Istoria del Concilio tridentino/Libro primo/Capitolo I
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CAPITOLO I
(1502-1521)
[Disegno dell’autore. — Uso antico di convocare concili. — Condizioni della Chiesa nel secolo XVI. — Leone X e le indulgenze. — Protesta di Martin Lutero. — Viene citato a Roma: suo incontro ad Augusta col cardinale Gaetano. — Bolla di Leone X in favore delle indulgenze. — Ripercussioni nella Svizzera. — Bolla di Leone X contro Lutero, che si appella al concilio. — Lutero fa bruciare la bolla e le decretali. — Si presenta alla dieta di Worms ed è messo al bando dell’Impero. — La sua dottrina è condannata dall’universitá di Parigi e riprovata da Enrico VIII d’Inghilterra. — Nuovi torbidi in Svizzera. — Conferenza di Zurigo. — Generale desiderio di un concilio.]
Il proponimento mio è di scrivere l’istoria del concilio tridentino, imperocché, quantonque molti celebri istorici del secol nostro nelli loro scritti abbiano toccato qualche particolar successo in quello, e Gioanni Sleidano, diligentissimo autore, abbia con esquisita diligenzia narrato le cause antecedenti, nondimeno, quando bene fossero tutti raccolti insieme, non si componerebbe un’intiera narrazione.
Io immediate che ebbi gusto delle cose umane, fui preso da gran curiositá di saperne l’intiero; ed oltre l’aver letto con diligenzia quello che trovai scritto, e li pubblici documenti usciti in stampa o divulgati a penna, mi diedi a ricercare nelle reliquie de’ scritti delli prelati ed altri in concilio intervenuti, le memorie da loro lasciate, e li voti cioè pareri detti in pubblico, conservati dalli autori propri o da altri, e le lettere d’avvisi da quella cittá scritte, non tralasciando fatica o diligenzia; onde ho avuto grazia di veder sino qualche registri intieri di note e lettere di persone che ebbero gran parte in quei maneggi. Ora avendo tante cose raccolte, che mi possono somministrar assai abbondante materia per narrazione del progresso, vengo in resoluzione di ordinarla.
Raccontarò le cause e li maneggi d’una convocazione ecclesiastica, nel corso di ventidue anni, per diversi fini e con vari mezzi da chi procacciata e sollecitata, da chi impedita e differita, e per altri anni diciotto ora adunata, ora disciolta, sempre celebrata con vari fini, e che ha sortito forma e compimento tutto contrario al disegno di chi l’ha procurata e al timore di chi con ogni studio l’ha disturbata: chiaro documento per rassignare li pensieri in Dio e non fidarsi della prudenza umana.
Imperocché questo concilio, desiderato e procurato dagli uomini pii per riunire la Chiesa che principiava a dividersi, per contrario ha cosí stabilito lo scisma ed ostinate le parti, che ha fatto le discordie irreconciliabili; e maneggiato dai principi per riforma dell’ordine ecclesiastico, ha causato la maggior disformazione che sia mai stata dopo che il nome cristiano si ode; e dalli vescovi adoperato per racquistar l’autoritá episcopale, passata in gran parte nel solo pontefice romano, gliel’ha fatta perder tutta intieramente, ed interessati loro stessi nella propria servitú; ma temuto e sfuggito dalla corte di Roma, come efficace mezzo per moderare l’esorbitante potenza da piccioli principi pervenuta con vari progressi ad un eccesso illimitato, gliel’ha talmente stabilita e confermata sopra la parte restatagli soggetta, che mai fu tanta né cosí ben radicata.
Sí che non sará inconveniente chiamarlo la Iliade del secol nostro: nella esplicazione della quale seguirò drittamente la veritá, non essendo posseduto da passione che mi possi far deviare. E chi mi osserverá in alcuni tempi abbondare, in altri andar ristretto, si raccordi che non tutti li campi sono di ugual fertilitá, né tutti li grani meritano d’esser conservati; e di quelli che il mietitore vorrebbe tenir conto, qualche spica anco sfugge la presa della mano o il filo della falce, cosí comportando la condizione d’ogni mietitura, che resti anco parte per rispigolare.
Ma inanzi ogn’altra cosa mi convien raccordare esser stato antichissimo costume nella chiesa cristiana di quietare le controversie in materia di religione e riformare la disciplina trascorsa in corruttela per mezzo delle convocazioni de sinodi. Cosí la prima, nata, vivendo ancora molti delli santi apostoli, se le genti convertite a Cristo erano tenute all’osservanza della legge mosaica, fu composta per reduzione in Gerusalem di quattro apostoli e di tutti li fedeli che in quella cittá si ritrovavano: ad esempio di che nelle occorrenze che alla giornata in ciascuna provincia nacquero, per duecento e piú anni seguenti, anco nel fervor delle persecuzioni, si congregarono li vescovi e li piú principali delle chiese per sedarle e mettervi fine; essendo questo unico rimedio di riunire le divisioni e reconciliare le opinioni contrarie.
Ma dopo che piacque a Dio di dar pace alla sua Chiesa con eccitar al favor della religione Costantino, sí come fu piú facile che molto piú chiese comunicassero e trattassero insieme, cosí ancora le divisioni si fecero piú comuni; e dove che avanti non uscivano d’una cittá, o vero al piú d’una provincia, per la libertá della comunicazione si estesero in tutto l’Imperio; per il che anche l’usato rimedio delli concili fu necessario che si raccogliesse da piú ampli luochi. Onde in quel tempo essendo congregato da quel principe un concilio di tutto l’Imperio, ebbe nome di santa e grande sinodo; e qualche tempo dopo fu anco chiamato concilio generale ed ecumenico, se bene non raccolto da tutta la Chiesa, de quale gran parte si estendeva fuori dell’imperio romano, ma dall’uso di quel secolo di chiamar l’imperadore patrone universale e di tutta la terra abitata, con tutto che sotto l’Imperio non fosse contenuta la decima parte d’essa. Ad esempio di questo, in altre occorrenze di dissidi della religione, simili concili furono congregati dalli successori di Costantino: e se ben l’Imperio piú volte fu diviso in orientale e occidentale, nondimeno, maneggiandosi gli affari sotto nome comune, continuò ancora la convocazione delle sinodi dall’Imperio tutto.
Ma dopo che fu diviso l’Oriente dall’Occidente, non rimanendovi comunione nel principato, e dopo che l’orientale fu in gran parte da saraceni occupato e l’occidental partito in molti principi, il nome di concilio universale ed ecumenico non piú fu derivato dall’unitá dell’imperio romano, ma appresso greci dal convento delli cinque patriarchi, e nelle regioni nostre dall’unitá e comunione di quei regni e stati che nelle cose ecclesiastiche rendevano obedienza al pontefice romano: e di questi la congregazione si è continuata, non principalmente per sopir le dissensioni della religione come giá, ma o vero per far la guerra di Terra Santa, o per sopir scismi e divisioni della chiesa romana, o vero anco per controversie che fossero tra li pontefici e li principi cristiani.
Principiando il secolo XVI dopo la nativitá di Nostro Signore, non appariva urgente causa di celebrar concilio, né che per longo tempo dovesse nascere, perché parevano a fatto sopite le querele di molte chiese contra la grandezza della corte, e tutte le regioni de’ cristiani occidentali erano in comunione e obedienza della chiesa romana: solo in una picciola parte, cioè in quel tratto de monti che congiongono le Alpi con li Pirenei, vi erano alcune reliquie degli antichi valdesi, o vero albigesi, nelli quali però era tanta semplicitá e ignoranza delle buone lettere, che non erano atti a comunicar la loro dottrina ad altre persone; oltra che erano posti in cosí sinistro concetto d’impietá ed obscenitá appresso li vicini, che non vi era pericolo che la contagione potesse passar in altri.
