Ottavio Rinuccini

XVI secolo Letteratura Dafne Intestazione 12 gennaio 2014 25% letteratura

INTERLOCUTORI

OVIDIO, che fa il prologo.

VENERE.

AMORE.

APOLLO.

DAFNE.

NUNZIO.

Coro di Ninfe, e Pastori.



P R O L O G O

Scena unica
OVIDIO
Da’ fortunati campi, ove immortali
godonsi all’ombra de’ frondosi mirti
i graditi dal ciel felici spirti,
mostromi in questa notte a voi mortali.
Quel mi son io, che su la dotta lira
cantai le fiamme celesti de’ celesti amanti
e i trasformati lor vari sembianti
soave sì, ch’il mondo ancor m’ammira.
Indi l’arte insegnai come si deste,
in un gelato sen fiamma d’amore,
e come in libertà ritorni un core
cui son d’amor le fiamme aspre, e moleste.
Ma qual par che tra l’ombre, e ’l ciel rischiari
nova luce, e splendor di rai celesti
qual maestà vegg’io? Son forse questi
gl’eccelsi augusti miei felici, e chiari?
Ah riconosco io ben l’alta regina
gloria, e splendor de’ lotaringi regi
il cui nome immortal gl’alteri fregi
celebra ’l mondo, e ’l nobil Arno inchina.
Seguendo di giovar l’antico stile
con chiaro esempio a dimostravi piglio
quanto sia donne, e cavalier periglio
la potenza d’amor recarsi a vile.
Vedrete lagrimar quel dio ch’in cielo
reca in bel carro d’or la luce, e ’l giorno,
e dell’amata ninfa il lume adorno
adorar dentro al trasformato stelo.


A T T O U N I C O
Scena unica

CORO Tra queste ombre segrete
s’inselva e si nasconde
l’orrida belva; cauti ’l piè movete
ninfe e pastori, ah non scotete fronda.

PASTORI Dunque senza timor, senza spavento
pe’ nostri dolci campi
non guiderem mai più gregge od armento?

CORO Giove immortal, che tra baleni e lampi
scoti la terra, e ’l cielo,
mandane o fiamma, o telo
che da mostro sì rio n’affidi, e scampi.

NINFA E quando mai per queste piagge e quelle
fronda corremo o fiore,
misere verginelle;
che di terror non ci si agghiacci ’l core?

CORO Ebbra di sangue in questo oscuro bosco
giacea pur dianzi la terribil fera.

ECO Era.

CORO Dunque più non attosca
nostre belle campagne altrove è gita?

ECO Ita.

CORO Farà ritorno più per questi poggi?

ECO Oggi.

CORO Ohimè chi n’assicura
s’oggi tornar pur deve il mostro rio?

ECO Io.

CORO Chi sei tu che ne assicuri, e ne console?

ECO Sole.

CORO Il sol tu sei? Tu sei di Delo il dio?

ECO Dio.

CORO Hai l’arco teco per ferirlo Apollo?

ECO Hollo.

CORO S’hai l’arco tuo saetta infin che mora
questo mostro crudel, che ne dimora.

Qui Apollo mette mano all’arco e saetta il Fitone.

APOLLO Poi giacque estinto al fine
in sul terren sanguigno
dall’invitt’arco mio l’angue maligno
securi itene al bosco
ninfe, e pastori, ite securi al prato.
Non più fiamma, e tosco
infetta ’l puro ciel l’orribil fiato
tornin le belle rose
ne le guance amorose
torni tranquillo il cor sereno ’l volto
io l’alma, e ’l fiato al crudo serpe ho tolto.

CORO
Almo dio, che ’l carro ardente
per lo ciel volgendo intorno
vesti ’l dì d’un aureo manto;
se tra l’ombra orrida algente
splend’il ciel di lume adorno
è pur tua la gloria, e il vanto.
Se germoglian frondi, e fiori
selve, e prati, e rinovella
l’ampia terra il suo bel manto,
se de’ suoi dolci tesori
ogni pianta si fa bella
è pur tua la gloria, e il vanto.
Per te vive, e per te gode
quanto scerne occhio mortale
o rettor del carro eterno
ma si taccia ogn’altra lode
sol de l’arco, e de lo strale
voli il grido al ciel superno.
Nobil vanto il fier dragone
di velen, di fiamme armato
sul terren versat’ha l’alma
per trecciar fregi e corone
al bel crin di raggi ornato
qual fia degno edera, o palma?

AMORE Che tu vada cercando o giglio, o rosa
per infiorarti i crini,
non ti vo’ creder, no, madre vezzosa.

