Istoria del Concilio tridentino/Libro primo/Capitolo II

Libro primo - Capitolo II (1522 - settembre 1523)

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CAPITOLO II

(1522 - settembre 1523)


[Morte di Leone X ed elezione di Adriano VI. — Sua intenzione di emanare una nuova bolla sulle indulgenze, contrastata dal cardinale Gaetano. — Il cardinale Puccio lo dissuade dal ristabilire l’uso delle penitenze canoniche e il cardinale Soderini dall’agire contro gli abusi, consigliandolo a valersi della forza contro i luterani. — Il cardinale Chieregato è inviato nunzio della dieta di Norimberga: sua azione. — I Centum gravamina della dieta trasmessi a Roma. — Giudizi sulla condotta di Adriano VI; sua morte.]

In questo stato di cose, nel fine dell’anno 1521 passò di questa vita papa Leone. E nel principio dell’anno seguente, il 9 di gennaro, fu creato Adriano, la cui assonzione al pontificato, essendo fatta di persona che mai era stata veduta in Roma, incognita alli cardinali e alla corte, e che allora si ritrovava in Spagna, (e del rimanente anco era opinione del mondo che non approvasse i costumi romani e il libero modo di vivere delli cortegiani) rivoltò i pensieri di tutti a questo, sí che le novitá luterane non erano piú in nessuna considerazione. Temevano alcuni che egli fosse pur troppo inclinato alla riforma; altri che chiamasse a sé i cardinali e portasse fuori d’Italia la sede romana (come altre volte era intervenuto). Ma presto restarono quieti da tanto timore, perché il nuovo pontefice, il di seguente dopo avuto l’avviso della sua elezione (che fu il 22 dell’istesso mese nella cittá di Vittoria in Biscaglia), non aspettati li legati che li erano mandati dal collegio de’ cardinali per significargliela e aver il suo consenso, congregati quei pochi prelati che potè avere, consenti all’elezione, e assonto l’abito e le insegne si dechiarò pontefice, e non differí a passar in Barcellona, dove scrisse al collegio de’ [p. 32 modifica] cardinali la causa perché aveva assonto il nome ed il carico di pontefice, e s’era posto in viaggio senza aspettar li legati, commettendo anche loro che tanto facessero noto per tutta Italia. Fu costretto aspettar in Barcellona tempo opportuno per passar il mar di Lione, assai pericoloso: non però differi piú di quanto era necessario ad imbarcarsi per venir in Italia; e vi arrivò in fine di agosto del 1522.

Ritrovò Adriano tutta Italia in moto per la guerra tra Cesare e il re di Francia, la sede apostolica implicata in guerra particolare con li duchi di Ferrara ed Urbino, Arimini novamente occupato da’ Malatesti, li cardinali divisi e diffidenti, l’assedio posto da’ turchi all’isola di Rodi, tutte le terre della Chiesa esauste ed in estrema confusione per otto mesi di anarchia; nondimeno applicò principalmente il pensier suo a componer li dissidi della religione in Germania: e come quello che era dalla fanciullezza nodrito, allevato e abituato nelli studi della scolastica teologia, teneva quelle opinioni per cosí chiare ed evidenti, che non credeva poter cadere il contrario in animo d’alcun uomo ragionevole. Per il che non dava altro titolo alla dottrina di Lutero se non di insipida, pazza ed irragionevole; giudicava che nissuna persona, se non qualche pochi sciocchi, la credessero, e il seguito che Martino aveva fosse di persone che in sua conscienzia tenessero per indubitate le opinioni romane, fingendo altrimenti irritati dalle oppressioni; e però essere cosa facilissima estinguere quella dottrina, che non era fondata salvo che sopra gl’interessi. Onde pensava che col dare qualche sodisfazione facilmente si risanasse quel corpo, quale piú tosto faceva sembiante d’esser infermo, che in veritá lo fosse. E per esser egli nativo di Utrecht, cittá di Germania inferiore, sperava che tutta la nazione dovesse facilmente porger orecchie alle proposte sue, e interessarsi anco a sostenere l’autoritá sua, come d’uomo germano, e per tanto sincero, che non trattasse con arti e per fini occulti. E tenendo per fermo che importasse molto l’usare celeritá, deliberò far la prima proposizione nella dieta che si preparava a Noremberg; la quale acciò fosse gratamente [p. 33 modifica] udita e le sue promesse fossero stimate reali, inanzi che trattare cosa alcuna con essi loro, pensava necessario dar saggio con principio di reforma, levando li abusi stati causa delle dissensioni. A questo effetto chiamò a Roma Giovanni Pietro Caraffa, arcivescovo di Chieti, e Marcello Cazele gaetano, uomini stimati di bontá e costumi irreprensibili, e molto periti delle cose spettanti alla vera disciplina ecclesiastica, acciò col conseglio loro e delli cardinali piú suoi confidenti trovasse qualche medicina alle piú importanti corruttele, tra’ quali prima si rappresentava la prodigalitá delle indulgenze, per aver ella aperta la via al credito acquistato da’ novi predicatori in Germania.