In alcuni cantoni ancora di Boemia vi erano certi pochi della medesima dottrina, reliquie pur degli stessi dalli boemi chiamati piccardi, li quali, per la stessa ragione, non era da dubitare che potesser aumentarsi. Nell’istesso regno di Boemia erano li seguaci di Giovanni Hus, che si chiamavano calistini, o vero sub utraque: li quali, fuor che in questo particolare che nella santissima comunione ministravano al popolo il calice, nelle altre cose erano non molto differenti dalla dottrina della chiesa romana: ma né questi venivano in considerazione, cosí per il loro picciol numero, come perché mancavano di erudizione, né si vedeva che desiderassero comunicar la loro dottrina, né che altri fossero curiosi d’intenderla.
Vi fu ben un poco di pericolo di scisma, perché avendo Giulio II atteso piú alle arti della guerra che al ministerio sacerdotale, e amministrato il pontificato con eccessivo imperio verso li principi e cardinali, aveva necessitato alcuni di essi a separarsi da lui e congregar un concilio. Al che aggiongendosi che il re Luigi XII di Francia, scomunicato dallo stesso pontefice, gli aveva levato l’obedienza e si era congionto con li cardinali separati, pareva che potesse passar questo principio a qualche termine importante. Ma morto opportunamente Giulio ed essendo creato Leone, con la sua desteritá in brevissimo tempo reconciliò li cardinali e il regno di Francia insieme, sí che fu con mirabile celeritá e facilitá estinto un fuoco che pareva dovesse arder la Chiesa.
Leon X, come quello che era nobilmente nato e educato, portò molte buone arti nel pontificato, fra quali erano una erudizione singolare nelle buone littere di umanitá, bontá e dolcezza di trattare maravegliosa, con una piacevolezza piú che umana, insieme con somma liberalitá e inclinazion grande a favorir li litterati e virtuosi, che da longo tempo non s’erano vedute in quella sede qualitá né uguali né prossime alle sue. E sarebbe stato un perfetto pontefice, se con queste avesse congionto un poco di cognizione delle cose della religione e alquanto piú d’inclinazione alla pietá, dell’una e dell’altra de’ quali non dimostrava aver gran cura. E sí come era liberalissimo e ben intendente dell’arte del donare, cosí dell’arte dell’acquistare non era sufficiente da sé, ma si serviva dell’opera di Lorenzo Pucci Cardinal di Santiquattro, il quale in questa parte valeva assai.
Ritrovandosi adonque Leone in questo stato quieto, estinto in tutto e per tutto il scisma, senza alcun avversario, si può dire, (poiché quei pochi valdesi e calistini non erano in considerazione), liberale nello spendere e donare cosí alli parenti come alli cortegiani e alli professori di lettere, esausti gli altri fonti di onde la corte romana suole tirar a sé le ricchezze delle altre regioni, pensò valersi di quello delle indulgenze.
Questo modo di cavar danari fu messo in uso dopo il 1100. Imperocché avendo poco prima papa Urbano II concesso indulgenza plenaria e remissione di tutti li peccati a chi andava nella milizia di Terra Santa per conquistar e liberar il sepolcro di Cristo dalle mani di maomettani, fu seguitato per piú centenara d’anni dalli successori, avendo alcuni di essi (come sempre si aggiunge alle nove invenzioni) aggiontovi la medesima indulgenza a quelli che mantenessero un soldato, non potendo essi o non volendo personalmente andar nella milizia; e poi, col progresso, concesso le medesime indulgenze e remissioni anco per far la guerra a quelli che, se ben cristiani, non erano obedienti alla chiesa romana. E per il piú erano fatte abbondantissime esazioni di danari sotto li pretesti detti di sopra, li quali però erano poi applicati o tutti o la maggior parte ad altri usi.
Seguendo questi esempi Leone, cosí consigliato dal Cardinal Santiquattro, mandò una indulgenzia e remissione de’ peccati per tutte le regioni di cristiani, concedendola a chi contribuisse danari, ed estendendola anco alli morti, pe’ quali, quando fosse fatta la esborsazione, voleva che fossero liberati dalle pene del purgatorio: aggiongendo anco facoltá di mangiar ova e latticini nei giorni di digiuno, di eleggersi confessore, ed altre tali abilitá. E se bene l’esecuzione di quest’impresa di Leone ebbe qualche particolare poco pio e onesto, come si dirá, il quale diede scandolo e causa di novitá, non è però che molte delle concessioni simili, giá fatte dalli pontefici per l’inanzi, non avessero cause meno oneste e non fossero esercitate con maggior avarizia ed estorsione. Ma molte volte nascono occasioni sufficienti per produr notabili effetti, e svaniscono per mancamento d’uomini che se ne sappiano valere; e quello che piú importa, è necessario che per effettuare alcuna cosa venga il tempo nel quale piaccia a Dio di correggere li mancamenti umani. Queste cose tutte si scontrarono nel tempo di Leone, del quale parliamo.
Imperocché avendo egli nel 1517 pubblicata la universale concessione delle indulgenze, distribuí anco una parte delle rendite prima che fossero raccolte né ben seminate, donando a diversi le revenute di diverse provincie, e riservandone anco alcune per la sua camera. In particolare donò il tratto delle indulgenze di Sassonia e di quel braccio di Germania che di lá cammina fino al mare a Maddalena sua sorella, moglie di Franceschetto Cibo figlio naturale di papa Innocenzio VIII; per ragione del qual matrimonio Leone era stato creato cardinale in etá di quattordici anni, che fu il principio delle grandezze ecclesiastiche nella casa de’ Medici. Ed usò Leone quella liberalitá, non tanto per affetto fraterno, quanto per ricompensa delle spese fatte dalla casa Cibo in quel tempo che stette retirato in Genova, non potendo dimorar in Roma mentre Alessandro VI era congionto con li fiorentini, nemici di casa Medici, che l’avevano scacciata di Fiorenza. Ma la sorella, acciò il dono del pontefice li rendesse buon frutto, diede la cura di mandar a predicare l’indulgenze e dell’esazione del danaro al vescovo Aremboldo, il quale nell’assonzione della dignitá e carico episcopale non s’era spogliato di alcuna delle qualitá di esatto mercatante genovese. Questo diede la facoltá di pubblicarle a chi si offerí di piú cavarne, senza risguardo della qualitá delle persone, anzi cosí sordidamente, che nessuna persona mediocre potè contrattar con lui, ma solo trovò ministri simili a sé, non con altra mira che di cavar danari.
Era costume nella Sassonia che quando dalli pontefici si mandavano indulgenzie, erano adoperati per pubblicarle li frati dell’ordine degli eremitani. A questi non volsero inviarsi li questori ministri dell’Aremboldo, come a quelli che, soliti a maneggiar simili merci, potevano anco aver maniera di trarne occultamente frutto per loro, e da’ quali anco, come usati a questo ufficio, non aspettavano cosa straordinaria e che li potesse fruttare maggiormente del solito; ma s’inviarono alli frati dell’ordine di San Dominico. Da questi nel pubblicar le indulgenze furono dette assai novitá che diedero scandolo, mentre essi volevano amplificare il valore piú del solito. Si aggionse la cattiva vita delli questori, i quali nelle taverne ed altrove, in giuochi ed altre cose piú da tacere, spendevano quello che il popolo risparmiava del suo vivere necessario per acquistar le indulgenzie.
