento poetico tipicamente anarchico e tedesco, prendendo il suo nome da una noiosa e presuntuosa tragedia di Massimiliano Klinger rappresentata nel 1776. Sfrenato, stravagante, pazzesco, amorale, tutto orgoglio e ostentazione, questo movimento da cui uscì il Romanticismo tedesco, rivendica con un fare (oggi si direbbe) da futurista i diritti dell’originalità contro le convenzioni sociali e le leggi morali, i diritti dell’avvenire contro il passato, il diritto dell’istinto e della passione contro la ragione. E Federico il Grande gli si pone subito contro, scrive addirittura un libro sulla letteratura tedesca per provare che non c’è letteratura tedesca, e che perfino il Goetz von Berlichingen del giovane Goethe è una povera imitazione del barbaro Shakespeare.
Ma la fonte più copiosa di tutto il torrente romantico scende di Francia, è l’opera di Rousseau. Nel Discorso sull’origine dell’ineguaglianza, nell’Emile, nella Nouvelle Heloise si ritrovano tutti gli spunti dello Sturm und Drang e poi del romanticismo tedesco: l’idea dell’uomo corrotto dalla società, l’idea della bontà e della felicità dell’uomo primitivo in confronto all’uomo sociale, i danni dell’educazione, l’origine iniqua della giustizia. E i tedeschi allora e poi lo dichiararono senza ambagi. Herder allora chiama Rousseau il suo santo e il suo profeta. Kant dichiara che Rousseau lo ha scosso dal sonno dogmatico.
A questi elementi stranieri già fissati in opere definitive e, si può dire, immortali, che aggiunsero allora gli scrittori tedeschi?
Sarebbe ingiusto dire che aggiunsero solo l’enfasi, perchè a quelle teorie credettero e si abbandonarono con tanto candore tedesco che dalla loro stessa sincerità il movimento, se molto acquistò di ridicolo, anche molto acquistò d’impeto, e in taluni, come Novalis, di profondità. I più si sforzarono a vivere (ed era più facile) come scrivevano. Qualcuno come il Lenz finisce in manicomio. Herder per tutta la vita è sotto l’incubo della persecuzione. Il giovane Goethe, coi fratelli Stolberg suoi compagni allora nello Sturm und Drang, passando da Darmstadt si bagna ignudo davanti alla popolazione spaventata. A Elberfeld si mette a danzare intorno alla tavola dell’albergo, gli occhi fuori della testa, mentre i presenti fuggono chè lo credono impazzito. Ah, signori, solo a leggere la storia aneddotica di quel gruppo letterario in quelli anni e a leggere le loro opere ampollose confuse e dissennate, si può intendere il grido di Goethe: — Quando io finalmente giunsi a Roma, credetti di nascere per la seconda volta.
Ma ancora oggi nella immane e tragica crisi del mondo tedesco, l’ostentazione, la violenza, la convinzione del proprio genio e della propria superiorità sui filistei del resto del mondo, l’impeto preferito alla grazia, la forza preferita alla giustizia, la quantità preferita alla qualità, tutte le qualità che furono caratteristiche di quei poeti, noi le ritroviamo, dopo più d’un secolo, intatte, scoppiate con la febbre su dalle abitudini sociali di civiltà, di tolleranza, di misura. Nietzsche si riattacca a loro, pur pulito e raffinato nel suo sarcasmo imperioso dalla sua origine slava e da un secolo di civiltà non tedesca ma europea. La stessa venerazione pel militarismo, la stessa concezione che il soldato è un uomo superiore a tutti gli uomini, se guardate nel fondo, è una concezione medievale e innaturale ormai ad ogni altra nazione d’Europa, (l’Austria non è una nazione) ma anche è una concezione morale superstite del più tempestoso e scapigliato romanticismo. Vivere la propria vita, viverla in libertà, contro tutti gli ostacoli, essere così forte da vincere d’un sol colpo questi ostacoli, usar la propria forza senza limiti di leggi, di convenzioni, di trattati: questo è un ideale che solo in guerra può diventare pratico e reale. La disciplina e l’obbedienza non servono che a rendere più gonfio e tremendo il torrente fino al momento in cui gli argini si devono abbattere. E guai a chi incontra la fiumana. Diceva in un suo discorso del 18 marzo 1895 l’imperatore Guglielmo II alle reclute: — Voi portate l’abito dell’Imperatore. Voi siete dunque diventati superiori agli altri uomini. — 1895. Non è questa frase piuttosto del 1195 o del 1295?