VENERE Che cerco dunque o figlio?

AMORE Rosa non già, né giglio.
Cerchi d’Adone, o d’altro vieppiù bello
leggiadro pastorello

VENERE Ah tristo, tristo! Ecco ’l signor di Delo;
pe’ boschi oggi se n’ van gli dèi del cielo.

APOLLO Dimmi possente arciero
qual fera attendi, o qual serpente al varco
ch’hai la faretra, e l’arco?

AMORE Se da quest’arco mio
non fu Fitone ucciso,
arcier non son però degno di riso
e son del cielo Apollo un nume anch’io.

APOLLO Sollo, ma quando scocchi
l’arco, sbendi tu gl’occhi
o ferisci all’oscuro arciero esperto?

VENERE S’hai di saper desio
d’un cieco arcier le prove
chiedilo al re dell’onde
chiedilo in cielo a Giove
e tra l’ombre profonde
del regno orrido oscuro
chiedi, chiedi a Pluton s’ei fu sicuro?

APOLLO S’in cielo, in mare, in terra
amor trionfi in guerra
dove, dove m’ascondo
chi novo ciel mi insegna, o novo mondo?

AMORE So ben che non paventi
la forza d’un fanciullo
saettator di mostri, e di serpenti.
Ma prendi pur di me gioco, e trastullo.

APOLLO Ah tu t’adiri a torto,
o mi perdona Amore
o, se mi vuoi ferir risparmia ’l core.

VENERE Vedrai che grave rischio è scherzar seco
ben ch’ei sia pargoletto ignudo, e cieco.

AMORE S’in quel superbo core
non fo piaga mortale
più tuo figlio non son, non son Amore.

VENERE Amato pargoletto
come giust’ira, e sdegno
oggi t’infiamma il petto
sì spero al nostro regno
veder l’altero dio servo, e suggetto.

AMORE Non avrò posa mai, non avrò pace
fin ch’io no ’l vegga lagrimar ferito
da quell’arco schernito
madre ben mi dispiace
di lasciarti soletta,
ma toglie assai d’onor tarda vendetta.

VENERE Vanne pur lieto, o figlio
lieta rimango anch’io,
che troppo è gran periglio
averti irato a canto
per queste selve intanto
farò dolce soggiorno;
poscia faremo insieme al ciel ritorno.

VENERE
Chi da’ lacci d’Amor vive disciolto
della sua libertà goda pur lieto,
superbo no’ d’oscura nube involto
stassi per noi del ciel l’alto decreto;
s’or non senti d’Amor poco né molto,
avrai dimani il cor turbato, e ’nqueto,
e signor proverai crudo, e severo
Amor, che dianzi disprezzasti altero.

CORO
Nudo arcier, che l’arco tendi,
che velat’ambe le ciglia
ammirabil meraviglia,
mortalmente i cori offendi
se così t’infiammi, e ’ncendi
verso un dio, quai saran poi
sovra noi gli sdegni tuoi?
D’un leggiadro giovinetto
già de’ boschi onore, e gloria
suona ancor fresca memoria
che m’agghiaccia ’l cor ne ’l petto,
qual per entro un ruscelletto
sé mirando, arse d’amore,
e tornò piangendo in fiore.
Ogni ninfa, in doglie e ’n pianti
posto avea per sua bellezza,
ma del cor l’aspra durezza
non piegar l’afflitte amanti;
quelle voci, e quei sembianti
ch’avrian mosso un cor di fera,
schernia pur quell’alma altera.
Una al pianto in abbandono
lagrimando uscì di vita,
che fu poi per gl’antri udita
rimbombar nud’ombra, e suono;
or qui più non ha perdono,
più non soffre Amore irato
l’impietà del core ingrato.
Punto ’l sen di piaga acerba
da quell’armi, ond’altri ancise,
non pria fine al pianto ei mise
ch’un bel fior si fe’ su l’erba;
o beltà cruda e superba
non fia già, ch’invan m’insegni
come irato Amor si sdegni.

DAFNE Del fugitivo cervo
quest’è pur orma impressa
fusse almen qui vicin la fera stessa.

APOLLO Qual d’un bel ciglio adorno
spira lume gentil, ch’al cor mi giunge?

DAFNE Certo non molto lunge
se ’l desir non m’inganna è qui d’intorno
or vedrò se ’l mio stral va dritto, e punge.

APOLLO Ah ben sent’io se son pungenti i dardi
de’ tuoi soavi sguardi;
dimmi qual tu ti sei
o ninfa, o dèa che tale
rassembri agl’occhi miei
che cerchi armata di faretra, e strale?