Il pontefice, come teologo che giá aveva scritto in questa materia prima che mai Lutero pensasse di trattarla, era in parere di stabilire per decreto apostolico e come papa quella dottrina che come privato aveva insegnata e scritta; cioè, che concessa indulgenzia a chi fará una tal pia opera, è possibile assai che da alcuno l’opera sia eseguita in tanta perfezione che quello conseguisca l’indulgenzia: se però l’opera manca di quella esattezza, l’operante non ottiene indulgenzia tutta, ma solo tanta parte a proporzione che corrisponda all’opera imperfetta. Riputava il pontefice che in questa maniera non solo fosse provveduto per l’avvenire ad ogni scandolo, ma anco rimediato alli passati; poiché potendo ogni minima opera essere cosí bene qualificata di circostanze che meriti ogni gran premio, restava resoluta l’obiezione fatta da Lutero, come per l’oblazione d’un danaro fosse conseguito tanto tesoro; e poiché per defetto dell’opera chi non guadagna tutta l’indulgenzia ne ottiene però una parte proporzionale, non si ritraevano fedeli dal cercare l’indulgenze.

Ma frate Tommaso da Gaeta cardinale di San Sisto, teologo consumato, lo dissuadeva, dicendogli che ciò era un pubblicar quella veritá, la quale per salute delle anime era meglio ritenere solo appresso gli uomini dotti, e piú tosto come disputabile che come decisa. Per il che anco esso, qual vivamente in conscienzia la sentiva, nello scrivere però l’aveva [p. 34 modifica] in tal maniera portata, che solo gli uomini consumatissimi potevano dalle sue parole cavarla. La qual dottrina quando fosse vulgata ed autorizzata, esserci pericolo che gli uomini, eziandio litterati, non concludessero da quella che la concessione del papa non giovasse niente, ma tutto dovesse esser attribuito alla qualitá dell’opera; il che diminuirebbe a fatto il fervore in acquistare le indulgenze, e la stima dell’autoritá pontificia. Aggionse il cardinale che dopo l’aver, per comandamento di Leone, fatto esatto studio in questo soggetto l’anno medesmo che nacquero le contenzioni in Germania, e scrittone un pieno trattato, l’anno seguente, essendo legato in Augusta, ebbe occasione di ventilarlo e trattarne piú diligentemente, parlando con molti ed esaminando le difficoltá e motivi che turbavano quelle provincie; e in due colloqui che ebbe con Lutero in quella cittá discusse pienamente la materia, la quale avendo ben digerita, non dubitava di poter dire asseverantemente e senza pericolo di prender errore che altra maniera non vi era di remediare al li scandoli passati, presenti e futuri, che ritornando le cose al suo principio. Esser cosa chiara, che quantunque il papa possi liberare col mezzo delle indulgenze li fedeli da qualsivoglia sorte di pena, leggendo però le decretali chiaramente apparisce che è assoluzione e liberazione dalle pene imposte nella confessione solamente. Per il che ritornando in osservanza li canoni penitenziali, andati in dissuetudine, ed imponendo secondo quelli le condecenti penitenzie, ognuno chiaramente vederá la necessitá ed utilitá delle indulgenze e le cercherá studiosamente per liberarsi dal gran peso delle penitenze; e ritornerá il secolo aureo della Chiesa primitiva, nel quale li prelati avevano assoluto governo sopra li fedeli, non per altro, se non perché erano tenuti in continuo esercizio con le penitenzie; dove nei tempi che corrono, fatti oziosi, vogliono scuotersi dall’obedienzia. Il popolo di Germania, sepolto nell’ozio, presta orecchie a Martino che predica la libertá cristiana; se fosse con penitenzie tenuto in freno, non potrebbe pensar a questa novitá, e la sede apostolica potrebbe farne grazia a chi le riconoscesse da lei. [p. 35 modifica]