È stato ripetuto fino alla sazietà che prima lo Sturm und Drang, poi il Romanticismo che lo moderò e lo addolcì e ne mutò l’uragano in un sospiro, rappresentarono il trionfo dell’idealismo non solo sul vecchio materialismo tedesco ma su tutta l’Europa. È strano che questo si dica d’un movimento, ben chiuso nei confini d’una razza, d’un movimento di cui l’eco soltanto si diffuse fuori dopo la Rivoluzione francese. Che cosa è questo idealismo al confronto di quello che sollevò la Rivoluzione francese per la salvezza e la libertà, non della Francia sola, ma di tutto il mondo civile, a cominciar dell’Italia? Che cosa sarebbe stato senza la Rivoluzione francese il Romanticismo tedesco? L’idealismo letterario tedesco si tradusse in pratica fuori di Germania in un semplice e dolciastro e lagrimoso sentimentalismo del quale tanti esempi, dal Grossi all’Aleardi, abbiamo veduto anche da noi per la delizia serale delle nostre nonne. Madame de Staël nel suo famoso libro sulla Germania cominciato in odio a Napoleone che non s’era lasciato sedurre da quella pinguedine letterata, scrive: «I tedeschi considerano il sentimento come il fatto primitivo dell’anima, e la ragione filosofica come adatta soltanto a ricercare il significato del sentimento».
La ragione filosofica fu adatta a ben altro in Germania. Essa rappresenta il vero idealismo tedesco, lo sforzo più alto che forse abbia mai fatto l’umanità per scalare il cielo. Ma non ebbe mai nessun effetto sul costume, e, se ne ebbe qualcuno sulle arti, massime sulla più astratta e più pura delle arti, sulla musica, non riuscì nemmeno attraverso ad esse a toccar la vita reale e le norme morali. Fu un altro cielo: ma in questo nuovo cielo metafisico il sole non ha nessun calore.
Solo i filosofi inglesi hanno saputo ricondurre i principii morali aprioristici all’esperienza individuale e sociale. Perciò del più puro e persuasivo dei filosofi tedeschi, di Hegel, diceva Renan «che ci si doveva contentare di farne un’infusione: è un tè eccellente ma non bisogna masticarne le foglie». I nostri hegeliani non sono stati così prudenti.
La Musica tedesca.
Ho accennato alla musica. Solo parlando di musica tedesca, si potrebbe meglio che con qualunque altro argomento provare la mia tesi. L’arte musicale tedesca, fino a tutto il romanticismo, è sempre di derivazione italiana. Due eccezioni si possono fare a questa regola: la canzone medievale dei Minne-Sänger e, in parte, l’opera musicale chiesastica che ha il suo fiore più alto in Giovanni Sebastiano Bach e che intende esaltare il carattere antilatino del Corale luterano. L’arte polifonica vocale e l’arte organistica dei tedeschi arriva ben in ritardo non solo sulla trecentesca Ars nova fiorentina, ma anche sui grandi polifonisti italiani di Venezia e di Roma; e il suo sviluppo è dovuto all’Isaak che fu alla corte di Lorenzo il Magnifico, allo Schütz che fu a Venezia scolaro di Giovanni Gabrieli, al Kerl che studiò a Roma col Carissimi, al Froberger che, anche a Roma, studiò col Frescobaldi. E lo stesso Schütz che nel 1627 compose la musica per la Dafne del Rinuccini già musicata dal Peri trent’anni prima, non seguì le norme estetiche dei fiorentini della «Camerata»? Hasse che è il capo degli operisti tedeschi tra la fine del ’600 e i primi del ’700, è addirittura un maestro della scuola napoletana, della scuola del Porpora e dello Scarlatti. Mozart è italiano, non solo d’educazione ma d’anima. E la sinfonia di Haydn è posteriore alla sinfonia del Sanmartini e alla ouverture dello Scarlatti. Anche qui, anche qui bisogna arrivare ai romantici. Beethoven è il primo e il vero e incomparabile musicista tedesco, ma anch’egli è partito dall’adorazione pei sonatisti italiani e pel Cherubini, e solo più tardi è giunto all’impeto, alla fantasia, all’emozione dei grandi romantici, così da dominare tutta la pleiade romantica dei musicisti tedeschi, Weber, Schubert, Schumann, e la loro intimità quasi confidenziale e la loro passione che sembra nostalgia verso una pace e una serenità cui sentono che la loro razza tende ancora invano.