Dalle quali cose eccitato Martino Lutero, frate dell’ordine degli eremitani, si portò a parlar contra essi questori, prima riprendendo solamente li nuovi ed eccessivi abusi; poi, provocato da loro, incominciò a studiare questa materia e voler veder li fondamenti e radice dell’indulgenzia: li quali esaminati, passando dagli abusi novi alli vecchi e dalla fabbrica alli fondamenti, diede fuora novantacinque conclusioni in questa materia, le quali furono proposte da esser disputate in Vittemberga; né comparendo alcuno contra di lui, se ben viste e lette, non furono da alcuno oppugnate in conferenzia vocale; ma ben frate Giovanni Thecel dell’ordine di San Dominico ne propose altre contrarie a quelle in Francfort di Brandeburg.
Queste due mane di conclusioni furono come una contestazione di lite, perché passò inanzi Martino Lutero a scrivere in defesa delle sue e Giovanni Ecchio ad oppugnarle; ed essendo andate cosí le conclusioni come le altre scritture a Roma, scrisse contra Lutero frate Silvestro Prierio dominicano: la qual contenzione di scritture sforzò una parte e l’altra ad uscir della materia e passare in altre di maggior importanza.
Perché essendo l’indulgenzie cosa non ben esaminata nelli prossimi secoli dinanzi, non era stato ancora ben considerato come se defendesse e sustentasse, sí come non era stato considerato come si oppugnasse: non era ben nota né la loro essenza né le cause. Alcuni riputavano quelle non esser altro che una assoluzione e liberazione, fatta per autoritá del prelato, dalle penitenzie che negli antichissimi tempi, per ragion di disciplina, la Chiesa imponeva a’ penitenti (la qual imposizione fu nelli seguenti secoli assonta dal solo vescovo, poi delegata al prete penitenziario, e finalmente rimessa all’arbitrio del confessore), ma non liberassero di pagar il debito alla divina giustizia. Il che parendo ad altri che cedesse piú a maleficio che a beneficio del popolo cristiano, quale, coll’esser liberato dalle pene canoniche, si rendeva negligente a sodisfar con pene volontarie alla divina giustizia, entrarono in opinione che fossero liberazione e dell’una e dell’altra. E questi erano divisi: volendo alcuni che fossero liberazion senza che altro fosse dato in ricompensa di quelle; altri aborrendo un tal arbitrio, dicevano che, stante la comunione in caritá delli membri di santa Chiesa, le penitenzie di uno si potevano comunicar all’altro e con questa compensazione liberarlo. Ma perché pareva che questo convenisse piú agli uomini di santa ed austera vita che all’autoritá delli prelati, nacque la terza opinione, che le fece in parte assoluzione, per il che se li ricerchi l’autoritá, ed in parte compensazione. Ma non vivendo li prelati in maniera che potessero dar molto delli loro meriti ad altri, si fece un tesoro della Chiesa pieno de’ meriti di tutti quelli che ne hanno abbondanzia per loro propri. La dispensazione del quale è commessa al pontefice romano; il quale, dando l’indulgenzie, ricompensa il debito del peccatore con assegnare altrettanto valor del tesoro. Né qui era il fine delle difficoltá, perché opponevasi che, essendo li meriti de’ santi finiti e limitati, questo tesoro potrebbe venir a meno; per il che volendolo far indeficiente, v’aggionsero li meriti di Cristo, che sono infiniti; onde nacque la difficoltá a che fosse bisogno de gocciole de meriti d’altri, quando si aveva un pelago infinito di quelli di Cristo: che fu ragione ad alcuni di far essere il tesoro delli meriti della Maestá sua solamente.
Queste cose, cosí incerte allora e che non avevano altro fondamento che la bolla di Clemente VI fatta per il giubileo del 1350, non parevano bastanti per oppugnar la dottrina di Martino, risolvere le sue ragioni e convincerlo; per il che Thecel, Ecchio e Prierio, non vedendosi ben forti nelli luochi propri di questa materia, si voltarono alli comuni, e posero per fondamento l’autoritá pontificia e il consenso del li dottori scolastici: concludendo che, non potendo il pontefice fallare nelle cose della fede, ed avendo egli approvata la dottrina de’ scolastici, e pubblicando esso le indulgenzie a tutti li fedeli, bisognava crederle per articolo di fede. Questo diede occasione a Martino di passar dalle indulgenzie all’autoritá del pontefice; la qual essendo dagli altri predicata per suprema nella Chiesa, da lui era sottoposta al concilio generale legittimamente celebrato, del quale diceva esservi di bisogno in quella instante ed urgente necessitá. E continuando il calore della disputa, quanto piú la potestá papale dagli altri era inalzata, tanto piú da lui era abbassata, contenendosi però Martino nei termini di parlar modestamente della persona di Leone e riservando alle volte il suo giudicio. E per l’istessa ragione fu anco messa a campo la materia della remissione de’ peccati, e della penitenzia e del purgatorio, valendosi di tutti questi luochi li romani per prova delle indulgenzie.
Piú appositamente di tutti scrisse contra Martin Lutero fra’ Giacomo Ogostrato dominicano, inquisitore, il quale, tralasciale queste ragioni, esortò il pontefice a convincer Martino con ferro, fuoco e fiamma.
Tuttavia si andava esacerbando la controversia, e Martino passava sempre innanzi a qualche nova proposizione, secondo che gli era dato occasione. Per il che Leone pontefice, nell’agosto del 1518, lo fece citar a Roma da Gerolimo vescovo d’Ascoli auditor de camera; e scrisse un breve a Federico duca di Sassonia, esortandolo a non proteggerlo; scrisse anco a Tomaso de Vio cardinale Gaetano, suo legato nella dieta d’Augusta, che facesse ogn’opera per farlo pregione e mandarlo a Roma. Fu operato col pontefice per diversi mezzi che si contentasse far esaminar la sua causa in Germania, il qual trovò buono che fosse veduta dal legato suo, al quale fu commesso quel giudicio, con instruzione che, se avesse scoperto alcuna speranza in Martino di resipiscenza, lo dovesse ricever, e prometterli impunitá delli defetti passati, ed anco onori e premi, rimettendo alla sua prudenzia. Ma quando lo trovasse incorriggibile, facesse opera con Massimiliano imperatore e con gli altri principi di Germania che fosse castigato.
Martino, con salvocondotto di Massimiliano, andò a trovar il legato in Augusta, dove dopo una conveniente conferenza sopra le materie controverse, scoprendo il cardinale che con termini di teologia scolastica, nella professione della quale era eccellentissimo, non poteva esser convinto Martino, che si valeva sempre della Scrittura divina, che da scolastici è pochissimo adoperata; si dechiarò di non voler disputar con lui, ma l’esortò alla retrattazione, o almeno a sottometter i suoi libri e dottrina al giudicio del pontefice, mostrandogli il pericolo in che si trovava persistendo, e promettendoli dal papa favori e grazie. Al che non essendo risposto da Martino cosa in contrario, pensò che non fosse bene col molto premere cavar una negativa, ma interponer tempo, acciò le minaccie e le promesse potessero far impressione; per il che lo licenziò per allora. Fece far anco ufficio in conformitá da frate Giovanni Stopiccio, vicario generale dell’ordine eremitano.