Piaceva al pontefice questo parere, come fondato sopra l’antichitá, ed al quale non vedeva che opposizione potesse esser fatta. Lo fece propor in penitenziaria, per trovar modo e forma come metterlo in uso prima in Roma poi in tutta la cristianitá. Furono fatte perciò diverse radunanze dalli deputati sopra la riforma, insieme con li penitenzieri, per trattare come praticarlo; e tante difficultá si vedevano attraversare, che finalmente Lorenzo Puccio fiorentino, cardinale di Santiquattro, che fu datario di papa Leone e ministro diligente per trovar danari, come giá s’è detto, e fatto poi sommo penitenziero, col parere universale riferí al pontefice che era stimata irreuscibile la proposta, e quando fosse tentata, in luoco di remediare alli presenti mali ne averebbe suscitati di molto maggiori. Che le pene canoniche erano andate in disuso, perché, mancato il fervor antico, non si potevano piú sopportare; però volendo ritornarle, prima era necessario ritornare l’istesso zelo e calore di caritá. Che il secolo non era simile alli passati, quando tutte le deliberazioni della Chiesa erano ricevute senza pensarci piú oltre; ma al presente ognuno vuol farsi giudice ed esaminare le ragioni; il che se si vede farsi nelle cose che nulla o poco di gravezza portano seco, quanto maggiormente in una che sarebbe gravissima! Esser vero che il rimedio è appropriato al male, ma supera le forze del corpo infermo, ed in luoco di guarirlo sarebbe per condurlo a morte; e pensando di racquistar la Germania, farebbe perdere l’Italia prima, ed alienar quella maggiormente. Soggionse il cardinale: «Mi par d’udir uno che dica come san Pietro; Perché tentar Dio, imponendo sopra le spalle dei discepoli quello che né noi né i padri nostri abbiamo potuto sopportare?». Si scordasse Sua Santitá di quel celebre luogo della Glossa, allegato da lei nel suo quarto delle Sentenzie, che intorno al valore delle indulgenze la querela è vecchia ed ancor dubbia; considerasse le quattro opinioni tutte cattoliche e tanto diverse che quella Glossa riferisce. Da che appare chiaro che la materia ricerca in questi tempi piú tosto silenzio che altra discussione. [p. 36 modifica]

Penetrarono queste ragioni nell’animo d’Adriano e lo resero incerto di quello che dovesse fare; e tanto piú perplesso, quanto non trovava minor difficoltá nelle altre cose che s’era proposto in animo di riformare. Nella materia delle dispense matrimoniali, il levar molte delle proibizioni di contrattar matrimoni tra certo genere di persone, che parevano superflue e difficili da osservare, (a che egli molto inclinava e sarebbe stato gran sollevamento al popolo), era biasmato da molti come cosa che rallentasse il nervo della disciplina; il continuarle prestava materia alli luterani di dire che erano per trar danari. Il ristringer le dispense ad alcune qualitá di persone era dar nova materia di querimonie alli pretendenti che nelle cose spirituali, ed in quello che al ministerio di Cristo appartiene, non vi sia differenza alcuna di persone. Il levar le spese pecuniarie per queste cause, non si poteva fare senza ricomprar gli uffici venduti da Leone, li compratori de’ quali traevano emolumenti da questo. Il che anco impediva da levare li regressi, accessi, coadiutorie ed altri modi usati nelle collazioni de’ benefici, che avevano apparenza (se piú veramente non si deve dire essenza) di simonia. Il ricomprar gli uffici era cosa impossibile, attese le gran spese che era convenuto fare e tuttavia continuare. E quel che piú di tutto li confondeva l’animo, era che quando aveva deliberato di levar qualche abuso, non mancava chi con qualche colorata apparenza pigliava a sostenere che fosse cosa buona o necessaria. In queste ambiguitá afflisse il pontefice l’animo suo sino al novembre, desideroso pur di far qualche notabile provvisione che potesse dar al mondo saggio dell’animo suo, risoluto a porgere rimedio a tutti gli abusi, prima che incominciar a trattar in Germania.

In fine lo fermò e fece venir a resoluzione Francesco Soderino cardinale prenestino, chiamato di Volterra, allora suo confidentissimo; se ben dopo entrato cosí inanzi nella desgrazia sua, che lo fece anco impregionare. Questo cardinale, versatissimo nelli maneggi civili ed adoperato nelli pontificati di Alessandro, Giulio e Leone, pieni di vari ed importanti [p. 37 modifica] accidenti, in ogni ragionamento col pontefice andava gettando parole che potessero instruirlo: li commendava la bontá ed ingenuitá sua e l’animo propenso alla riforma della Chiesa ed all’estirpazione dell’eresie, aggiongendo però che non poteva avere laude della sola buona intenzione, insufficiente da se stessa per far il bene, se non vi s’aggiongesse anco un’esatta elezione de’ mezzi opportuni ed un’esecuzione maneggiata con somma circonspezione. Ma quando lo vidde costretto dall’angustia del tempo a risolversi, gli disse non esservi speranza di confondere ed estirpare li luterani con la correzione delli costumi della corte; anzi questo esser un mezzo di aumentar il credito agli autori. Imperocché la plebe, che sempre giudica dall’evento, quando per l’emenda seguita restará certificata che con ragione il governo pontificio era ripreso in qualche parte, si persuaderá similmente che anco le altre novitá proposte abbiano buoni fondamenti; e gli eresiarchi, vedendo d’averla vinta in una parte, non cesseranno nel riprender le altre. In tutte le cose umane avvenire che il ricevere sodisfazione in alcune richieste dá pretensione di procacciarne altre e di stimar che li siano dovute; che leggendo le passate istorie dei tempi che sono state eccitate eresie contra l’autoritá della chiesa romana, si vederá tutte avere preso pretesto dalli costumi corrotti della corte. Con tutto ciò mai nessun pontefice reputò utile mezzo il reformarli; ma solo, dopo usate le ammonizioni e instruzioni, indurre i prencipi a protegger la Chiesa. Quello che per il passato è riuscito, doversi tener ed osservar sempre. Nissuna cosa far perire un governo maggiormente, che il mutar li modi di reggerlo; l’aprir vie nuove e non usate esser un esporsi a gravi pericoli, e sicurissimo è camminare per li vestigi dei santi pontefici che sempre hanno avuto esito felice delle loro imprese. Nissuno aver mai estinto l’eresie con le riforme, ma con le cruciate e con eccitar prencipi e popoli all’estirpazione di quelle. Raccordarsi che Innocenzo III oppresse felicemente con questo mezzo gli albigesi di Linguadocca; e li pontefici seguenti non con altri modi hanno estinto in altri luochi li valdesi, li piccardi, poveri di [p. 38 modifica] Lione, arnaldisti, speronisti e patarini, sí che al presente resta il solo nome. Non esser per mancare prencipi in Germania che, concedendogli la sede apostolica di occupar lo stato dei fautori dei luterani, non debbiano avidamente ricevere la condizione, e facendogli seguito de’ popoli colle indulgenze e remissioni a chi anderá a quel soccorso. Li considerò anco il cardinale che non era da pensare alli moti di religione in Germania, come se non vi fosse altro pericolo imminente alla sede apostolica; perché soprastava la guerra d’Italia, cosa di maggior pericolo, alla quale era necessario applicare principalmente l’animo: nel maneggio della quale se si ritrovasse senza nervo, che è il danaro, potrebbe ricevere qualche notabil incontro; e nessuna riforma si può fare la qual non diminuisca notabilmente le entrate ecclesiastiche: le quali avendo quattro fonti, uno temporale, le rendite dello stato ecclesiastico, gli altri spirituali, le indulgenze, le dispense, e la collazione de’ benefici, non si può otturar alcuno di questi, che l’entrate non restino troncate in un quarto.