DAFNE Seguendo io me ne giva
per quest’ombrosa selva
i passi e l’orme di fugace belva,
e son donna mortal non del ciel diva.

APOLLO Se cotal luce splende
in bellezza mortale
del ciel più non mi cale.

DAFNE Dove mi volgo dove
moverò ’l passo, che la fera trove?

APOLLO Senza che dardo avventi, o l’arco scocchi
valli cercando, o monti
far nobil preda puoi co’ tuoi begl’occhi.

DAFNE Altra preda non bramo, altro diletto
che fere, e selve, e son contenta e lieta
se damma errante o fer cignal saetto.

APOLLO Ah che non sol di fere
saettatrice sei
ma contro a gl’alti iddèi
saette avventi da le luci altere.

DAFNE Del ciel gl’eterni numi
umile onoro e colo,
e per le selve solo
pongo su l’arco i dardi:
ma tu per gioco il mio cammin ritardi.

APOLLO Deh non sdegnar che teco
compagno venga, anch’io so tender l’arco
e quando non ti spiaccia
farem daccordo dilettosa caccia.

DAFNE Altri che l’arco mio
non vo’, compagno addio.

APOLLO Ohimè non tanta fretta
aspetta ninfa, aspetta.

AMORE Ve’ che ti giunsi al varco;
o’ impara a disprezzar l’etate, e l’arco.
Orsù dell’alto cielo
mirin gl’eterni dèi
le glorie, e vanti miei
e voi quaggiù mortali
celebrate il valor de’ gl’aurei strali.

VENERE Figlio, dolce diletto
del cor degl’occhi miei
come sì lieto, e baldanzoso sei?
Dillo bel pargoletto
dimmelo Amor, ch’anch’io
senta le gioie tue dentr’al cor mio.

AMORE Madre, di gemme, e d’oro
un bel carro m’appresta;
pommi su l’aurea testa
nobil fregio d’onor, cerchio frondoso;
veggammi oggi gli dèi dell’alto cielo
trionfator pomposo,
quel dio, ch’intorno gira
il carro luminoso
vinto dall’arco mio piange, e sospira.

VENERE Qual degl’iddei del cielo
de’ la faretra invitta
non sentì dentr’al cor pungente telo?
Io che madre ti sono, ahi quanto, ahi quanto
il molle sen trafitta
e ’n cielo, e ’n terra ho lagrimato e pianto.

AMORE S’hai lagrimato, e pianto, hai riso ancora
dimmi piangevi allora
che del fabro geloso
non potesti schivar l’inganno ascoso?

VENERE Taci taci bel figlio,
pur troppo e tu lo sai
il mio bel viso allor si fe’ vermiglio;
ma di tornare al ciel è tempo ormai.

CORO
Non si nasconde in selva
sì dispietata belva,
né su per l’alto polo
spiega le penne a volo, augel solingo
né per le piagge ombrose,
tra le fere squamose alberga core
che non senta d’amore.
Arder miriam le piante
l’una dell’altra amante,
e gl’elementi ancora
bel foco arde e innamora, e insieme accora
sol contro gl’aurei strali,
i semplici mortali armano il core
che non senta d’amore.
Questi l’albe, e le sere
perde cacciando fere,
e quei s’al ciel rimbomba
di Marte altera tromba, all’armi corre;
altri la mente vaga
di mortal fasto appaga, e ’ndura il core,
che non senta d’amore.
Ma se d’un ciglio adorno
mira le fiamme un giorno;
o pregio d’un bel volto
scherzar con l’aure sciolto un capel d’oro
già vinto ogn’altro affetto;
prova, ch’in uman petto non è core
che non senta d’amore.

NUNZIO Qual nova meraviglia
veduto han gl’occhi miei?
O sempiterni dèi,
che per lo cielo volgete
nostre sorte mortali, o triste, o liete,
fu castigo, o pietate
cangiar l’alma beltate?

CORO Pastor deh narra a noi
le nove meraviglie,
che visto han gl’occhi tuoi.

NUNZIO Non senza trar dal core
lagrime di dolore
udirete, pastori,
il destin della bella cacciatrice
pur troppo miserabile, e infelice.

CORO Di’ pur, saggio pastore,
che non senza dolore
lagrima per pietate un gentil core.

