Il tesoro (Deledda)/Capitolo XI
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XI.
Se Cicchedda avesse veduto uno dei fantasmi che temeva sempre di incontrar nella notte, non si sarebbe certamente spaventata di più.
Costanza oramai le incuteva una specie di paura fisica, che in quel momento la paralizzò; parve che il sangue le si fermasse nelle vene; il volto le si fece bianchissimo, ma ebbe il moto istintivo di stringersi ad Alessio, quasi cercando protezione. Egli s’accorse di tutto; ebbe un fremito d’ira, ma dominandosi disse con voce tranquilla:
— Cicchedda, porta a letto il bimbo.
Ella si curvò, ma Costanza le fu sopra, le diede uno spintone e prese il bambino: la fanciulla battè la fronte sulla tavola, e gemette.
Allora l’ira d’Alessio traboccò, e gli occhi gli luccicarono spaventosamente.
— Lascia stare mio figlio! — urlò con voce terribile, slanciandosi dietro Costanza e strappandole il bimbo: ella ebbe paura, Domenico si svegliò tremando e piangendo lamentosamente, e al suo pianto anche Cicchedda, che aveva veduto le stelle e si stringeva la fronte per il dolore, cominciò a singhiozzar forte. Era una desolazione, un’angoscia, uno spasimo senza nome in quei singhiozzi sfrenati, in quel pianto amaro che empiva la camera di gemiti. E Domenico, vedendola piangere, raddoppiò i suoi strilli, il suo pianto senza lagrime.
— Vattene! — gridò Alessio a Costanza.
— Perchè me ne vado? — saltò su essa come una vipera. — Son forse in casa tua?
— Ah, giusto! — diss’egli amaramente, come colpito. E se la prese col bimbo e con Cicchedda, che continuavano a piangere.
— Finiscila, demonietto, altrimenti ti batto. Prendi, Cicchedda, portalo a letto, e tu pure finiscila, figlia di Dio! Vi dico!... — concluse minaccioso, porgendole il piccino. Entrambi si calmarono e s’avviaron singhiozzando appena a fior di labbro; ma fu tale l’indignazione di Costanza, vedendo Alessio porre il figlio fra le braccia dell’amante, dopo averlo strappato a lei, che cominciò a ingiuriar aspramente Cicchedda. Questa uscì senza rispondere, ricominciando a singultare; e Alessio alzò allora la mano per percuotere la cugina.
— Non so cosa mi tenga! — disse a denti stretti.
Ella non si scansò; solo incurvò leggermente le spalle e disse:
— Sì, non ci manca che questo, Alessio Piscu! Tutto l’altro l’hai fatto! Ah, ma non credevamo mai che ti prendessi così giuoco della casa nostra!
Egli volle parlare, ma ella non gli lasciò aprir bocca.
— Ah, ti credi che io sia entrata qui stasera per altro? Sono entrata semplicemente per farti vedere che ci accorgiamo di tutto, e che nessuno può beffarsi di noi alle nostre spalle. Del resto fa quel che vuoi; sei padrone di romperti l’osso del collo, ma non è giusto che tu copra di vergogna la casa di Salvatore Brindis, la più onesta di Nuoro!...
Ella parlava con tale fierezza, con tono fra il risentito e il lamentoso, che Alessio ne restò profondamente colpito. La sua collera parve calmarsi; sentì che la cugina, quali si fossero i sentimenti che la spingevano ad operar così, aveva ragione; provò un vago disgusto, un senso di vergogna e di rimorso, ma non si diede per vinto. Disse:
— Ve la toglierò presto questa vergogna, oh, se ve la toglierò! Ma forse ve ne pentirete!
Costanza capì, con un po’ di terrore, ch’egli se ne sarebbe andato. Non ci aveva mai pensato; ed ora, calcolando rapidamente quanto danno ne avrebbero avuto, divenne più conciliante. Tuttavia il diverbio durò a lungo: Cicchedda piangeva dentro l’altra camera, e neppur le carezze di Domenico, che le passava le manine sul volto, dicendole piano: — Pecchè piangi? pecchè? — la calmarono.
Una volta aprì lievemente la porta per mettersi in ascolto, ma si ritrasse inorridita vedendo zia Agada ad origliare sul portico. Sentiva bene che l’indomani l’avrebbero vergognosamente scacciata; forse avrebbero convinto Alessio a dimenticarla.... e mille orribili idee le tempestavano la fronte. Pensò di fuggire, di suicidarsi se Alessio la dimenticava; e aveva poi una gran paura, una gran vergogna di ripresentarsi a Salvatore Brindis.... Affondando la faccia sul letto, per reprimere i singhiozzi convulsi, vedeva il viso colorito e gli occhi rossi del padrone che la fissava acutamente con l’espressione dell’altra notte, e sentiva la sua voce, le sue parole severe e affettuose che l’avevano costretta a pianger davanti a lui.
Quella notte, per fortuna, egli era in campagna; altrimenti non avrebbe certo pazientato fino al domani per mandarla via. Ma l’indomani egli ritornava, e Dio sapeva che scandalo doveva accadere. L’indomani invece, quando egli rientrò, non s’accorse di nulla, ed ella vide con stupore che non solo non la scacciavano, ma non le rivolgevano neanche la minima allusione al fatto della sera prima. Alessio potè finalmente uscire, ed anzi si fece un po’ di festa per la sua guarigione e per la vendita dei porci conclusa quel giorno con un negoziante di Cagliari: vennero degli amici, bevettero, e Salvatore si prese una sbornia numero uno.