Il papa, conferendo queste remostranze con Guielmo Enckenwort, che poi creò cardinale, e Teodorico Hezio, suoi familiari e confidentissimi, affermava essere misera la condizione de’ pontefici; poiché vedeva chiaro che non potevano far bene, neanco volendo e faticandosene; concluse che non era possibile, inanzi l’espedizione che doveva far in Germania, mandar ad effetto alcun capo di riforma, e che bisognava che si contentassero di credere alle sue promesse, le quali era risoluto di mantenere, quando anco avesse dovuto ridursi senza alcun dominio temporale, e anco alla vita apostolica. Diede però stretta commissione ad ambidue, uno de’ quali era datario e l’altro secretario, che nella concessione dell’indulgenze, nelle dispense, nelli regressi e coadiutorie si usasse parcitá, sin tanto che si trovasse come regolarlo con legge e perpetua constituzione. Le quali cose avendo io letto diffusamente narrate in un diario del vescovo di Fabriano, dove tenne memoria delle cose notabili da lui vedute ed udite, ho voluto riportarle qui sommariamente, dovendo servir molto per intelligenza delle cose che si diranno. [p. 39 modifica]

Nel primo concistoro di novembre, col parere delli cardinali, destinò Francesco Chiericato, conosciuto da lui in Spagna e creato vescovo di Fabriano (il quale ho nominato poco fa), per noncio alla dieta di Norembergo, che si celebrava senza la presenza di Cesare, che alcuni mesi inanzi era stato sforzato passar in Spagna per quietar li tumulti e sedizioni nate in quei regni. Arrivò il noncio a Norembergo nel fine dell’anno, e presentò littere del pontefice agli elettori, prencipi e oratori delle cittá, scritte in comune sotto il 25 novembre, nelle quali si doleva prima che essendo stato Martin Lutero condannato per sentenza di Leone e la sentenza eseguita per un editto imperiale in Vormazia, pubblicato per tutta Germania, nondimeno egli perseverasse nelli medesmi errori, pubblicando continuamente libri pieni d’eresia, e fosse favorito non solo da plebei, ma anco da nobili: soggiongendo che, se ben predisse l’apostolo che le eresie erano necessarie per esercizio dei buoni, quella necessitá però era tollerabile nelle opportunitá de’ tempi, non in quelli quando, trovandosi la cristianitá oppressa dall’arme de’ turchi, si doveva metter ogni studio per purgare il mal interno, ché il danno ed il pericolo, qual da se stesso porta, impedisce anco l’adoperarsi contra un tanto inimico. Esorta poi li prencipi e popoli a ben considerare che non mostrino di consentire a tanta scelleratezza col tollerarla longamente. Gli rappresenta essere cosa vergognosissima che si lascino condurre da un fraticello fuora della via de’ loro maggiori, quasi che solo Lutero intenda e sappia. Gli avvertisce, se li seguaci di Lutero hanno levato l’obedienzia alle leggi ecclesiastiche, molto maggiormente vilipenderanno le secolari; e se hanno usurpato li beni della Chiesa, meno si asteniranno da quei de’ laici; ed avendo ardito di metter mano nelli sacerdoti di Dio, non perdoneranno alle case, mogli e figlioli loro. Aggionse esortazione che, se non potranno con le vie della dolcezza redur Martino ed i suoi seguaci nella dritta via, vengano alli remedi aspri e affocati, per risecar dal corpo li membri morti, come fu fatto nelli tempi antichi a Datan ed Abiron, ad Anania e Saffira, a Gioviniano e [p. 40 modifica] Vigilanzio, e finalmente come li maggiori fecero contra Gioanni Hus e Gerolimo da Praga nel concilio di Costanza; l’esempio de’ quali, quando non possino far altramente, debbono imitare. In fine rimesse il soprapiú, cosí in quel particolare come in altri negozi, alla relazione di Francesco Chiericato suo noncio. Scrisse anco lettere quasi a tutti li principi con gl’istessi concetti: all’elettore di Sassonia in particolare, che ben considerasse qual macchia sarebbe stata alla sua posteritá, avendo favorito un frenetico che metteva confusione in tutto ’l mondo con invenzioni empie e pazze, rivoltando la dottrina stabilita col sangue de’ martiri, vigilie de’ santi dottori ed armi di tanti prencipi fortissimi; camminasse per le vestigie de’ suoi maggiori, non lasciandosi abbagliare gli occhi dalla rabbia d’un uomicciuolo a seguire gli errori dannati da tanti concili.