Tornato Martino un’altra volta, ebbe il cardinale con lui colloquio molto longo sopra li capi della sua dottrina, piú ascoltandolo che disputando, per acquistarsi credito nella proposta dell’accomodamento; alla quale quando discese, esortandolo a non lasciar passare un’occasione tanto sicura ed utile, rispose Lutero con la solita efficacia, che non si può far patto alcuno a pregiudicio del vero; che non aveva offeso alcuno né aveva bisogno della grazia di qual si voglia; che non temeva minaccie, e quando fosse tentato cosa contro di lui indebita, averebbe appellato al concilio. Il cardinale (al quale era andato ad orecchie che Martino fosse assicurato da alcuni grandi per tener un freno in bocca al pontefice), suspicando che parlasse cosí persuaso, si sdegnò, e venne a riprensioni acerbe e villanie, e a concludere che li principi hanno le mani longhe: e se lo scacciò dinanzi. Martino partí dalla presenza del legato, e memore di Giovanni Hus, senza altro dire parti anco da Augusta; di dove allontanato, e pensate meglio le cose sue, scrisse una lettera al cardinale, confessando d’esser stato troppo acre e scusandosi sopra la importunitá delli questori e delli scrittori suoi avversari; promettendo di usar maggior modestia nell’avvenire, di sodisfar al papa e di non parlar delle indulgenzie piú: con condizione però che li suoi avversari anco facessero l’istesso. Ma né essi né egli potevano contenersi in silenzio; anzi l’uno provocava l’altro; onde la controversia s’inaspriva.
Per il che in Roma la corte parlava del cardinale con gran vituperio, attribuendo tutto il male all’aver trattato Lutero con severitá e con villanie; li attribuivano a mancamento che non gli avesse fatto promessa di gran ricchezze, d’un vescovato, ed anco d’un cappel rosso da cardinale. E Leone, temendo di qualche gran novitá in Germania, non tanto contra l’indulgenzie quanto contra l’autoritá sua, fece una bolla sotto il 9 novembre 1518, dove dechiarò la validitá delle indulgenzie, e che esso come successor di Pietro e vicario di Cristo aveva potestá di concederle per li vivi e per li morti; e che questa era la dottrina della chiesa romana, la quale è madre e maestra di tutti li cristiani, che doveva esser recevuta da qualonque vuol esser nel consorzio della Chiesa. Questa bolla la mandò al cardinale Gaetano; il quale, essendo a Linz in Austria superiore, la pubblicò e ne fece far molti esemplari autentici, mandandone a ciascuno delli vescovi di Germania, con comandamento di pubblicarli e di comandar severamente e sotto gravi pene a tutti di non aver altra fede.
Da questa bolla vide chiaramente Martino che da Roma e dal pontefice non poteva aspettar altro che esser condannato; e sí come per l’inanzi aveva per lo piú riservato la persona e il giudicio pontificio, cosí dopo questa bolla venne a risoluzione di rifiutarlo. Per il che mandò fuori un’appellazione; dove avendo prima detto di non voler contrapporsi all’autoritá del pontefice quando insegna la veritá, soggionse che egli non era esente dalle comuni condizioni di poter fallare e peccare, allegando l’esempio di san Pietro ripreso da san Paolo gravemente. Ma ben era cosa facile al papa, avendo tante ricchezze e seguito, senza rispetto d’alcuno opprimere chi non sente con lui: a’ quali non resta altro rimedio che il rifuggir al concilio col beneficio dell’appellazione, poiché per ogni ragione debbe esser preposto il concilio al pontefice. Andò per Germania la scrittura dell’appellazione, e fu letta da molti e tenuta per ragionevole; per il che la bolla di Leone non estinse l’incendio eccitato in Germania.
Ma in Roma, avendo come dato animo alla corte, non altrimenti che se il fuoco fosse estinto, fu mandato fra’ Sanson da Milano, dell’ordine di San Francesco, a predicar le medesime indulgenzie ne’ svizzeri: il qual dopo averle pubblicate in molti luochi e raccolto fino a cento venti mila scudi, finalmente capitò in Zurich, dove insegnava Ulrico Zuinglio canonico di quella chiesa. Il qual opponendosi alla dottrina del frate questore, furono tra loro gravi dispute, passando anco d’una materia nell’altra, non altramente di quello che era accaduto in Germania: onde avvenne che Zuinglio fosse da molti ascoltato, e acquistasse credito e potesse parlare non tanto contra gli abusi delle indulgenzie, ma contra le indulgenzie stesse, ed anco contra l’autoritá del pontefice che le concedeva.
Martino Lutero, vedendo la dottrina sua esser ascoltata ed anco passar ad altre regioni, fatto piú animoso, si pose ad esaminar altri articoli; e in materia della confessione e della comunione si partií dall’intelligenza delli scolastici e della romana chiesa, approvando piú la comunione del calice usata in Boemia, e ponendo per parte principale della penitenza non la diligente confessione al sacerdote, ma piú tosto il proposito di emendar la vita per l’avvenire. Passò anco a parlar delli voti, e toccare li abusi dell’ordine monastico; e camminando li suoi scritti arrivarono in Lovanio e in Colonia, dove veduti dalle universitá di quei teologi, ed esaminati, furono da loro condannati. Né questo turbò punto Martino, anzi li diede causa di passar inanzi a dechiarare e fortificar la sua dottrina quanto piú era impugnata.
Con queste piú tosto contenzioni che risolute discussioni passò l’anno 1519, quando, moltiplicando gli avvisi a Roma delli moti germanici ed elvetici, aumentati con molte amplificazioni ed aggionte, come è costume della fama, massime quando riporta cose lontane, Leone era notato di negligenza, che in tanti pericoli non dasse mano a gagliardi rimedi. I frati particolarmente biasimavano che attento alle pompe, alle caccie, alle delizie ed alla musica, de quale sopra modo si dilettava, tralasciasse cose di somma importanza. Dicevano che nelle cose della fede non conviene trascurar cosa minima, né differir un punto la provvisione; la quale sí come è facilissima prima che il male prenda radice, cosí quando è invecchiato riesce tarda; che Ario fu una minima scintilla che con facilitá sarebbe stata estinta, e pure abbruggiò tutto il mondo; che avrebbero a quell’ora fatto altrettanto Giovanni Hus e Geronimo da Praga, se dal concilio di Costanza non fussero stati oppressi nel principio. In contrario Leone era pentito di tutte le azioni fatte da lui in queste occorrenze, e piú di tutto del breve dell’indulgenze mandato in Germania; parendogli che sarebbe stato meglio lasciar disputare li frati tra di loro e conservarsi neutrale e riverito da tutte le parti, che col dechiararsi per una constringer l’altra ad alienarsi da lui; che quella contenzione non era tanto gran cosa; che non bisognava metterla in reputazione; che mentre sará tenuta per leggiera pochi ci penseranno, e se il nome pontificio non fosse entrato sino allora dentro, avrebbe fatto suo corso e sarebbe dileguata.