Dopo vari giorni Cicchedda seppe da Alessio che le donne, spaventate dalla sua minaccia di andarsene, si eran calmate, chiedendogli anzi scusa, e dicendogli che operavan così per il bene di lei e per il decoro della casa! Ma gli avevan strappato la promessa di non molestare più la ragazza.
Ma dopo quella scena la discordia entrò in casa Brindis. Alessio non mantenne la promessa, anzi arrivò a tal punto che non si dava più alcun pensiero delle parenti. Cicchedda lo esortava alla prudenza, lo supplicava, lo sfuggiva, paurosa d’un nuovo scandalo; e viveva una vita terribile, maltrattata più che mai dalle padrone, che facevano di tutto perchè se ne andasse da sè, per non provocare altrimenti la collera d’Alessio. Ma per quanto soffrisse, ella non pensava d’andarsene, e tutto avrebbe patito, fuorchè allontanarsi da lui.
Una catena fatale di convenienze, di interessi, di egoismo, li legava strettamente gli uni agli altri: per tre mesi vi si dibatterono entro dolorosamente, con amarezze, piccolezze, viltà e rancori d’ogni sorta: sentivano che questo stato insopportabile non poteva durare, eppure cercavano di prolungarlo.
Soli Domenico e lo zio passavan sereni fra la continua tempesta: davanti a Salvatore tacevan le ire e gli scandali, ed egli, credendo anzi che Cicchedda, dopo la sua predica, s’era levati i grilli di testa, e che Agada la sorvegliasse, era tranquillo.
Ma una sera di maggio, ritornando pensieroso di campagna, raggiunse nello stradale comare Franzisca, che tornava anch’essa dalla valle, con in capo un fazzoletto sporco pieno di erbaggi rubati e con un fascio di fuscelli da ardere.
Lo stradale era deserto, s’udivan solo carri roteare in lontananza, e la sera calava luminosa e quieta.
Il cavallo di Salvatore, che aveva capito di tornare verso la mangiatoia, andava lesto, a testa alta, e appena comare Franzisca lo vide, ebbe un sorriso maligno. Era tanto tempo che desiderava parlar occasionalmente al compare!
— Buona sera — diss’ella con voce insinuante. — Tornate dal chiuso, compare?
— Così sembra! — diss’egli senza scomporsi, e proseguì; ma l’altra gridò:
— Aspettate, aspettate, chè mi sono ricordata una cosa. Dovevo venir a casa vostra, ma voi mi risparmiate i passi.
— Cosa diavolo vuole? — pensò egli tirando la briglia al cavallo.
— Ditemi, compare, devo cercar una domestica: è vero che mandate via Cicchedda? La vogliono in una buona casa...
— Ma perchè dobbiamo mandarla via? Ma come dobbiamo mandarla via? — interruppe Salvatore con violenza.
— Ma... quello lo sapete voi! Io l’ho sentito dire.... — fece la donna malignamente.
Salvatore Brindis poteva per tre mesi non accorgersi di quanto accadeva in casa sua, ma si avvide benissimo che la comare accennava maligna a qualche cosa. E disse con voce brusca guardando in avanti:
— Cosa volete dire? Cosa avete inteso dire?...
— Ma.... nulla! Solo che mandavate via Cicchedda perchè faceva all’amore con Alessio! Questo lo dice tutta la città.
— Tutta la città? Ma che città d’Egitto! Cosa può dir la città se non sciocchezze e pettegolezzi?...
— Non v’arrabbiate così, compare Salvatore.... — cominciò beffarda la donna.
Ma compare Salvatore spronò il cavallo, che quasi le sparò un calcio in viso, e s’allontanò sbuffando.
Ella restò male. — Andate un po’ ad aprir gli occhi ai ciechi, a far bene agli stolti! E come voler abbatter un masso con la fronte! — pensò melanconicamente, e non s’accorse che le fronde cadevano dal fazzolettaccio pieno degli erbaggi rubati.
Salvatore Brindis rientrò a casa con una ciera chiusa, e Agada, che ne conosceva bene i malumori silenziosi, e li temeva più delle collere violente, lo guardò senza chiedergli nulla, aspettando ch’egli parlasse.
Agada, deposto il paiolino dell’acqua tiepida in mezzo alla stanza, cominciò a slegarsi il grembiule. Vedendo suo marito andar su e giù sbuffando, gli chiese:
— Cos’hai?
Allora egli le si piantò davanti, e fissandola in volto, e sollevando un angolo della bocca con amaro sogghigno, disse:
— Cosa ho? Te lo dirò ora. Ho due cose. La prima, che sono minacciato di morte....
— Da chi? — domandò ella turbata.
— Ne so molto io da chi! Cioè, sì, lo so benissimo, ma tu stessa l’indovini. Vicino alla capanna del chiuso oggi ho trovato una fossa scavata, e una croce piantata vicino.1
— E tu cos’hai fatto? — chiese Agada con gli occhi pieni di paura.
Salvatore si mise a ridere, ma d’un riso amaro, a bocca chiusa.