Presentò il noncio alla dieta non solo il breve del papa, ma ancora la sua instruzione, nella quale gli era commesso di esortar i prencipi ad opporsi alla peste luterana, con sette ragioni. Prima, perché a ciò li doveva movere il culto di Dio e la caritá verso il prossimo; secondariamente, la infamia della loro nazione; in terzo luoco, il loro onor proprio, mostrandosi non degenerare dalli loro progenitori che intervennero alla condannazione di Giovanni Hus in Costanza e degli altri eretici, conducendone alcuni d’essi colle proprie mani al fuoco; e non volessero mancare della propria parola e costanzia, avendo la maggior parte di essi approvato l’editto imperiale contra Lutero. In quarto luoco, li doveva muovere l’ingiuria fatta da Lutero ai loro progenitori, pubblicando un’altra fede che la creduta da essi, e concludendo per conseguente che tutti siano all’inferno; in quinto luoco, si debbino mover dal fine dove i luterani tendono, cioè di voler snervar la potestá secolare, dopo che averanno annichilata l’ecclesiastica con falso pretesto che sia usurpata contra l’Evangelio, se ben astutamente mostrano di salvar la secolare per ingannarli; in sesto luogo considerino le dissessioni e turbulenzie che quella setta eccita in Germania; e finalmente avvertano che Lutero usa la medesima via usata giá da Macometto, permettendo che siano [p. 41 modifica] saziate l’inclinazioni carnali, se ben mostra di farlo con maggior modestia per piú efficacemente ingannare. E se alcuno dicesse Lutero esser stato condennato non udito e non defeso, e però che sia conveniente udirlo, debbia responder esser giusto udirlo in quello che tocca al fatto, cioè se ha predicato o scritto, o no; ma sopra le cose della fede e la materia de’ sacramenti ciò non esser conveniente, perciò che non s’ha da metter in dubbio quello che una volta è stato approvato dalli concili generali e da tutta la Chiesa.

Poi gli dá commission il pontefice di confessar ingenuamente che questa confusione è nata per i peccati degli uomini, massime de’ sacerdoti e prelati: confessando che in quella santa sede, giá alcuni anni, sono state fatte molte cose abominevoli, molti abusi nelle cose spirituali, molti eccessi nelli precetti, e finalmente tutte le cose mutate in male; in maniera che si può dire che l’infermitá sia passata dal capo nei membri, dalli summi pontefici nelli inferiori prelati, sí che non vi è stato chi faccia bene, neppur uno. Alla correzione del qual male egli, per propria inclinazione e debito, è deliberato adoperarsi con tutto lo spirito, ed usar ogn’opera acciocché inanzi ogn’altra cosa la corte romana, di onde forse tanto mal è proceduto, si riformi: il che tanto piú fará, quanto vede che tutto ’l mondo avidamente lo desidera. Nessun però dover maravegliarsi se non vederá cosí immediate emendati tutti gli abusi; perché essendo il male invecchiato e multiplice, bisogna a passo a passo proceder nella cura e cominciar dalle cose piú gravi, per non turbar ogni cosa col voler fare tutto insieme. Commise ancora il pontefice che promettesse per suo nome che egli li serverebbe li concordati e che s’informerebbe delli processi avocati dalla rota, per rimetterli ad partes secondo la giustizia; e in fine che sollecitasse li prencipi e stati per nome suo a risponder alle lettere, ed informar lo pontefice delli mezzi mediante i quali si potesse ovviar piú comodamente ai luterani. Oltre l’aver presentato il breve del papa e l’instruzione, propose anco il noncio che in Germania si vedeva quasi per tutto li religiosi uscir del monastero [p. 42 modifica] e ritornar al secolo, e li preti maritarsi con gran sprezzo e vilipendio della religione, e la maggior parte di essi ancora commetter molti eccessi ed enormitá: per il che era necessario che fosse pigliata provvisione, per la quale questi sacrileghi matrimoni fossero separati, gli autori di quelli severamente puniti, e gli apostati remessi nella potestá de’ loro superiori.