Goethe a Roma.
Goethe non capì Beethoven. Una volta glielo disse in faccia, tranquillamente. Goethe s’era straniato dai compagni romantici e scapigliati della sua gioventù per venire verso noi e verso Roma. Ha trentasett’anni quando viene a Roma. Parte dalla Germania sotto un finto nome, senza salutar nessuno, senza indicare dove va, e arriva a Roma il primo novembre 1786. Il deliberato proposito di quella cura per ridare al suo spirito una seconda giovinezza nel contatto di Roma, appare dalla prima lettera che scrive, appena giunto, ai suoi amici di Weimar: «Solo quando ho veduto tutti voi incatenati corpo e anima al nostro settentrione, quando ho veduto che non facevate più nemmeno un’allusione a questi paesi, solo allora mi son risoluto a fare questo lungo viaggio solitario per cercare il centro verso il quale un bisogno irresistibile mi spingeva. In questi ultimi anni questo bisogno era divenuto una specie di malattia dalla quale solo la vista e la presenza reale di Roma potevano guarirmi. E solo adesso qui a Roma, i miei amici e il mio paese mi ridiventano cari e il ritorno desiderabile: tanto più desiderabile perchè so che tutti questi tesori non li riporterò in patria per me solo ma che essi saranno per me e per gli altri, attraverso a tutta la vita, una direzione e uno stimolo.» E poco dopo scrive: «Ora son qui tranquillo e pacificato, spero, per tutta la vita.» E ancora più esattamente: «Lo spirito qui a Roma giunge a una serietà senza aridità, a una specie di calma mista di gioia.»
Ma bisognerebbe rileggere tutto il suo Viaggio in Italia per vedere il miracolo che Goethe osò sperare e in parte seppe ottenere con quel suo viaggio; che poi, anche quando il suo corpo fu tornato in Germania, continuò pel suo spirito, si può dire, tutta la vita. Il miracolo fu di compiere su sè stesso per forza di desiderio e di volontà quella prova e quel rinnovamento che, in ritardo di più che trecento anni, lo spirito tedesco non aveva ancora saputo o potuto compiere: il Rinascimento, — far cioè risorgere non solo fuori di noi ma dentro di noi per forza di dottrina e d’amore l’antichità classica greca e romana e il suo ordine sereno ed eterno, — spingere in un esilio volontario dalla propria angusta patria, Weimar per Goethe o magari Firenze per Dante, la propria anima a quella concezione libera e umana che fece esclamare a Dante la sua patria essere il mondo, e che fece ripetere a Goethe cinque secoli dopo la stessa parola, — trovar la bellezza nell’armonia, nella proporzione, nella misura, — raggiungere insomma quell’universalità olimpica e quell’ordine sereno e durevole e quasi divino che è proprio, non certo della vita quotidiana di noi latini, ma delle opere tipiche e somme del genio latino, e che prima e dopo Volfango Goethe è stato ed è ignoto alla letteratura, all’arte, alla politica tedesca.
Prima la teoria, poi Parte.
Certo questo gigantesco sforzo di Goethe, per fare con atto di deliberata volontà individuale in pochi anni quello che in quattro o cinque secoli il suo popolo non aveva potuto fare, porta in sè qualcosa che contrasta alla tranquilla e pacata anima classica. E Goethe soltanto riuscì a compierlo sorridendo, e non ebbe nè imitatori nè seguaci per la buona ragione che nessuno potè ripetere quello sforzo senza rivelare l’ostinazione esagerata, fastidiosa e professorale di quel proposito, — che nessuno potè ristabilire l’armonia fra quel che era prima e quel che tentava d’essere dopo, tra il tedesco e il latino, tra il medioevo e il Rinascimento.