Con tutto ciò, per le molte instanze de’ prelati di Germania, delle universitá che, interessate per la condanna, ricercavano l’autoritá pontificia per sostentamento, e piú per le continue importunitá de’ frati di Roma, venne in risoluzione di ceder all’opinione comune. E fece una congregazione di cardinali, prelati, teologi e canonisti, alla quale rimesse intieramente il negozio. Da quella con grandissima facilitá e prestezza fu concluso che si dovesse fulminar contra tanta impietá; ma furono discordi li canonisti dalli teologi, volendo questi che immediate si venisse alla fulminazione, e dicendo quelli che fosse necessario precedesse prima la citazione. Allegavano i teologi che la dottrina si vedeva con evidenza empia, che li libri erano divulgati e le prediche di Lutero notorie. Dicevano gli altri che la notorietá non toglieva la difesa, che è de iure divino et naturali, correndo alli luoghi soliti, Adam ubi es? Ubi est Abel frater tuus? e nell’occorrenza delle cinque cittá, Descendam et videbo. Aggiongevano che la citazione dell’auditore dell’anno inanzi, in virtú della quale il giudicio fu rimesso al Gaetano in Augusta e restò imperfetto, quando altro non fosse, la mostrava necessaria. Dopo molte dispute, nelle quali li teologi attribuivano a sé soli la decisione trattandosi di cosa di fede, e li giurisconsulti se l’appropriavano quanto alla forma del giudicio, fu proposto composizione tra loro, distinguendo il negozio in tre parti: la dottrina, li libri e la persona. Della dottrina concessero li canonisti che si condannasse senza citazione; della persona persistevano in sostener che fosse necessaria; però non potendo vincer gli altri, che insistevano con maggior acrimonia e si coprivano col scudo della religione, trovarono temperamento che a Martino fosse fatto un precetto con termine conveniente, che cosí si risolverebbe in citazione. Delli libri vi fu piú che fare, volendo li teologi che insieme con la dottrina fossero dannati assolutamente, e li canonisti che si ponessero dal canto della persona e si comprendessero sotto il termine. Non potendosi accordare in questo, fu fatto l’uno e l’altro; prima dannati di presente, e poi dato il termine per abbruggiarli. E con queste risoluzioni fu formata la bolla sotto il dí 15 giugno 1520, la quale essendo come principio e fondamento del concilio di Trento, di cui abbiamo da parlare, è necessario rappresentar qui un breve compendio di quella.
Nella quale il pontefice inviando il principio delle sue parole a Cristo, il quale ha lasciato Pietro e li suoi successori per vicari nella sua Chiesa, lo eccita ad aiutarla in questi bisogni; e da Cristo voltatosi a san Pietro, lo prega per la cura recevuta dal Salvatore voler attender alle necessitá della chiesa romana consecrata col suo sangue; e passando a san Paulo, lo prega del medesimo aiuto, aggiongendo che se ben egli ha giudicato le eresie necessarie per prova dei buoni, è però cosa conveniente estinguerle nel principio. Finalmente rivoltatosi a tutti li santi del cielo e alla Chiesa universale, li prega ad interceder appresso Dio che la Chiesa sia purgata da tanta contagione. Passa poi a narrare come li era pervenuto a notizia, ed aveva veduto con gli occhi propri, essere rinnovati molti errori giá dannati de’ greci e boemi, ed altri, falsi, scandalosi, atti ad offender le pie orecchie ed ingannar le menti semplici, seminati nella Germania, sempre amata da lui e da’ suoi predecessori. Li quali, dopo la transazione dell’imperio greco, hanno pigliato sempre defensori da quella nazione, e da quei prencipi pii sono emanati molti decreti contra gli eretici, confirmati anco dalli pontefici. Per il che egli, non volendo piú tollerare simili errori ma provvedervi, vuol recitarne alcuni d’essi. E qui recita quarantadue articoli, che sono nelle materie del peccato originale, della penitenzia e remissione de’ peccati, della comunione, delle indulgenze, della scomunica, della potestá del papa, dell’autoritá de’ concili, delle buone opere, del libero arbitrio, del purgatorio e della mendicitá, i quali dice che respettivamente sono pestiferi, perniciosi, scandalosi, con offesa delle pie orecchie, contra la caritá, contra la riverenzia dovuta alla romana chiesa, contra l’obedienzia che è nervo della disciplina ecclesiastica. Per la quale causa volendo proceder alla condannazione, ne ha fatto diligente esamine con li cardinali e generali degli ordini regolari, con altri teologi e dottori dell’una e l’altra legge; e pertanto li condanna e reproba respettivamente come eretici, scandalosi, falsi, in offesa delle pie orecchie ed inganno delle pie menti, e contrari alla veritá cattolica. Proibisce, sotto pena di scomunica e di innumerabili altre pene, che nissuno ardisca tenerli, defenderli, predicarli o favorirli. E perché le suddette asserzioni si ritrovano nelli libri di Martino, però li danna, comandando sotto le stesse pene che nissuno possa leggerli o tenerli, ma debbiano esser abbruggiati, cosí quelli che contengono le proposizioni predette come qualunque altri. Quanto alla persona di esso Martino, dice che l’ha ammonito piú volte e citato e chiamato con promessa di salvocondotto e del viatico; che se fosse andato non averebbe trovato tanti falli nella corte come diceva; e che esso pontefice li averebbe insegnato che mai li papi suoi predecessori hanno errato nelle constituzioni loro. Ma perché egli ha sostenute le censure per un anno ed ha ardito d’appellare al futuro concilio, cosa proibita da Pio e Giulio II sotto le pene degli eretici, poteva proceder alla condannazione senz’altro; nondimeno, scordato delle ingiurie, ammonisce esso Martino e quelli che lo defendono, che debbiano desister da quelli errori, cessar di predicar, ed in termine di sessanta giorni sotto le medesime pene aver revocato tutti gli errori suddetti e abbruggiati li libri; il che non facendo, li dechiara notorii e pertinaci eretici. Appresso comanda a ciascuno sotto le stesse pene che non tenga altri libri dello stesso Martino, se ben non contenessero tali errori. Poi ordina che tutti debbiano schivare cosí lui come li suoi fautori; anzi comanda ad ognuno che debbiano prenderli e presentarli personalmente, o almeno scacciarli dalle proprie terre e regioni: interdice tutti li luochi dove anderanno, comanda che siano pubblicati per tutto, e che la sua bolla debbia esser letta in ogni luoco, e scomunicando chi impedirá la pubblicazione; determina che si creda alli transonti, ed ordina che la bolla sia pubblicata in Roma, Ilrandeburg, Misna e Mansperg.
Martino Lutero, avuto nova della dannazione della sua dottrina e libri, mandò fuora una scrittura, facendo repetizione dell’appellazione interposta al concilio e replicandola per le stesse cause. Ed oltre di ciò, perché il papa abbia proceduto contra uno non chiamato e non convinto, e non udita la controversia della dottrina, anteponendo le opinioni sue alle sacre lettere e non lasciando luoco alcuno al concilio, si offerí di mostrare tutte queste cose; pregando Cesare e tutti li magistrati che per difesa dell’autoritá del concilio ammettano questa sua appellazione; non riputando che il decreto del papa obblighi persona alcuna, sin che la causa non sia legittimamente discussa nel concilio.
Ma gli uomini sensati, vedendo la bolla di Leone, restarono con maraviglia per piú cose: prima, quanto alla forma, che con clausole di palazzo il pontefice fusse venuto a dechiarazione in una materia che bisognava trattare con le parole della Scrittura divina, e massime usando clausule tanto intricate e cosí longhe e prolisse, che a pena era possibile di cavarne senso, come se si avesse a far una sentenzia in causa feudale; ed in particolare era notato che una clausula, la qual dice: inhibentes omnibus ne præfatos errores asserere præsumant, è cosí allongata con tante ampliazioni e restrizioni, che tra l’inhibentes ed il præsumant vi sono interposte piú di quattrocento parole. Altri, passando un poco piú inanzi, consideravano che l’aver proposto quarantadue proposizioni e condannatele come eretiche, scandalose, false, offensive delle pie orecchie e ingannatrici delle menti semplici, senza esplicare qual di loro fossero le eretiche, quali le scandalose, quali le false, ma col vocabolo respettivamente attribuendo a ciascuna di esse una qualitá incerta, veniva a restar maggior dubbio che inanzi: il che era non difinir la causa, ma renderla piú controversa che prima, e mostrar maggiormente il bisogno che vi era di altra autoritá e prudenza per finirla.