PASTORE Quando la bella ninfa
sprezzando i prieghi del celeste amante
vidi che per fuggir movea le piante,
da voi mi tolsi anch’io
l’orme seguendo dell’acceso dio.
Ella quasi cervetta
ch’innanzi a crudo veltro il passo affretta
fuggia veloce, e spesso
si volgeva a mirar se lungi, o presso
avea l’odiato amante,
ma fatt’accorta omai,
ch’era ogni fuga invano,
i lagrimosi rai
al ciel rivolse, e l’una, e l’altra mano,
e ’n lamentevol suono,
ch’io non udii che troppo era lontano
sciolse la lingua: ed ecco in un momento
che l’uno, e l’altro leggiadretto piede
che pur dianzi al fuggir parve aura, o vento
fatto immobil si vede
di selvatica scorza insieme avvinto,
e le braccia, e le palme al ciel distese,
veste selvaggia fronde;
le crespe chiome, e bionde
più non riveggo, e ’l volto, e ’l bianco petto.
Ma del gentile aspetto
ogni sembianza si dilegua, e perde;
sol miro un arboscel fiorito, e verde.

CORO O miserabil caso, o destin rio,
che fe’, che disse allora
l’innamorato dio?

NUNZIO All’alta novitate
fermò repente il passo
e, confuso d’orrore e di pietate,
restò per lungo spazio immobil sasso.
Poscia a le fronde amate
levando gl’occhi sospirosi, e molli
stese le braccia, e ’l nobil tronco avvinse
e mille volte ribacciollo, e strinse;
piangean dintorno le campagne, e i colli
sospiravan pietosi, e l’aure, e i venti
ed ei nel gran dolore
sciogliea sì mesti accenti,
ch’io sentii per pietà mancarmi il core;
ma vedete lui stesso
che verso noi se n’ viene,
tutto carco di pene;
deh come fuor del luminoso volto
traspare il duol ch’ha dentr’al petto accolto.

APOLLO Dunque ruvida scorza
chiuderà sempre la beltà celeste?
Lumi, voi che vedeste
l’alta beltà, ch’a lagrimar vi sforza,
affisatevi pure in questa fronde:
qui posa, e qui s’asconde
il mio bene, il mio core, il mio tesoro,
per cui ben, ch’immortal languisco, e moro.
Ninfa sdegnosa, e schiva,
che fuggendo l’amor d’un dio del cielo
cangiasti in verde lauro il tuo bel velo,
non sia però ch’io non onori ed ami,
ma sempre al mio crin d’oro
faran ghirlanda le tue fronde, e rami;
ma deh, s’in questa frond’odi il mio pianto,
senti la nobil cetra
quai doni a te del ciel cantando impetra.
Non curi la mia pianta, o fiamma, o gelo,
sian del vivo smeraldo eterni i pregi
né l’offenda già mai l’ira del cielo.

APOLLO
Non curi la mia pianta, o fiamma, o gelo,
sian del vivo smeraldo eterni i pregi
né l’offenda già mai l’ira del cielo.
I bei cigni di Dirce, e i sommi regi
di verdeggianti rami al crin famoso
portin segno d’onor ghirlande, e fregi
gregge mai né pastor sia che noioso
del verde manto suo la spogli, e prive;
alla grat’ombra il dì lieto, e gioioso
traggan dolce cantando, e ninfe, e dive.

CORO
Bella ninfa fuggitiva,
sciolta, e priva
del mortal suo nobil velo
godi pur pianta novella
casta, e bella
cara al mondo, e cara al cielo.
Tu non curi, e nembi e tuoni
tu coroni
cigni, regi, e dèi celesti
geli il cielo, o ’nfiammi, e scaldi,
di smeraldi
lieta ogn’or t’adorni, e vesti.
Godi pur de’ doni egregi;
i tuoi pregi
non t’invidio, e non desio:
io se mai d’amor m’assale
aureo strale
non vo’ guerra con un dio.
S’a fuggir movo le piante
vero amante,
contra amor cruda, e superba,
venir possa il mio crin d’auro
non pur lauro,
ma qual è più miser erba?
Sia vil canna il mio crin biondo
che l’immondo
gregge ogn’or schianti, e dirame
sia vil fien, ch’a i crudi denti
degl’armenti
tragga ogn’or l’avida fame.
Continua nella pagina seguente.

CORO Ma s’a’ preghi sospirosi,
amorosi,
di pietà sfavillo, ed ardo,
s’io prometto all’altrui pene
dolce speme
con un riso, e con un guardo.
Non soffrir, cortese Amore,
che ’l mio ardore
prenda a scherno alma gelata;
non soffrir, ch’in piaggia, o ’n lido
cor infido
m’abbandoni innamorata.
Fa’ ch’al foco de’ miei lumi
si consumi
ogni gelo, ogni durezza;
ardi poi quest’alma all’ora
ch’altra adora,
qual si sia la mia bellezza.