— Cosa ho fatto? Ho riempito la fossa, e ci ho seppellita la croce. Sta quieta, donna! Salvatore Brindis non morrà che per mano di Dio, il più tardi possibile. Io me ne infischio altamente di Scoppetta, che la giustizia lo abbruci! (Agada aveva già capito che la minaccia proveniva dal bandito). Ma c’è un’altra storia che mi interessa. Ti ricordi, una notte io ti dissi di badare alla tua domestica. Hai tu badato, Agada Brindis?
— Ha scoperto! — pensò ella, ma disse:
— Sicuro!
— E che cosa me ne dici?
— Perchè mi fai questa domanda?
— Perchè? — disse Salvatore alzando la voce e facendosi più rosso del solito — perchè io son l’ultimo a sapere i fatti di casa mia!
E siccome la moglie chinandosi per togliersi le scarpe, non protestava, la sua ira scoppiò. Non gridò, ma il suo accento grosso e duro, i suoi gesti furiosi, lasciavano intendere violente risoluzioni.
— Domani rideremo! Non credevo mai che Alessio fosse così vile. E glielo dissi: Lasciala stare quella ragazza, non scherzare con lei: è come nostra figlia! Ed egli dunque non mi ha badato? Ma ora glielo ricorderò io! Ah, egli crede che qui non si possa viver senza di lui? Invece io gli insegnerò il contrario, gli insegnerò come....
— Cosa dici, cosa dici, Salvatore? — esclamò Agada con dolcezza. — Non c’è bisogno di far scandali; si accomoderà tutto; son cose da nulla.
Ma egli non le badò; parlava fra sè, battendo forte un calcagno sul pavimento che tremava tutto.
— È una viltà che pagherà cara! Fuori di casa mia, subito! Se gli devo seicento lire, gliene restituirò settecento. Ma fuori di casa mia, subito!
— Salvatore, Salvatore, senti....
— Non voglio sentir nulla! E tu, donna del diavolo, non sei buona a guardar la tua casa! Ah! ah! — rise di nuovo amaramente.
— Ah il vedovo che non sapeva darsi pace! E un anno dopo, mentre forse la moglie è ancora intatta nella sua fossa, egli va a tentar le ragazze che....
— Una serva! — disse Agada con disprezzo.
— Una serva! — gridò egli con occhi lampeggianti. — Appunto per ciò doveva lasciarla stare. Una ragazzina disgraziata!...
Agada, infastidita, cominciò a imprecare contro Cicchedda.
— Era lei la cattiva: Alessio non aveva colpa; egli era uomo, e gli uomini, si sa, sono uomini....
Maledetto il giorno, l’ora e il momento che quella sciocca aveva messo piedi in casa loro. L’indomani l’avrebbe appiccata al fico....
— Cosa borbotti, donna scipita? — disse Salvatore. — Toccava a te dar attenzione in casa tua. Bella fama ora ti acquisterai!
— La mia fama? — strillò Agada. — La mia fama sarà sempre buona: peggio per chi perde la sua! E tu, vecchio arrogante, tu sei buono solo a difendere i cattivi e i malvagi, tu....
Si bisticciarono acremente, e Agada colse l’occasione per sfogare tutta la sua amarezza, la sua infelicità, rinfacciando al marito tutta la sua vita, gli errori, le debolezze; e lo maledisse e lo imprecò. Allora egli s’irritò davvero, e alzò la voce.
Il rumore dell’alterco risuonava per il cortile nella notte tranquilla. Ritta sul portico Costanza ascoltava; non afferrava tutte le parole, ma capiva di che si trattasse e comprendendo che finalmente l’insopportabile situazione stava per sciogliersi, provava una maligna sensazione di gioia e d’angoscia. Ella salì piano piano le scale, e andò ad origliare alla porta degli zii: allora Cicchedda, pallida e tremante, uscì a sua volta nel portico e cercò d’ascoltare.
Ma che cosa accadeva là sopra? Le voci si facevano esasperate e rauche: si sentì il rumore di una lotta, un oggetto pesante cadde per terra, e risuonò un grido acuto ed angoscioso di Costanza: — Zia mia! zia mia!... — Cicchedda si slanciò, fuori di sè, per le scale, e si presentò sulla porta spalancata: vide confusamente il pavimento inondato d’acqua, e mentre guardava con stupore, Costanza le si precipitò col pugno teso, gridandole: — Per te, vile!
Diede addietro spaventata, ma tosto si accorse che il male non era irrimediabile. Salvatore aveva semplicemente dato uno schiaffo a sua moglie, e rovesciato involontariamente il paiolino dell’acqua tiepida. Per l’effetto di queste due cause, zia Agada si era calmata come per incanto; immediatamente si mise a cercar stracci per asciugar il pavimento, mentre Costanza, tremando nervosamente, non sapeva dir altro che: — Vile! vile! — tanto per Cicchedda che per zio Salvatore.
Egli, ritto in mezzo a quel piccolo mare, un po’ sbalordito dalla sua prodezza (in venti anni era la prima battaglia decisiva vinta contro sua moglie), già roso dal rimorso, vista la faccia stravolta di Cicchedda, se la prese subito con lei.
La ingiuriò ferocemente, poi stese un braccio gridando: — Fuori, subito fuori! — I suoi occhi brillavano come quelli d’un gatto rabbioso, e Cicchedda ne ebbe paura. Ella disse qualche cosa, ma non ricordò mai quel che disse. Vide zia Agada che, raccogliendosi le sottane fra le gambe, si chinava per asciugare il pavimento con uno straccio, e Costanza che aggirandosi su sè stessa diceva sempre: — Vile! Vile!