Fece la dieta risposta al nuncio in iscritto, dicendo di aver letto con reverenzia il breve del pontefice e la instruzione presentata nel negozio della fazione luterana, e rendere grazie a Dio della assonzione di Sua Beatitudine al pontificato, pregandoli dalla Maestá divina ogni felicitá. E (dappoi aver detto quello che occorreva circa la concordia tra prencipi cristiani e la guerra contra turchi) quanto alla dimanda d’eseguire la sentenzia promulgata contra Lutero e l’editto di Vormes, risposero essere paratissimi a metter ogni loro potere per estirpar gli errori, ma aver tralasciato di eseguir la sentenza e l’editto per grandissime ed urgentissime cause. Imperocché la maggior parte del popolo è persuasa dalli libri di Lutero che la corte romana abbia inferiti molti gravami alla nazion germanica; onde se si fosse fatta alcuna cosa per esecuzione della sentenza, la moltitudine sarebbe entrata in sospetto che fosse fatto per sostentar e mantenir gli abusi e impietá, e ne sarebbono nati tumulti populari, con pericolo di guerre civili. Per il che esser di bisogno, in queste difficoltá, di remedi piú opportuni, massime confessando esso nuncio per nome del pontefice che questi mali vengano per gli peccati degli uomini, e promettendo riforma della corte romana, gli abusi della quale se non fossero emendati, e levati li gravami, e reformati alcuni articoli che li prencipi secolari daranno in scritto, non è possibile metter pace tra gli ecclesiastici e secolari, né estirpar li presenti tumulti. E perché la Germania consentí il pagamento delle annate con condizione che si convertissero nella guerra contra i turchi, le quali per tanti anni sono state pagate, né mai convertite in quell’uso, pregano il pontefice che per l’avvenire non abbi la corte romana cura di esigerle, ma siano lasciate al fisco dell’Imperio per le spese di quella guerra. Ed a quello [p. 43 modifica] che la Sua Santitá ricercava conseglio delli mezzi co’ quali si potesse ovviar a tanti inconvenienti, risposero che dovendosi trattar non di Lutero solamente, ma tutt’insieme di stirpar molti errori e vizi radicati per invecchiata consuetudine, per diversi rispetti, da chi per ignoranza, da chi maliziosamente difesi, nissun altro rimedio giudicavano piú comodo, efficace ed opportuno, che se la Santitá sua, col consenso della Maestá cesarea, convocherá un concilio pio, libero e cristiano, quanto piú presto sia possibile, in un luoco conveniente in Germania: cioè in Argentina, Magonza, Colonia o vero Metz, non differendo la convocazione piú d’un anno; e che in quel concilio ad ognuno, cosí ecclesiastico come secolare, sia concesso di poter parlare e consegliar a gloria di Dio e salute dell’anime, non ostante qualunque giuramento o vero obbligazione. Il che tenendo dovere essere eseguito da Sua Santitá con prontezza e celeritá, né volendo restar di far al presente quelle meglior provvisioni che possibili siano per il tempo intermedio, hanno deliberato di procurar con l’elettor di Sassonia che li luterani non scrivino né stampino altro, e che per tutta Germania li predicatori, taciute le cose che possono muover tumulto popolare, debbino predicar sinceramente e puramente il santo Evangelio secondo la dottrina approvata dalla Chiesa, non movendo dispute, ma riservando sino alla determinazione del concilio tutte le controversie. Che i vescovi deputino uomini pii e litterati per sopraintender alli predicatori e informarli e correggerli, ma in maniera che non si possi sospettar che si vogli impedir la veritá evangelica; che per l’avvenire non si stampi cosa nuova, se non veduta e reconosciuta da uomini di probitá e dottrina, sperando con questi mezzi di ovviar alli tumulti, se la Santitá sua fará la debita provisione alli gravami e ordinará il libero e cristiano concilio: sperando che cosí li tumulti si quieteranno e che la maggior parte si ridurrá a tranquillitá. Perché gli uomini da bene senza dubbio vorranno aspettar la deliberazione del concilio, quando vederanno che si sia per celebrar presto. E quanto alli preti che si maritano e religiosi che ritornano ai secolo, poiché nelle leggi civili [p. 44 modifica] non vi è pena, pensano che basti se siano puniti dagli ordinari con le pene canoniche; ma se commetteranno alcuna scelleratezza, il prencipe o vero podestá, nel territorio de’ quali falleranno, gli dovrá dare il debito castigo.