Prima e dopo Goethe tutti quei tentativi o restarono sterili o durarono poco. Peggio: creare prima la teoria e poi la pratica come fece Winckelmann per tutte le arti, come fece Lessing pel teatro, come fecero per la pittura in pieno ottocento i Puristi o Nazareni tedeschi (gli scarponi, come li chiamavano a Roma) proponendo la metodica imitazione dei predecessori di Raffaello per riuscire a dipingere come Raffaello, fu il malanno più grave di quasi tutta la critica e l’arte tedesca da allora, la prima causa della sua oscurità presuntuosa, delle sue lungaggini intollerabili. E sembrano giustificate le dure parole di Ippolito Taine: «V’è un controsenso continuo e troppo ridicolo nella storia di tutta questa letteratura: fabbricare un’arte per mezzo d’un’estetica preconcetta».
Lo stesso Wagner è stato infermo di questa malattia, e la teoria preposta alla creazione artistica ha spesso diminuito la spontaneità geniale della sua ispirazione, ha inaridito spesso l’umanità della sua emozione, ha trasformato in simboli tanti suoi personaggi, in ripetuti ragionamenti tanta parte della sua musica. Par quasi che Stendhal pensi profeticamente all’arte di lui quando nel 1827 stando a Padova scriveva dei tedeschi: «Sono un popolo buono, pesante e lento che non può essere messo in movimento che da qualche impulsione violenta e sovente ripetuta». Ma Wagner è ancora della statura dei genii. E, come per godere Dante basta anche fermarci all’interpretazione letterale senza risalire alle allegorie e alle analogie, così per goder Wagner ci basta anche, non sempre, ascoltarlo senza chiedere ai motivi direttivi la spiegazione logica dell’emozione estetica. Dopo lui la musica tedesca, Strauss, Mahler, Reger, si fa sempre più premeditata e razionale, e quanto acquista in volontà e in deliberato proposito, tanto perde in forza di commozione e di convinzione.
Per tornare a noi italiani, — quando l’equivoco del così detto Romanticismo italiano fu sciolto, — quando del Romanticismo tedesco venuto del resto allo stesso Manzoni più attraverso la Francia che direttamente, niente rimase fuori del nome e di qualche tema comune, — quando la stessa adorazione tedesca pel medioevo cristiano diventò qui un rinnovamento di venerazione pel cattolicismo romano e antiluterano, — quando (per ripetere le parole di Francesco de Sanctis) noi ritrovammo una coscienza politica, il senso cioè del limite e del possibile e del verosimile, — quando e la rettorica degli ultimi classicheggianti tanto romantici e la declamazione degli ultimi romantici tanto accademici cedettero tutte e due davanti al bisogno nazionale di una letteratura italiana e moderna, — quando il carattere nostro e le nostre tradizioni letterarie ci obbligarono a ricongiungersi, dopo la tempesta, alla naturalezza di Goldoni e alla temperanza di Parini, come vent’anni dopo le nostre tradizioni pittoriche ci fecero ritrovare l’aria aperta e la spontaneità d’osservazione d’un Tiepolo o di un Guardi, — allora si potè dire che ci eravamo liberati da ogni contagio d’oltr’alpe. E più della Francia in questa liberazione, se si considerano i nostri così detti romantici, dal Foscolo al Manzoni, la letteratura inglese ci aiutò meglio della letteratura francese.
Da allora l’arte e la letteratura tedesche non poterono più avere nessun influsso sull’arte e sulla letteratura nostra. Poeti, romanzieri e drammaturghi, francesi, inglesi, russi, scandinavi, influirono sui nostri scrittori più o meno profondamente. Tedeschi, nessuno, anche per la buona ragione che l’arte e la letteratura tedesca del secolo scorso, dalle altezze di Lessing, di Goethe, di Schiller, si ridusse a una statura che non è oggi il caso di misurare.
Il male tedesco nelle scuole italiane. |
Ma finito, più per fiacchezza sua che per forza nostra, ogni influsso tedesco nelle lettere e nelle arti italiane, ecco dopo la nuova vittoria, dopo il 1870, l’invasione tedesca dilagare nelle nostre scuole. E il danno è stato mille volte più grave perchè il male straniero qui ha attaccato le radici stesse dell’intelligenza e del gusto.