Alcuni ancora restavano pieni d’ammirazione come fosse detto che fra le quarantadue proposizioni vi fossero errori de’ greci giá dannati. Ad altri pareva cosa nova che tante proposizioni in diverse materie di fede fossero state decise in Roma col solo conseglio delli cortegiani, senza parteciparne con li altri vescovi, universitá e persone letterate d’Europa.
Ma le universitá di Colonia e Lovanio, liete che per l’editto pontificio fosse dato colore al giudicio loro, abbruggiarono pubblicamente li libri di Lutero; il che fu causa che egli ancora in Vittemberga, congregata tutta quella scola, con forma di giudicio pubblicamente facesse abbruggiare non solo la bolla di Leone, ma insieme anco le decretali pontificie: e poi con un longo manifesto, pubblicato in scritto, rendesse conto al mondo di quell’azione, notando il papato di tirannide nella Chiesa, perversione della dottrina cristiana ed usurpazione della potestá de’ legittimi magistrati.
Ma cosí per l’appellazione interposta da Lutero, come per queste ed altre considerazioni, ognun venne in opinione che fosse necessario un legittimo concilio, per opera del quale non solo le controversie fossero decise, ma ancora fosse rimediato a gli abusi da longo tempo introdotti nella Chiesa; e sempre tanto piú questa necessitá appariva, quanto le contenzioni crescevano, essendo continuamente dall’una parte e l’altra scritto. Perché Martino non mancava di confermar con diversi scritti la dottrina sua, e secondo che studiava scopriva piú lume, camminando sempre qualche passo inanzi, e toccando articoli ai quali nel principio non aveva pensato. Il che egli diceva fare per zelo della casa di Dio; ma era anco costretto da necessitá: perché i pontificii avendo fatto opera efficace in Colonia con l’elettore di Sassonia, per mezzo di Geronimo Aleandro, che dasse Martino prigione al papa, o per altra via li facesse levar la vita, egli si vedeva in obbligo di mostrar a quel prencipe e alli popoli di Sassonia e ad ogn’altro che la ragione era dal canto suo, acciò il suo principe o qualche altro potente non desse luogo a gli uffici pontificii contra la vita sua.
Con queste cose essendo passato l’anno 1520, si celebrò in Germania la dieta di Vormazia del 1521, dove Lutero fu chiamato con salvocondotto di Carlo, eletto due anni inanzi imperatore, per render conto della sua dottrina. Egli era consegnato a non andarvi, poiché giá era pubblicata ed affissa la sua condanna fatta da Leone, onde poteva esser certo di non riportare se non conferma della condannazione, se pur non li fosse avvenuto cosa peggiore. Nondimeno, contra il parere di tutti gli amici, sentendo egli in contrario, diceva che se ben fosse certo d’aver contra tanti diavoli quanti coppi erano nelli tetti delle case di quella cittá, voleva andarvi; come fece.
Ed in quel luoco a’ 17 di aprile, in presenza di Cesare e di tutto il convento de’ principi, fu interrogato se egli era l’autore de’ libri che andavano fuora sotto suo nome, de’ quali furono recitati li titoli e mostratigli esemplari posti in mezzo del consesso; e se voleva defendere tutte le cose contenute in quelli o retrattarne alcuna. Il quale respose, quanto alli libri, che li recognosceva per suoi, ma il risolversi di defender o non le cose contenute in quelli esser di gran momento, e pertanto avere bisogno di spazio per deliberare. Li fu concesso tempo quel giorno, per dar la risposta il seguente. Il qual venuto, introdotto Martino nel consesso, fece una longa orazione: scusò prima la sua simplicitá se, educato in vita privata e semplice, non avesse parlato secondo la dignitá di quel consesso e dato a ciascuno li titoli convenienti; poi confermò di riconoscer per suoi li libri; e quanto al defenderli, disse che tutti non erano d’una sorte, ma alcuni contenevano la dottrina della fede e pietá, altri reprendevano la dottrina de’ pontificii, un terzo genere era delli scritti contenziosamente contra li defensori della contraria dottrina. Quanto alli primi, disse che, se li retrattasse, non farebbe cosa da cristiano e uomo dabbene, tanto piú quanto per la medesima bolla di Leone, se ben tutti sono condannati, non però tutti sono giudicati cattivi. Quanto alli secondi, che era cosa pur troppo chiara che tutte le provincie cristiane e la Germania massime erano espiliate e gemevano sotto la servitú; e però il retrattare le cose dette non sarebbe stato altro che confermar quella tirannide. Ma nelli libri del terzo genere confessò di esser stato piú acre e veemente del dovere, scusandosi che non faceva professione di santitá né voleva defender i suoi costumi, ma ben la dottrina; che era parato di dar conto a qualonque persona si volesse, offerendosi di non esser ostinato, ma quando gli fosse mostrato qualche suo errore con la Scrittura in mano, era per gettar li suoi libri in foco. Si voltò all’imperatore ed alli prencipi, dicendo esser gran dono di Dio quando vien manifestata la vera dottrina, sí come il repudiarla è un tirarsi a dosso causa di estreme calamitá.
Finita l’orazione, fu per ordine dell’imperatore ricercato di piana e semplice risposta, se voleva defender o no li suoi scritti: al che rispose di non potere revocar alcuna cosa delle scritte o insegnate, se non era convinto con le parole della Scrittura o con evidenti ragioni.
Le quali cose udite, Cesare fu risoluto, seguendo li vestigi de’ suoi maggiori, di defender la chiesa romana ed usar ogni remedio per estinguer quell’incendio, non volendo però violar la fede data, ma passar al bando dopo che Martino fosse ritornato salvo a casa. Erano nel consesso alcuni che, approvando le cose fatte in Costanza, dicevano non dover egli servar la fede: ma Lodovico, conte palatino elettore, si oppose come a cosa che dovesse rieder a perpetua ignominia del nome tedesco, esprimendo con sdegno esser intollerabile che per servizio de’ preti la Germania dovesse tirarsi a dosso l’infamia di mancar della pubblica fede. Erano anco alcuni, quali dicevano che non bisognava correr cosí facilmente alla condanna, per esser cosa di gran momento e che poteva apportar gran consequenze.