Poi ebbe l’impressione delle minacce di Salvatore Brindis, che la spingevano a saltar la scala, quattro gradini per volta. E senza saper come, nè perchè, si trovò sulla viuzza, singhiozzando senza lagrime.
Nell’alto cielo d’un azzurro pallido e trasparente le stelle tremavano come lontani fuochi d’argento; un cantico sardo saliva melanconico e sonoro; ed ella, scalza ed in maniche di camicia, senza letto, nè famiglia, cominciò ad errare senza meta nè rifugio, camminando silenziosamente per le vie strette, rasentando le mute casette immerse nel sonno della miseria. Sentiva l’antica angoscia di ciò che aveva per sempre perduto, e le sembrava d’aver perduto la vita.
Girovagò così, col grembiale sul viso e le palpebre bruciate da lagrime di sangue, finchè una donna, che camminava scalza pur essa, le fu addosso inavvedutamente. Si fermarono entrambe, e benchè Cicchedda si celasse il volto nel grembiale, l’altra la riconobbe e s’accorse che piangeva.
— Sei tu, Cicchedda?
— Zia Franzisca? Dove andate?
— Cos’hai? Perchè piangi? A quest’ora! Cosa c’è? — domandò la donna, tirandole un lembo del grembiale.
— Mi hanno mandata via! — disse la ragazza, ricominciando a piangere.
— Oh, poverina, oh, poverina! — cominciò ad esclamare comare Franzisca. — Non te l’avevo detto io di non fidarti! È gente cattiva e senza cuore; li conosco bene, io. Ma te lo avevo detto: Cicchedda, vattene prima che ti mandino via, accomodati, Cicchedda! Ma non mi hai dato retta!
Così confortandola la trasse con sè: ed ella le andò dietro piangendo sommessamente, e raccontandole ogni cosa.
Comare Franzisca la condusse nella sua casetta triste e in rovina, vicina al camposanto; e voleva farla dormire sul suo giaciglio, ma ella preferì stendersi per terra, sopra un sacco. E non dormì certamente.
La donna le prometteva d’introdurla subito a servire in casa Bancu; ma che importava ciò? Nessuna casa poteva farle dimenticare quella di Salvatore Brindis!
Si alzò prima dell’alba e uscì sulla spianata: le stelle brillavano ancora, un gallo cantò raucamente in lontananza, altri risposero, più vicini, intorno, intorno, ad intervalli; ed in quei canti rauchi, vibrati nel fresco silenzio dell’alba, le parve di sentire il pianto lamentoso ed accorato di Domenico, e fu invasa dal desiderio struggente di abbracciare il bimbo, di baciarlo sulle guance rosee.
Poi guardò le ultime stelle e pensò ad Alessio con infinita tristezza.
Dov’era egli in quell’ora? Che accadrebbe al suo ritorno? A chi egli darebbe ragione? Pensò che forse i Brindis lo convincerebbero a dimenticarla, e la sua tristezza si fece mortale.
Ma verso mezzogiorno comare Franzisca, andata dai Brindis per farsi restituire le vesti di Cicchedda, e per esplorare gli avvenimenti, le portò strane novelle.
— C’è l’inferno, con tutti i demoni scatenati.
— Cosa c’è? — chiese ella tremando.
— Eh, nulla! — rispose l’altra, beffarda. — Salvatore Brindis ha cacciato via di casa sua il nipote. Quasi s’ammazzavano!
— Dio mio, nostra Signora mia! — ella gemè.
Franzisca versò una scodella d’acqua su un pane d’orzo, e apprestandolo con un pezzetto di formaggio che pareva calce in un vecchio canestro rosicchiato, la invitò a mangiare.
Intanto ricostruì il fatto, come aveva potuto capirlo. Alessio era rientrato verso le nove, e Salvatore, senza neppur lasciargli rimetter il cavallo nella stalla, aveva cominciato a inveire violentemente contro di lui, chiamandolo vile.
Sulle prime Alessio aveva risposto pacatamente, anzi, scherzosamente.
— O zio Salvatore, o zio Salvatore, perchè ve la pigliate così? — E lo guardava maliziosamente, negando i fatti, ma con aria di conquistatore.
Ma quando seppe che Cicchedda era stata cacciata e che la faccenda andava sul serio, si alterò. Lo zio continuò a caricarlo di vituperi, di rimproveri violenti, e fra le altre cose gli ricordò le parole dettegli nell’autunno passato, il giorno che salivano all’ovile della montagna.
— Io non me ne ricordo! — disse Alessio sdegnosamente. — Come volete che ricordi le vostre sciocchezze?...
S’intromisero le donne, e ciò fu un male irrimediabile, perchè naturalmente, invece di calmare gli animi, li inasprirono. Siccome Alessio pareva volesse rinfacciare a Salvatore i favori fattigli, lo zio gli disse d’andarsene di casa sua.
Ed egli se ne andò.
Le donne piangevano, imprecando Cicchedda, dando ogni torto a Salvatore e chiamandolo scandaloso e matto. E Costanza si prese due sonori ceffoni che la stordirono. Egli pareva impazzisse davvero; non aveva mai adoprato argomenti così decisivi contro le sue donne; e siccome le loro invettive continuavano ad irritarlo, per sfuggire alla tentazione di proseguire, sellò il cavallo, e sbuffando uscì.