Infatti il primo effetto della cultura tedesca e del metodo tedesco nelle scuole è stato di togliere alle lettere e alla scuola classica ogni possibilità d’informare tutta la cultura anche tecnica dello studente, ogni possibilità di creare l’uomo. L’erudizione e la scienza sono state sostituite all’umanità (era questo il nome delle stesse scuole italiane) e hanno ridotto tutto, la stessa storia politica, la stessa storia delle lettere e delle arti, a un cumulo di materiali ottimi spesso e solidi ma privi d’architettura e di sintesi e di forza attiva. Oggi la tradizione italiana e umanistica della scuola che era educazione e insieme istruzione, è finita. La scuola oggi istruisce e non educa, obbliga a capire senza sentire, a studiare senza godere, a cercare senza raggiungere, a sapere senza vivere, peggio a imparare per dimenticare. Guardate i vostri alunni, professori: hanno studiato per otto, dieci, dodici anni il latino o il greco e non lo parlano e non lo leggono. Intendo dire che non lo leggono per amore e per capriccio, ma solo per dovere e per studio, oggi dieci versi, domani altri dieci. Che dico? Non leggono nemmeno gli autori italiani, i classici aborriti.
Il conforto, l’ammaestramento, la disciplina, la norma che da quelli scrittori eterni e dalla loro esperienza, dai loro sogni, dai loro dubbi, dalla loro saggezza, dalla loro conoscenza della vita e dell’uomo essi dovevano trarre per la loro vita intima e silenziosa, per stabilire in sè stessi un equilibrio durevole tra volontà e sensibilità, tra intelligenza e fantasia, tutto è, per colpa di questi metodi stranieri, perduto. I professori espongono, non giudicano; e gli scolari escono dalle università credendo inutile o pericoloso il giudizio, cioè il gusto. Tra l’arte e loro è una barriera. Anzi spesso odiano l’arte, stanchi, chè nessuno ha mai detto loro che una poesia o un quadro sono individui vivi, prossimo loro, spirito del loro spirito. L’arte è tutt’al più un documento, e i documenti sono un’opportuna materia di tesi. Testi senza errori, bibliografie senza lacune, monografie senza divagazioni: ecco le norme. E così la cultura è stata posta nel luogo della civiltà, la specialità nel luogo del gusto, l’intellettualismo nel luogo dell’intelligenza, la sapienza nel luogo del buon senso e spesso del senso comune. Le università italiane devono ormai per quattro quinti tutto alla Germania. L’università italiana oggi è una colonia tedesca. E in questi giorni di guerra la Germania ci conta e, da quel che ci narrano ogni mattina e ogni sera i giornali, ha ragione di contarci. Alla fine della guerra certi nostri professori saranno pagati in recensioni contanti.
Si badi. Le Università tedesche sono cento volte migliori delle nostre, o almeno lo erano fino a vent’anni fa, e molti di questi danni ce li siamo fabbricati noi stessi esagerando e snaturando il buon esempio germanico. L’enorme continuo arduo sforzo di ricerca, lo spirito di disinteresse spinto fino all’eroismo, il senso della curiosità equanime ed universale erano le doti delle Università tedesche, e si trasmettevano dal maestro allo studente con entusiasmo crescente. Ma anche in quei tempi gloriosi delle Università tedesche noi non sapevamo, imitandone i metodi, emularne e correggerne i risultati. Anzi questi risultati accettavamo dai tedeschi, belli e fatti, e continuavamo a lavorarci su come fossero verità rivelate, anche quando i professori tedeschi di storia che facevano sempre e dovunque della storia tedesca, cioè a vantaggio e ad esaltazione dei tedeschi, ci narravano, ad esempio, che i popoli germanici avevano suscitato i Comuni italiani, che gl’invasori barbarici dal settentrione avevano portata nella corrottissima Italia nientemeno che la virtù. Noi leggevamo, schedavamo, e credevamo in ginocchio.
La cultura utilitaria.
Nel 1889 l’imperatore Guglielmo, appena salito al trono, tenne un discorso contro la scuola classica che fu uno dei suoi primi atti d’impero. In quel discorso proclamò la necessità di rendere più pratica e più particolarmente tedesca la scuola, si scagliò contro il proletariato dei laureati inutili, giurò che non avrebbe più permesso la fondazione di un solo ginnasio-liceo senza ragioni evidentissime di urgenza, e dichiarò che « bisognava prendere misure tecniche e pedagogiche per educare la gioventù tedesca perchè essa finalmente rispondesse alla situazione della patria nel mondo e fosse capace di vincere le lotte per la vita». La parola imperiale fu, al solito, udita anche in Italia, e la praticità più gretta ed immediata delle scuole secondarie anche classiche diventò subito il tema di discussioni, di circolari, di provvedimenti, meglio di rabberciamenti che ridussero quelle scuole ad essere quel che sono, cioè peggiori di quel che sono mai state.