Il nuncio non restò sodisfatto di questa resposta e venne in resoluzione di replicare. E prima, quanto alla causa perché non fosse eseguita la sentenzia del papa e l’editto dell’imperator contra Lutero, disse non satisfare la ragione allegata che si fosse fatto per fuggir li scandali, non convenendo tollerar il male acciò ne venga bene, e dovendo tenir piú conto della salute delle anime che della tranquillitá mondana. Aggionse che non si dovevano scusar li seguaci di Lutero per li scandali e gravami della corte romana; perché se ben fossero veri, non si debbe perciò partire dall’unitá cattolica, ma piú tosto sopportar pazientissimamente ogni male. Per il che li pregava dell’esecuzione della sentenzia e dell’editto, inanzi che la dieta si finisse: e se la Germania è in alcun conto gravata dalla corte romana, la sede apostolica sará pronta di sollevarla; e se vi sono discordie tra gli ecclesiastici e li prencipi secolari, il pontefice le componerá ed estinguerá. Che quanto alle annate, altro non diceva per allora, poiché opportunamente Sua Santitá averebbe dato resposta; ma quanto alla domanda del concilio, replicò che sperava non dover despiacer a Sua Santitá se l’avessero domandato con parole piú convenienti, e però ricercava che fossero levate tutte quelle che potessero dar qualche ombra alla Beatitudine sua; come quelle parole, che il concilio sia convocato col consenso della Maestá cesarea; e quelle altre, che debbia esser libero e che debbiano esser relassati i giuramenti, e il concilio sia celebrato piú in una cittá che in un’altra; perché, se non si levino, parerá che voglino legar le mani alla Santitá sua; cosa che non fará buon effetto. Quanto alli predicatori, ricercò che si osservasse il decreto del pontefice che per l’avvenire nissun potesse predicar, se la dottrina sua non fosse esaminata da vescovo. Quanto alli stampatori e divulgatori de’ libri, replicò che in nissun modo le piaceva la risposta; ma che dovesser [p. 45 modifica] eseguir la sentenzia del papa e dell’imperatore; che i libri si abbruciassero e fossero puniti li divulgatori di essi: instando ed avvertendo che in questo sta il tutto. E quanto alli libri da stamparsi, si debbia servar il moderno concilio lateranense. Ma quanto alli preti maritati, la risposta non li dispiacerebbe se non avesse un aculeo nella coda, mentre si dice che se commetteranno alcuna sceleratezza saran puniti dalli prencipi o potestá; perché questo sarebbe contra la libertá ecclesiastica, e sarebbe metter la falce nel campo d’altri e toccar quelli che sono reservati a Cristo. Conciossiacosaché non debbono li principi presumer di credere che per l’apostasia si devolvino alla loro giurisdizione, né possino esser castigati da loro degli altri delitti; imperocché restando in loro il carattere e l’ordine, sono sempre sotto la potestá della Chiesa, né possono far altro li principi che denonciarli ai loro vescovi e superiori che li castighino; concludendo in fine che li ricercava ad aver sopra le medesime cose piú matura deliberazione, e dar riposta megliore, piú chiara, piú sana e meglio consultata.

Nella dieta non fu gratamente veduta la replica del nuncio, e comunemente tra quei prencipi si diceva il noncio aver una misura del bene e del male per sola relazione all’utilitá della corte, e non alle necessitá della Germania; la conservazione dell’unitá cattolica dovere maggiormente muovere a fare il bene, facile da eseguire, che a sopportar il male, difficile a tollerare. E nondimeno il noncio ricercava che la Germania sopportasse pazientissimamente le oppressioni inferitegli dalla corte romana, non volendo essa piegarsi pur un poco al bene, anzi piú tosto a desistere dal male se non con sole promesse; ed averebbe mostrato troppo vivo senso quando fosse restata offesa dalla dimanda del concilio, tanto modesta e necessaria. E dopo longa discussione fu risoluto di comun parere di non far altra risposta, ma aspettar quello che il pontefice risolvesse sopra la giá data.

Li principi secolari poi a parte fecero una longa querela di ciò che pretendevano contra la corte romana e contra tutto [p. 46 modifica] l’ordine ecclesiastico, reducendola a cento capi, che per ciò chiamarono Centum gravamina: li quali, perché il nuncio, col quale erano stati conferiti, si partí prima che fossero distesi, mandarono al pontefice con una quasi protesta di non voler né poterli tollerar piú, e di esser dalla necessitá ed iniquitá costretti a cercar di liberarsene con ogni industria per le piú comode vie che potessero.

Longo sarebbe esprimer il contenuto: ma in somma si querelavano del pagamento delle dispense ed assoluzioni, delli danari che si cavavano per indulgenze, delle liti che si tiravano in Roma, delle reservazioni de benefici e altri abusi di commende ed annate, della esenzione degli ecclesiastici nelli delitti, delle scomuniche ed interdetti ingiusti, delle cause laiche con diversi pretesti tirate all’ecclesiastico, delle gran spese nelle consegrazioni di chiese e cimiteri, delle penitenzie pecuniarie, delle spese per aver i sacramenti e la sepoltura. Li qual tutti riducevano a tre principali capi: al mettere in servitú li popoli, spogliarli de’ danari ed appropriarsi la giurisdizione del magistrato secolare.