Fu ne’ giorni seguenti trattato in presenza di alcuni delli prencipi, ed in particolar dall’arcivescovo di Treveri e da Gioachin elettor di Brandeburg, e dette molte cose da Martino in defesa di quella dottrina, e da altri contra, volendo indurlo che rimettesse ogni cosa al giudicio di Cesare e del consesso e della dieta senza alcuna condizione. Ma dicendo egli che il profeta proibiva il confidarsi negli uomini, eziandio nei prencipi, al giudicio de’ quali nessuna cosa doveva esser manco permessa che la parola di Dio, fu in ultimo proposto che sottomettesse il tutto al giudicio del futuro concilio; al che egli acconsentí, con condizione che fossero cavati prima dai libri suoi gli articoli che gli s’intendeva sottoporvi, e che di quelli non fosse fatta sentenzia se non secondo le Scritture. Ricercato finalmente che rimedi pareva a lui che si potessero usare in questa causa, rispose: «Quelli soli che da Gamaliele furono proposti agli ebrei»: cioè che se l’impresa era umana, sarebbe sfumata; ma se da Dio veniva, era impossibile impedirla; e che tanto doveva sodisfar anco al pontefice romano, dovendo esser certi tutti (come egli ancora era), se il suo disegno non veniva da Dio, che in breve tempo sarebbe andato in niente. Dalle qual cose non potendo esser rimosso, e restando fermo nella sua risoluzione che non accetterebbe alcun giudicio se non sotto la regola della Scrittura, gli fu dato commiato e termine di ventun giorni per tornar a casa, con condizione che nel viaggio non predicasse né scrivesse. Di ch’egli avendo ringraziato, a’ 26 d’aprile si partí.
Dopo, Carlo imperatore il giorno 8 di maggio nel medesimo consesso di Vormazia pubblicò un editto, dove avendo prenarrato che all’officio dell’imperator tocca aggrandire la religione ed estinguer l’eresie che incominciassero a nascere, passò a raccontare che fra’ Martin Lutero si studiava di macchiar la Germania di quella peste, sí che non ovviandovi, tutta quella nazione era per cadere in una detestabile pernicie; che papa Leone l’aveva paternamente ammonito, e poi il conseglio de’ cardinali ed altri uomini eccellenti avevano condannato i suoi scritti e dechiarato lui eretico, se fra certo termine non revocava gli errori; e di quella bolla della condanna ne aveva mandato copia ad esso imperatore, come protettor della Chiesa, per Gerolemo Aleandro suo noncio, ricercandolo che fosse eseguita nell’imperio, regni, domimi e provincie sue: ma che per ciò Martino non si era corretto, anzi alla giornata moltiplicava libri pieni non solo di nove eresie, ma ancora di giá condannate dalli sacri concili, e non tanto in lingua latina, ma ancora in todesca. E nominati poi in particolare molti errori suoi, conclude non vi esser alcuno scritto dove non sia qualche peste o aculeo mortale, sí che si può dir che ogni parola sia un veneno. Le qual cose considerate da esso imperatore e dalli consegli suoi di tutte le nazioni suddite a lui, insistendo ne’ vestigi degl’imperatori romani suoi predecessori, avendo conferito in quel convento di Vormazia il tutto con gli elettori ed ordini dell’Imperio, con conseglio loro ed assenso, se bene non conveniva ascoltar un condannato dal sommo pontefice ed ostinato nella sua perversitá e notorio eretico, nondimeno per levar ogni materia di cavillare, dicendo molti ch’era necessario udir l’uomo prima che venir all’esecuzione del decreto del pontefice, l’aveva mandato a levare per uno de’ suoi araldi, non per conoscere e giudicare le cose della fede, il che s’aspetta al solo pontefice, ma per ridurlo alla dritta via con buone persuasioni. Passa poi a raccontare come Martino fu introdotto nel pubblico consesso, e quello di che fu interrogato, e che rispose, sí come di sopra è stato narrato; e come fu licenziato e partí.
Poi segue concludendo che pertanto, ad onor di Dio e riverenzia del pontefice e per debito della dignitá imperiale, con conseglio ed assenso degli elettori, prencipi e stati, eseguendo la sentenzia e condanna del papa, dechiara di aver Martin Lutero per notorio eretico, e determina che da tutti sia tenuto per tale; proibendo a tutti di riceverlo o defenderlo in qualunque modo; comandando sotto tutte le pene a li prencipi e stati che debbano, passato il termine delli venti giorni, prenderlo e custodirlo, e perseguitar ancora tutti li complici, aderenti e fautori suoi, spogliandoli di tutti li beni mobili ed immobili. Comanda ancora che nessuno possi legger o tener li libri suoi, non ostante che vi fosse dentro alcuna cosa di buono, ordinando tanto alli prencipi, quanto agli altri che amministrano giustizia, di abbruggiarli e destruggerli. E perché in alcuni luoghi sono composti e stampati libretti estratti dalle opere di quello, e sono divulgate pitture ed immagini in vergogna di molti ed anco del sommo pontefice, comanda che nessuno possi stamparne, dipingerne o tenerne; ma dalli magistrati sieno prese ed abbruggiate, e puniti li stampatori, compratori e venditori; aggiongendo una general legge, che non possi esser stampato alcun scritto dove si tratti cosa della fede, benché minima, senza volontá dell’ordinario.
In questo medesmo tempo ancora la universitá di Parigi, cavate diverse conclusioni dalli libri di Lutero, le condannò, parte come rinnovate dalla dottrina di Vigleffo ed Busso, e parte novamente prononciate da lui contra la dottrina cattolica. Ma queste opposizioni tutte non causavano altro se non che, rispondendo Lutero, si moltiplicava in libri dall’una parte e dall’altra, e le contenzioni s’inasprivano, e s’eccitava la curiositá di molti che, volendo informarsi dello stato della controversia, venivano ad avvertire gli abusi ripresi, e cosí si alienavano dalla devozione pontificia.
Tra li piú illustri contradittori che ebbe la dottrina di Lutero, fu Enrico VIII re d’Inghilterra, il qual non essendo nato primogenito regio, era stato destinato dal padre per arcivescovo di Cantorberi, e però nella puerizia fatto attendere alle lettere. Ma morto il primogenito, e dopo quello anco il padre, egli successe nel regno; ed avendo per grand’onore adoperarsi in una controversia di lettere cosí illustre, scrisse un libro dei sette sacramenti, defendendo anco il pontificato romano ed oppugnando la dottrina di Lutero: cosa che al pontefice fu tanto grata che, ricevuto il libro del re, lo onorò col solito titolo di Defensore della fede. Ma Martino non si lasciò spaventare dal splendor regio, che non rispondesse a quella maestá con altrettanta acrimonia, veemenzia e poco rispetto, con quanta aveva risposto alli piccioli dottori. Questo titolo regio entrato nella controversia, la fece piú curiosa; e come avviene nelli combattimenti, che li spettatori s’inclinano sempre al piú debole ed esaltano piú le azioni mediocri di quello, cosí qui concitò la inclinazione universale piú verso Lutero.
Subito che fu per tutto pubblicato il bando dell’imperatore, l’istesso mese Ugo vescovo di Costanza, sotto la diocesi del quale è posta la cittá di Zurich, scrisse al collegio dei canonici di quel luogo, nel numero de’ quali era Zuinglio, ed un’altra littera al senato della medesma cittá. In quelle considerò il danno che le chiese e le repubbliche ancora pativano per le novitá delle dottrine, con molto detrimento della salute spirituale, confusione della quiete e tranquillitá pubblica. Gli esortò a guardarsi dai novi dottori, mostrando che non sono mossi se non da propria ambizione ed istigazione diabolica. Mandò insieme il decreto di Leone e il bando di Cesare, esortando che il decreto del papa fosse recevuto ed obedito, e quello dell’imperatore imitato, e notò particolarmente la persona e dottrina di Zuinglio e delli suoi aderenti, sí che costrinse Zuinglio a dar conto, di tutto quello che insegnava, alli colleghi e satisfare il senato. E scrisse ancora al vescovo, insistendo principalmente sopra questo, che non erano da tollerar piú longamente i sacerdoti concubinarii, di dove veniva l’infamia dell’ordine ecclesiastico e il cattivo esempio alli popoli e la corruzione della vita generalmente in tutti: cosa che non si poteva levare se non introducendo, secondo la dottrina apostolica, il matrimonio. Scrisse ancora in propria defesa a tutti li cantoni de’ svizzeri, facendo in particolar menzione di un editto fatto dalli loro maggiori, che ogni prete fosse tenuto ad aver la concubina propria, acciò non insidiasse la pudicizia delle donne oneste; soggiongendo che, se ben pareva decreto ridiculoso, era nondimeno fatto per necessitá e non doveva esser mutato, se non che quanto era costituito a favor del concubinato, al presente doveva esser tramutato in matrimonio legittimo.