Ma anche in Germania da quelli anni cominciarono l’utilitarismo e l’industrialismo a dominare e regolare non solo le scuole secondarie ma anche le Università e i laboratorii scientifici; e cominciò la decadenza degli studii filosofici. L’uomo speculativo fu così separato dall’uomo pratico. Il grande sforzo della cultura filosofica tedesca la quale da un secolo aveva intuito essere quello uno dei più gravi pericoli non solo pel cervello ma per la stessa coscienza della razza, fu quasi annientato.
L’Università tedesca diventò così uno strumento dell’Impero, anzi dell’imperialismo tedesco e della conquista tedesca. E poiché è proprio dei professori fabbricare teorie, anche le teorie furono da questi ottimi impiegati fabbricate sul comando del governo centrale.
La razza superiore e Il Pangermanismo. |
Prima, la teoria della razza superiore. A metà dell’ottocento il conte Gobineau l’aveva inventata, predicando che dagli Ariani virtuosi e forti discendevano in linea retta solo i Germani virtuosissimi e fortissimi col còmpito, assegnato loro da Dio, di ridar vita a noi poveri latini non solo mescolando il loro ricco rosso ardente
sangue al nostro languido sangue ma, sempre la Dio mercè, dirigendoci cioè governandoci cioè conquistandoci. Al Gobineau credette lì per lì qualche artista. Gli credette anche Wagner, s’intende.
Poi al soccorso di quelle fantasie cominciò ad accorrere la scienza tedesca, prima l’antropologia col Woltmann il quale stabilì una corrispondenza, diceva, precisa e infallibile tra i caratteri del corpo e quelli dell’anima. Il linguaggio si fece solenne e dottorale. Gli uomini più alti col più grande cranio, con la dolicocefalia frontale e il colorito chiaro e i capelli biondi, i popoli cioè germanici, diventarono i più perfetti rappresentanti del genere umano, della sua estrema evoluzione. Gli uomini di genio e i dominatori secondo l’intrepido Woltmann, erano tutti alti biondi dolicocefali, compreso Gesù Cristo. Se Napoleone, Voltaire, Kant erano bassi ed erano bruni, ci si salvava col colore degli occhi e con l’indice cefalico. Tutti i busti dei Cesari in Campidoglio mostravano il tipo germanico nel cranio e nella faccia. Non vi dico dove arrivassero il Woltmann e poi il Chamberlain, inglese intedeschito, e poi gli altri loro infiniti seguaci che in questi giorni di febbre lanciano sul mondo da Berlino o da Lipsia, da Norimberga o da Francoforte, i loro messaggi messianici destinati a salvare il mondo conquistandolo tutto, civilizzandolo tutto come hanno già fatto in pochi giorni col Belgio. Da Socrate a Richelieu, da Shakespeare a Cervantes, da Giulio Cesare a Napoleone, da Milton a Voltaire, tutti germanici pel bene dell’umanità. Fra gl’italiani poi fecero strage: Dante, Leonardo, Galileo, Michelangelo, tutti puri tedeschi nati per caso in questa misera Italia.
La vittoria del 1870 fu una prova, per loro, della loro meravigliosa teoria. I vecchi maestri della antica e libera e pura Università tedesca protestavano, primo il Mommse avvertendo senza ambagi «che anche noi tedeschi abbiamo i nostri pazzi nazionali e si chiamano pangermanisti i quali sostituiscono all’Adamo comune un loro speciale Adamo germanico che in sè riunisce tutte le doti dello spirito umano». Ma da noi poche proteste. Tanta era ormai la nostra beata schiavitù universitaria che perfino il Carducci acconsentì a regalare a Dante padre un poco del divino sangue germanico «il quale sangue gli colò per avventura nelle vene dalla donna che venne a Cacciaguida da val di Po».