A’ 6 di marzo fu fatto il recesso con li precetti contenuti nella risposta al nuncio, e fu poco dopo ogni cosa stampata; cosí il breve del papa come anco la instruzione del nuncio, le risposte e repliche e li cento gravami, e furono divulgati per Germania, e di lá passarono ad altri luoghi ed anco a Roma.

Dove la aperta confessione del pontefice, che dalla corte romana ed ordine ecclesiastico venisse l’origine d’ogni male, non piacque, e generalmente non fu grata alli prelati; parendo che fosse con troppo ignominia e che dovesse renderli piú odiosi al secolo e potesse esser causa anco di farli sprezzare dalli popoli; anzi dovesse farli luterani piú audaci e petulanti. E sopra tutto premeva il vedere aperta una porta, dove per necessitá sarebbe introdotta o la tanto aborrita moderazione de’ comodi loro, o vero convinta la incorriggibilitá. E quelli che scusavano piú il pontefice, l’attribuivano alla poca cognizion sua delle arti con quali si mantiene la potenzia pontificia [p. 47 modifica] e l’autoritá della corte, fondate sopra la riputazione; e lodavano papa Leone di giudicio e prudenzia, che seppe attribuir la mala opinione, che la Germania aveva del li costumi curiali, alla poca cognizione che di essa avevano; e però nella bolla contra Martino Lutero disse che se egli, essendo citato, fosse andato a Roma, non averebbe trovato nella Corte gli abusi che si credeva.

Ma in Germania li mal affetti alla corte romana interpretavano quella candidezza in sinistro, dicendo che era una solita arte di confessar il male e prometterne il rimedio, senza alcun pensiero d’effettuar niente, per addormentar gl’incauti e goder il beneficio del tempo, e tra tanto, col mezzo delle pratiche con li prencipi, fortificarsi in modo che potessero meglio assoggettir i popoli e levargli il potersi opponer ai loro voleri ed anco il poter parlar de’ loro mancamenti.

E perché diceva il pontefice che bisognava nel remediare non tentar di provveder a tutto insieme, per il pericolo di causar mal maggiore, ma far le cose a passo a passo, si ridevano, soggiongendo che ben a passo a passo, ma in maniera che tra un passo e l’altro intervenisse la distanzia d’un secolo.

Ma attesa la buona vita tenuta da Adriano inanzi il pontificato, cosí dopo assonto al vescovato e cardinalato, come anco per inanzi, e la buona intenzione che si scopriva in tutte le sue azioni, gli uomini pii interpretarono il tutto in buon senso, credendo veramente che egli confessasse gli errori per ingenuitá e che fosse anco per porgervi rimedio piú presto di quello che prometteva. Né l’evento lasciò giudicar il contrario; perché non essendo la corte degna di un tal pontefice, piacque a Dio che passasse all’altra vita quasi immediate dopo ricevuta la relazione dal suo nuncio di Norembergo. Perché a’ 13 settembre egli finí il corso delli suoi anni.

Ma in Germania, quando fu pubblicato il decreto del recesso di Norembergo con li precetti sopra le prediche e stampe, dalla maggior parte non ne fu tenuto conto alcuno; ma li interessati, cosí quelli che seguivano la chiesa romana come li luterani, l’intesero a loro favore. Perché dicendosi che si [p. 48 modifica] tacessero le cose che potriano mover tumulti popolari, intendevano i cattolici che si dovessero tacer le cose introdotte da Lutero nella dottrina e la reprensione degli abusi dell’ordine ecclesiastico; e li luterani dicevano esser stata mente della dieta che si dovessero tacere le difese degli abusi, per le quali il popolo si moveva contro li predicatori quando udiva rappresentar le cose cattive come le buone: e quella parte del decreto che comandava di predicar l’Evangelio secondo la dottrina de scrittori approvati dalla Chiesa, li cattolici intendevano secondo la dottrina delli scolastici e degli ultimi postillatori delle Scritture; ma li luterani dicevano che s’intendeva delli santi padri, Ilario, Ambrosio, Agostino, Gieronimo e altri tali; interpretando anco fosse loro lecito, per virtú dell’editto del recesso, continuar insegnando la loro dottrina sino al concilio, siccome li cattolici intendevano che la mente della dieta fosse stata che si dovesse continuar nella dottrina della chiesa romana: onde pareva che con quell’editto, in loco d’estinguersi il fuoco delle controversie, quelle si fossero maggiormente accese; e per tanto restava nelle pie menti il desiderio del concilio libero, al quale pareva che ambe le parti si sottomettessero, sperandosi che per quello dovesse seguir la liberazione da tanti mali.