Le donne credevano che tutto finisse bene, che egli si calmasse, che Alessio ritornasse. Ma Alessio non ritornò, nè Salvatore si calmò.
All’una pomeridiana comare Franzisca tornò per reclamare di nuovo le vesti di Cicchedda, e vide uscire una parente attempata dei Brindis, col piccolo Domenico per mano. Riuscì a sapere che l’aveva mandata Alessio, con l’ingiunzione precisa di prender il bimbo: verso sera avrebbe fatto ritirare la sua cavalla e i suoi indumenti. Egli poi non avrebbe più rimesso piede in casa Brindis!
Grandi ragionamenti, spiegazioni e narrazioni e lamenti eran corsi fra Agada e la parente. Agada s’era persino messa a pianger sconsolatamente, dicendo che non cedeva il bimbo, ma l’altra, donna molto savia e composta, l’aveva convinta.
— Datemi il bimbo, altrimenti potrà accadere un nuovo scandalo. Lasciate che il fuoco si spenga, e ogni cosa si appianerà.
Ma il fuoco non si spense: una collera sorda e inesorabile limava il cuore d’Alessio; ogni insulto dello zio gli risuonava con insistenza nel pensiero, e l’ultima terribile offesa, l’averlo così scacciato come un servo, gli vibrava in tutte le vene. Ora, in nessun paese del mondo l’ira e l’odio fra parenti son più inesorabili come a Nuoro, ove il detto popolare afferma: «Gente tua, morte tua».
Ma rientrando nella sua casetta, ove era stato tanto felice, dove Maria era morta, provò una tristezza profonda. Non ci rimetteva piede da un anno; nessuna cosa era stata toccata; i ricordi così gli tornarono acutissimi, l’aria chiusa delle stanze buie gli soffiò sul volto, sul cuore, con la viva sensazione delle cose passate, che parevano lontane, e che invece erano tutte lì vicine, e lo attorniavano, e lo stringevano dolorosamente.
Il ricordo di Maria lo afferrò struggente, il male commesso dopo la morte di lei gli apparve nitido al pensiero; tutte le azioni di quell’anno di vedovanza presero un aspetto diverso; tutto ciò che gli era sembrato naturale e inevitabile ora gli dava una penosa impressione di colpa e di viltà.
Eppure gli pareva che il ricordo di Maria lo purificasse, rendendolo come prima, quando la felicità lo rendeva buono ed indulgente.
E credè di calmarsi, di considerare con indulgenza gli avvenimenti; ma non potè ritornare in casa Brindis, pur sentendo a quanto danno materiale e morale andasse incontro. Uscito dall’ambiente suggestivo di casa sua, fu ripreso dalle cattive sensazioni di collera, e ritornandovi, la impressione dolente e buona del passato si fece più tenue, più vaga, finchè scomparve del tutto.
Ma passò una triste notte. Domenico piangeva domandando di Cicchedda; egli s’irritò contro di lei, che gli causava tanti malanni, poi sentì quanto anch’ella dovesse soffrire, e ne ebbe compassione. Cercò di chetare il bimbo, lo minacciò, lo battè leggermente; ma solo la stanchezza ed il sonno calmarono Domenico, e anche dormendo, con la guancia ancora bagnata da una lagrima, le sue labbra di corallo tremavano, e un lieve singulto lo agitava.
Il padre lo guardò a lungo, sorrise vedendo il piccolo volto così atteggiato, ma poi si rattristò: nello strazio sottile dell’insonnia, i ricordi più amari, i particolari più umilianti e tristi della sua vita lo assalirono.
L’indomani mattina Domenico ricominciò a piangere non vedendo Cicchedda, nè le zie. Dov’erano andate? Perchè tutto cambiava intorno a lui? Anche il suo cervellino si smarriva e si rattristava.
Alessio lo riportò dalla vecchia parente, che gli fece un lungo e insinuante discorso per convincerlo di ritornar dai Brindis.
— Voi avete ragione — disse Alessio — ma come volete che ritorni se son stato cacciato?
— Si accomoderà ogni cosa; ma tu fa il prudente, fa il savio. Che scandalo, che danno non è questo?
Egli se ne andò dandole ragione, ma in quella mattina fece ritirare da casa Brindis le sue provviste e il suo vino. Le persone mandate per ciò gli riferirono che Salvatore aveva sul proposito riso e scherzato beffardamente con leggerezza insultante.
Egli non disse nulla, ma fra sè fremè d’ira e ogni sua buona disposizione svanì.
Così restò a casa sua, con una donna di servizio, cercata da lui con poco tatto e nessuna competenza. Non era buona a nulla e lo interrogava e infastidiva per ogni piccola cosa domestica; dopo tre giorni, in cui ella aveva malamente preso possesso della casa, e Domenico aveva sempre strillato e pianto, Alessio si sentì disperato. Gli toccava dar da mangiare al bimbo, e trattenersi a lungo per tentar di calmarlo; ma invano; solo il sonno vinceva Domenico, che in pochi giorni cambiò fisionomia, dimagrì, e un cerchio bluastro gli cerchiò i begli occhi verdi.
Alessio, tormentato anche dalle altre piccole miserie domestiche, non poteva uscir in campagna, nè curare i suoi affari: in fondo desiderava che Salvatore facesse un solo passo per richiamarlo: diceva che non si sarebbe piegato mai, ma sentiva che se lo zio gli avesse chiesto scusa e lo avesse richiamato, avrebbe accettato come una felicità.