Ma lassù i politici attenti a cementare la Confederazione con ogni mezzo anche con le utopie, portarono sul trono le cosidette teorie di quei professori. Guglielmo secondo dichiarò libri santi i libri di Gobineau e di Chamberlain sulla supremazia della divina razza germanica. E l’idea del Sacro Romano Impero della Nazione Germanica fece di quelle teorie e di quel bluff i suoi diplomi di nobiltà per avviarsi, nei discorsi, alla conquista del globo. I socialisti, i maggiori socialisti, acconsentivano già in sordina chè niente è stato tanto ingenuo quanto la nostra meraviglia per la loro immediata adesione alla guerra dell’egemonia tedesca. Bastava ricordare il disprezzo continuo e metodico di Carlo Marx per Proudhon e pei socialisti francesi. Bastava nelle ultime pagine della Donna e il Socialismo di Bebel rileggere l’imperialistica affermazione che il socialismo come forma di società dell’avvenire è stato fondato dai tedeschi e che l’avvenire del mondo appartiene a questo socialismo tedesco, — per prevedere quell’adesione entusiastica.
Nel 1911, nel cinquantenario del nostro giovane e pavido Regno, il Reimer autore della Germania pangermanista riassunse tutte quelle teorie dichiarando che la razza germanica è la più nobile e la più capace d’assicurare la felicità dell'umanità, e perciò tutti gli altri popoli devono cederle il posto darle cioè più spazio, a cominciare, s’intende, dalle nazioni più vicine, Francia, Austria, Italia, Scandinavia, Olanda la quale, tedesca d’origine, si accomoderà più facilmente al dominio teutonico. Questo scopo lo si può raggiungere, secondo il buon Reimer, con la forza: ma perchè il progresso della prima razza del mondo sia durevole, bisognerà anche distruggere le altre razze, tutti, cioè i brachicefali di testa poco sviluppata e di essenza inferiore, distruggerle condannandole alla sterilità. Propositi fanciulleschi che sarebbe inutile perdere tempo a riassumere se, appena scoppiata questa guerra lo stesso Guglielmo secondo non li avesse un’altra volta clamorosamente fatti suoi, promettendo ai suoi soldati, socialisti compresi, precisamente «un nuovo Sacro Romano Impero della nazione germanica che sarà più bello di tutti quelli che la storia ha veduti, e che governerà il mondo».
La Patria attiva.
Risalendo velocemente e perciò in un modo troppo saltuario ed elementare il corso della storia, io ho voluto mostrare perchè la civiltà tedesca sia rimasta fatalmente antilatina e inconciliabile con la civiltà nostra, ma più ho voluto provare che ad essa, pur tanto fresca audace e impetuosa, manca e mancherà sempre quel carattere di universalità che sola potrebbe garantire alle ambizioni tedesche d’impero una probabilità di attuazione e di durata, quel carattere di universalità che tutte le rivoluzioni latine, pacifiche come quella del Rinascimento umanistico e classico, violente come la Rivoluzione francese pei Diritti dell’Uomo, hanno ormai provato di possedere.
Ma lo spettacolo d’unione e di ebbrezza eroica che fino ad oggi ci dà la Germania anche se quest’unione e quest’ebbrezza son partite da un’utopia medievale, sorpassata e, per fortuna, ormai irraggiungibile, ci deve far anche sentire che non si può concepire la patria nel senso puramente materiale di quello che è, e accontentarsi che, bene o male, compiuta o incompiuta, resti quello che è. Nessuna utopia d’impero, per noi, nessuna utopia di conquista oltre quello che è nostro. Ma l’Italia senta almeno che la sua civiltà secolare e universale è qualcosa di vivo e d’attivo, qualcosa che la fa non un cumulo di rovine e una somma di contribuenti, ma una forza continua e propulsiva, singolare e immortale, la quale, se il dominio straniero non ha per secoli potuto nè annullarla nè a lungo contaminarla, oggi che l’Italia esiste, dovrebbe essere non più fiacca e più incerta che ai tempi della schiavitù, ma più tesa e più limpida, e non solo, pel bene degli italiani, ma pel bene dell’umanità la quale senza questa nostra forza, senza questa nostra civiltà, non sarebbe in nessun punto del vasto mondo quello che oggi è. Lo vedete: anche i sogni d’impero vanno agli altri da noi e dalla civiltà nostra, col nome romano. Proprio noi dobbiamo da questa civiltà non trarre più altro che la rassegnazione dell’inerzia, lo sconforto del dubbio, la speranza di qualche elemosina?
- ↑ Vedi la mia risposta a una Enquéte sur l’influence allemande (Paris, ed. Mercure de France, 1903).