Il moto del vescovo indusse li dominicani a predicar contra la dottrina di Zuinglio e lui a defendersi. Per il che anco egli scrisse e pubblicò sessantasette conclusioni, le quali contenevano la sua dottrina e toccavano li abusi del clero e delli prelati. Onde nascendo molta confusione e dissensione, il senato di Zurich entrò in deliberazione di sedare li tumulti, e convocò tutti li predicatori e dottori della sua giurisdizione. Invitò anco il vescovo di Costanza a mandar qualche persona di prudenzia e dottrina per assister a quel colloquio, a fine di quietare li tumulti e di statuir quello che fosse a gloria di Dio. Fu mandato dal vescovo Giacomo Fabro suo vicario, che fu poi vescovo di Vienna: e venuto il giorno statuito del congresso, raccolta gran moltitudine di persone, Zuinglio riprodusse le sue conclusioni, si offerí defenderle e rispondere a qualunque avesse voluto contradirle. Il Fabro, dopo molte cose dette da diversi frati dominicani e altri dottori contra Zuinglio, e da lui risposte, disse che quel tempo e luogo non erano da trattar simile materia, che la cognizione di simil propositi toccava al concilio; il qual anco presto si doveva celebrare, perché cosí diceva esser convenuto il pontefice con li principi e maggiori prelati di cristianitá. Il che tanto piú diede materia a Zuinglio di fortificarsi, dicendo che queste erano promesse per nutrir il popolo con vane speranze e tra tanto tenerlo sopito nell’ignoranza; che ben si poteva, aspettando anco una piú intiera dechiarazione dal concilio delle cose dubbie, trattar allora le certe e chiare nella Scrittura divina e nell’uso dell’antica chiesa. E tuttavia instando che dicesse quello che si poteva opponere alle conclusioni sue, si ridusse il Fabro a dire che non voleva trattare con lui in parole, ma che averebbe resposto alle sue conclusioni in scritto. Finalmente si finí il consesso, avendo il senato decretato che l’Evangelio fosse predicato secondo la dottrina del vecchio e nuovo Testamento e non secondo alcun decreto o costituzione umana.
Vedendosi adonque che le fatiche dei dottori e prelati della chiesa romana, e il decreto del pontefice che era venuto alla condanna assoluta, e il bando imperiale cosí severo, non solo non potevano estinguer la nova dottrina, anzi, non ostante quelli, faceva ogni giorno maggior progresso, ognuno entrò in pensiero che questi rimedi non fossero propri a tal infirmitá, e che bisognasse venire finalmente a quella sorte di medicina, che, per il passato in simil occasioni usata, pareva avesse sedato tutti li tumulti: il che era la celebrazione del concilio. Onde questa fu desiderata da ogni sorte di persone come remedio salutare ed unico.
Veniva considerato che le novitá non avevano avuto altra origine se non dagli abusi introdotti dal tempo e dalla negligenzia delli pastori; e però non essere possibile rimediare alle confusioni nate se non rimediando agli abusi che n’avevano dato causa; né esserci altra via di provveder a quelli concordemente e uniformemente, se non con una congregazione generale. E questo era il discorso delli uomini pii e ben intenzionati; non mancando però diversi generi di persone interessate, a’ quali per li loro fini sarebbe stato utile il concilio, ma cosí regolato e con tal condizioni, che non potesse essere se non a favor loro e non contrario alli loro interessi. Primieramente, quelli che avevano abbracciate le opinioni di Lutero volevano il concilio con condizione che in quello tutto fosse deciso e regolato con la Scrittura, escluse tutte le constituzioni pontificie e le dottrine scolastiche, perché cosí tenevano certo non solo di defender la loro, ma anco che ella dovesse esser sola approvata. Ma un concilio che procedesse come [si] era fatto per ottocento anni inanzi, non lo volevano, e si lasciavano intendere di non remettersi a quel giudicio. E Martino usava di dire che in Vormazia fu troppo pusillanime, e che era tanto certo della sua dottrina, che come divina non voleva manco sottometterla al giudicio degli angeli, anzi che con quella egli era per giudicare gli uomini e gli angeli tutti. Li principi ed altri governatori de’ paesi, non curando molto quello che il concilio dovesse risolvere intorno alla dottrina, lo desideravano tale che potesse redurre li preti e frati al loro principio, sperando che per quel mezzo ad essi dovessero tornar li regali e le giurisdizioni temporali, che con tanta abbondanzia ed ampiezza erano passate nell’ordine ecclesiastico. E però dicevano che vano sarebbe far un concilio dove soli li vescovi ed altri prelati avessero voto deliberativo, perché essi dovevano essere riformati, ed era necessario che altri ne avessero il carico, quali dal proprio interesse non fossero ingannati e costretti a risolvere contra il ben comune della cristianitá. Quelli del populo ancora, che avevano qualche cognizione delle cose umane, desideravano moderata l’autoritá ecclesiastica, e che non fossero cosí aggravati li miseri popoli con tante esazioni sotto pretesto di decime, limosine e indulgenzie, né oppressi dalli officiali de’ vescovi sotto pretesto di correzioni e di giudicii. La corte romana, parte principalissima, desiderava il concilio in quanto avesse potuto restituir al pontefice l’obedienzia che li era levata, e approvava un concilio secondo le forme nelli prossimi secoli usate; ma che quello avesse facoltá di riformar il pontificato e di levare quelle introduzioni da quali la corte riceveva tali emolumenti e per quali colava in Roma gran parte dell’oro della cristianitá, questo non piaceva loro. Il pontefice Leone, angustiato da ambedue le parti, non sapeva che desiderare. Vedeva che ogni giorno l’obedienza andava diminuendosi e li popoli intieri separandosi da lui, e ne desiderava il rimedio del concilio; il quale quando considerava dover esser peggior del male, portando la riforma in consequenzia, l’aborriva. Andava pensando via e modo come far un concilio in Roma o in qualche altro luoco dello stato ecclesiastico, come il suo precessore ed esso avevano celebrato pochi anni inanzi il lateranense con buonissimo frutto, avendo con quel mezzo sedato il scisma, ridotto il regno di Francia ch’era separato, e, quello che non era di minor importanza, abolita la pragmatica sanzione, doppiamente contraria alla monarchia romana, sí perché era un esempio di levarli tutte le collazioni de’ benefici (gran fondamento della grandezza pontificia), come anco perché era una conservazione della memoria del concilio basiliense, e per conseguente della soggezione del pontefice al concilio generale. Ma non vedeva poi come un concilio di quella sorte potesse rimediar al male, il quale non era nelli principi e gran prelati, appresso i quali vagliono le pratiche e gl’interessi, ma era nei popoli, con quali averebbe bisognato usar realtá e vera mutazione.