Ma i Brindis non fecero un passo verso di lui, nè egli si mosse: anche Agada, visto il suo fiero contegno, si teneva in un riserbo glaciale; cercava con Costanza di saper ogni particolare sulla nuova vita di lui, per mezzo delle donne che le riportavano tutti i pettegolezzi della città, ma non mostrava più alcun desiderio di riconciliazione. Egli, a sua volta, veniva a saper tutte queste cose, e ne soffriva, e il suo astio si ravvivava.
Scusava un poco le donne, ma si chiedeva con meraviglia perchè mai Salvatore operasse così. Che lo zio non fosse un vaso di sapienza egli lo sapeva di certo, ma si stupiva che le sue stranezze e i suoi puntigli arrivassero a tal punto: e la sua tristezza dispettosa aumentava.
Vedeva ogni sera Cicchedda, ma ciò lo rattristava e lo irritava di più, perchè la ragazza, d’un umore tetro e tragico, piangeva sempre, e parlava di morte con disperazione sincera. Ella stava sempre da comare Franzisca, che diceva di cercarle una padrona, senza mai riescir a trovarla. Donna Francesca s’era già procurata un’altra domestica, ma per qualche giorno. Cicchedda andò a lavorare in casa Bancu. Elena l’interrogò sul motivo della sua uscita da casa Brindis, e vedendola soffrire la confortò con buone e dolci parole. Che soavità ella ne provava, e quale sguardo di timida e profonda riverenza rivolgeva ad Elena, la cui persona sottile, e il viso bianco e dolce, le sembravano di una pura santa. Avrebbe voluto inginocchiarsi davanti a lei e pregarla silenziosamente di continuare a confortarla: sentiva quanta distanza era fra loro, e come ella era miserabilmente diversa da Elena. Un giorno Elena le disse:
— Stai sempre da quella donna?
— Sì, signora.
— Ma possibile che tu non possa trovar padrona?
— Non ne possiamo trovare.
— Te la cerca forse quella donna?
— Sì, signora.
Elena pensò un istante, poi disse con dolcezza: — Sarebbe meglio che tu non abitassi oltre presso quella donna. Cercala tu la nuova padrona: la troverai. C’è la tal signora che cerca una fantesca.
Cicchedda promise di recarsi dalla signora: vi si recò, e combinarono; solo doveva entrar al servizio fra quindici giorni. E ricordando le parole d’Elena ritornò a malincuore presso la donnicciuola, che si alterò nel sentir della nuova padrona.
Ella, calma e quasi lieta, attese Alessio per parlargli con riverenza, con timore quasi di profanarne il nome, di Elena Bancu e del fascino che ne sentiva; ma quel giorno Alessio era più che mai triste e agitato. Quasi non bastassero le disgrazie domestiche — la serva che lo avvelenava con orrende pietanze, che gli rubava già le provviste e gli maltrattava il bimbo — verso le undici di quella mattina gli portarono una dolorosa notizia. Tre dei suoi migliori cavalli eran stati trovati scannati nella tanca, con i garretti troncati e le lingue strappate. Oltre un grave insulto, ciò significava minaccia di ulteriori danni: egli capì che si trattava del bandito Scoppetta, persecutore suo e di zio Salvatore; e subito si mise in moto, e partì a cavallo coi barracelli. Col sangue delle bestie scannate trovò segnata una croce sul cancello della tanca; minaccia tremenda di morte. Non provò paura, ma il sangue gli ribollì nelle vene: ritto, immobile, presso il rustico cancello, in mezzo alla vastità luminosa dei verdi pascoli allagati di sole, fra lo splendore della natura e del cielo, provò in quell’istante un fiero sentimento d’odio contro tutta l’umanità, un disgusto pesante della vita e di sè stesso.
Da un anno in qua troppi torti soffriva da ogni parte, da Dio, dai parenti, dai nemici e da sè medesimo!
Galoppando attraverso le verdi tancas, dove l’erba cominciava a indorarsi tra gli alti asfodeli argentei, spronò senza pietà la cavalla, e con la fronte aggrottata sentì tutti i suoi peggiori sentimenti prender possesso del suo essere; gli si spargevano come fiele nel sangue, e col sangue gli andavano al cervello, al cuore, a tutte le fibre, a tutti i nervi.
Avvicinandosi alla città, percorrendo lo stradale, guardò acutamente la mole rotonda delle carceri, che si disegnava nitidamente bianca nel caldo tramonto, poi sollevò gli occhi lentamente verso la montagna.
Pensò alla notte cruda e terribile della bardàna, e battè un pugno sulla sella; e in quel pugno v’era la decisione di affrontare il bandito nemico, di consegnarlo vivo o morto, come il bando diceva, alla umana giustizia.
Rientrando a casa trovò il bimbo molto sofferente, e la sguaiata domestica gli disse che Domenico non aveva preso cibo in tutta la giornata.
— Non ti ho detto di portarlo da zia Annarosa? — le gridò egli adirato.
— Non ci è voluto restare! — rispose la donna, e cominciò a parlar male.
Alessio la lasciò dire, e vezzeggiando il bimbo lo indusse a mangiare; ma quando egli stesso aprì l’armadio per prender qualche cosa, fu colto da raccapriccio, tanto disordine nauseante regnava lì dentro. C’erano stracci pieni d’olio in mezzo al pane, e panni sporchi sopra il formaggio; le posate posavano fra pezzetti di lardo e di latte coagulato secco, i piatti erano pieni di vino, e la saliera rigurgitava d’acqua. C’era soltanto un uovo rotto e un avanzo di minestra da poter dare al bambino.
La collera muta e profonda che vinceva Alessio nei suoi momenti più cupi, lo assalì. Pensò come Costanza avrebbe crudelmente riso davanti allo spettacolo di quell’armadio, e chiamata la serva, stese la mano, e chiese:
— Cos’è tutto questo sudiciume?
— Cos’è? cos’è? — strillò la donna, senza volersi voltare. — È nulla, non c’è nulla!
— Non c’è nulla? Te lo do io il nulla; ma voltati e guarda bene lì dentro!
L’altra non guardò punto, e continuò a borbottare:
— Io non mi faccio a pezzi: tutto in ordine non può stare!
— Ma voltati e guarda, perdio!
— Non c’è bisogno che alziate la voce....
E intanto non gli dava il gusto di guardare. Domenico piangeva sconsolatamente, ed egli, irritato in sommo grado da quei lamenti e dalla caparbietà della serva, gridò facendosi rosso:
— Ah, non ti volti, figlia del diavolo? Ti faccio guardar io....
E l’afferrò violentemente per la testa, per farla rivolgere verso l’armadio.
— Aiuto, aiuto, chè il padrone mi strangola!... — si mise a gridare la serva.
Allora egli non ebbe più freno, sentì davvero una pazza voglia di strangolarla, e gridando:
— Su diaulu chi tinch’a carrau! Non so proprio cosa mi tenga da... Fammi il santissimo piacere, va via di qui, e presto! altrimenti gridi davvero! — e le diede uno spintone verso la porta.
— Non l’avete con me! — gridò ella inviperita. — Con Salvatore Brindis l’avete, perchè vi ha scacciato di casa sua! E con chi vi ha ammazzato le cavalle. Ora — gli disse andandosene — ora portatevi qui l’olianese: essa salirà mettervi ordine in ogni cosa....
Ma queste parole, anzichè inasprirlo, lo calmarono. Aveva già pensato d’indur Cicchedda ad abitare con lui; e uno scrupolo tardivo, e il pensiero che ciò gli avrebbe inimicato tutta la parentela e resa impossibile la pace coi Brindis, l’aveva soltanto trattenuto dal formulare apertamente il suo desiderio. Le parole velenose della domestica gli fecero effetto: per gli avvenimenti della giornata era in uno stato d’animo da dimenticare completamente ogni scrupolo, agognando a un po’ di bene. Oramai Cicchedda era una buona massaia; gli avrebbe tenuto bene la casa, e chetato e guarito il bambino.
Pensava egoisticamente così, seduto accanto al letto ove Domenico, febbricitante, s’addormentava con lamento fioco e continuo. Solo il timore che i parenti s’offendessero lo tenne ancora in dubbio; e per quella sera, recatosi da Cicchedda, non le disse nulla, mostrandosi triste per la disgrazia dei cavalli e per lo stato poco soddisfacente del bambino.
— Chiama sempre te: io credo sia ammalato perchè gli manchi tu: se venissi a vederlo forse gli farebbe bene — le disse.
Ella arrossì, e negò vivamente di visitar il bimbo, benchè ne sentisse un desiderio struggente: egli allora capì che forse era inutile tentarla ad abitare con lui; ma comare Franzisca, saputa la cosa, l’indomani mattina andò a trovarlo, chiedendogli se aveva bisogno di qualche servizio. E capitò a tempo.
Domenico, dopo aver passato una cattiva notte, ora smaniava, con gli occhi cerchiati di grigio, i polsi irregolari e il ventre duro e ardente.
— Che abbia i vermi? — domandò ipocritamente la donna, guardandolo.
— Non so — disse Alessio disperato. — Non ne capisco nulla. Dacchè siamo qui ha fatto una vita infame, non ha mangiato nè dormito come Dio comanda.
— Forse Cicchedda potrebbe.... — cominciò la donna, con tono indifferente, sempre guardando il bimbo.
Alessio la fissò e non la lasciò proseguire. La sera prima gli avevano narrato che i Brindis s’eran rallegrati delle sue disgrazie; ed egli, per tutta la notte, tormentato dal lamento di Domenico, nuovamente ribollendo d’ira, s’era chiesto se non operava da sciocco usando ancora verso di loro certi riguardi.
La presenza di Cicchedda in casa sua gli sembrò necessaria per la salute del bambino; e il pensiero della sua riluttanza lo spronò maggiormente. Capì a volo le intenzioni di comare Franzisca e le disse:
— Oh, guardate un po’ voi se potete deciderla a visitare il bimbo....
— Umh!... è impossibile.... ma farò di tutto, benchè non sia conveniente....
Andata in cerca del medico, la donna non mancò di informarlo minutamente sulle cause della malattia di Domenico; e così il dottore, pur riconoscendo nel piccino un principio di febbri gastriche, sentenziò esserci anche una specie di nostalgia per le persone che usavano curarlo e vezzeggiarlo.
Allora Alessio sentì il bisogno prepotente di far venire Cicchedda.
— Se non viene da sè, ditele che la farò venire per forza: ditele che abbia un po’ di carità! — disse a comare Franzisca, minacciando e supplicando.
E attese ansiosamente, dimenticando ogni altra disgrazia, ogni altro sentimento, nel desiderio di veder giungere Cicchedda per curargli il figliuolino: ma quando vide ricomparir sola la donnicciola, impallidì ed ebbe un tremito nervoso.
— Ha creduto fossi io a farla venire e non è venuta! — disse la donna con dispetto.
— Ma le avete detto che Domenico sta male?
— Di più. Che stava malissimo, e che il medico ha ordinato di venir lei.
— Veramente questo il medico non lo ha detto, ma fa lo stesso — disse Alessio, passeggiando per la camera.
— Ti consiglierei d’andar tu, ma forse anche ciò è inutile....
— Oh, se ci vado io! — minacciò egli.
Poi si rimise a supplicarla che facesse tutto il possibile.
— Non vuoi credere a me? — disse la donna, ritornando da Cicchedda. — Facciamo una cosa, domandiamo al medico quando esce dal visitare il bimbo.
E verso sera la fanciulla si lasciò condurre, tremava tutta, e sulla via, in attesa del medico, si mise a piangere.
— Sciocca! — le diceva ogni tanto la donnicciuola, urtandola col gomito.
Quando il medico uscì, gli si fece avanti chiedendogli:
— Buona sera, il dottore. Come sta il bambino di Alessio Piscu?
— Male. — L’hai sentito ora? — domandò comare Franzisca a Cicchedda.
— Sì, ma non dice che c’è bisogno di me.
— Ma se è malato appunto per ciò! — esclamò l’altra giungendo le mani. — Andiamo; è un’opera di carità alla fine. Entriamo soltanto a vederlo. Non ci vede nessuno.
E la indusse ad entrare. Quando vide Domenico dimagrito e sofferente, Cicchedda si rimise a piangere.
Il bimbo invece le sorrise, e Alessio credè veder i grandi occhi verdi lasciar la loro espressione di sofferenza straziante, e animarsi e risplendere.
Era illusione o realtà? Certo, dalle mani di Cicchedda, Domenico prese con dolcezza, come nel passato, il semolino e la medicina; poi furono le sue braccine dimagrite che la trattennero più che le preghiere e le minacce di Alessio.
Quando i Brindis seppero che ella avea preso possesso della casa di Alessio, parvero dar di volta nel cervello: Salvatore smaniava, le donne mandarono ambasciate amare ed insultanti al giovine, ma egli prudentemente non rispondeva. Un giorno però, rientrando, vide dallo svolto della via un lembo del cappotto di Salvatore Brindis sparire entro la porta di casa sua.
— Cosa cerca? — si chiese meravigliato.
Si fermò sorpreso sulla via, preparando le parole da dir allo zio; e non trovandole adatte, pensò di svignarsela, o di attender Salvatore sulla via.
Intanto, non vedendolo venir fuori si domandò perchè si tratteneva. Forse per Domenico convalescente? Curioso di sapere ciò che lo zio diceva al bimbo ed a Cicchedda, entrò senza far rumore; e passando di fianco nella porta per non spalancarla, salì la scaletta, trepidando per lo scricchiolìo delle scarpe, e riuscì a porsi non veduto in ascolto.
Cicchedda tuttavia si fè’ sulla porta, e guardando per le scale gridò:
— Chi è?
Nessuno rispose, ed essa rientrò e disse ridendo:
— Credevo fosse Alessio, perchè Alessio è in città, sapete, zio Salvatore?
— E cosa m’importa, sia in città, in campagna, o in casa del diavolo? — disse egli con voce rude. — Io son venuto per visitare te, non lui.
— Sedetevi dunque, zio Salvatore — fece ella con disinvoltura spingendo una sedia.
Ma egli camminava, muovendosi tutto, volgendo intorno, sotto, sopra, i suoi occhi rossi.
Domenico, in guarnellino bianco, seduto sul letto, giocando con un cavallino di latta, guardava ogni tanto lo zio, con grandi occhi meravigliati; e Cicchedda, non ostante la sua disinvoltura, sentiva un vago timore, e desiderava che Alessio rientrasse.
Il lungo silenzio e la fisionomia del suo ex padrone l’inquietavano; e non sapendo cosa altro dirgli gli ripeteva:
— Ma sedetevi, zio Salvatore....
— Non importa ch’io mi sieda; son poche parole che devo dirti — esclamò egli alla fine, abbassando e poi sollevando la testa, e sempre camminando. — Ti ricordi quando io ti trovai sullo stradale di Oliena?...
— Siete venuto per dirmi questo, zio Salvatore? — interruppe ella. Dopo tutto il suo ex padrone non aveva alcun diritto d’insultarla.
— Questo ed altro, ma lasciamo stare. Io credevo allora di far un’opera buona, credevo di salvare una creatura, invece...
— Invece?...
— Cosa fai tu in casa di mio nipote? — gridò egli facendosi più rosso del solito. — Credi forse che egli ti sposi, sciocca, che altro non sei?
— Ma, zio Salvatore! — diss’ella, bianca e fremente. — Perchè venite ad insultarmi? Vi sto forse cercando io? Non vi basta d’avermi scacciata di notte....
— Potevi rientrare in casa mia di giorno, se l’avessi voluto.... Ora però....
— Io? — gridò ella, puntandosi un dito sul petto. — Io rientrare in casa vostra! Il fuoco ci passi prima!
— Perchè imprechi la mia casa? La mia casa che ti diede da mangiare e da bere?...
— .... E il veleno...
— Il veleno te lo sei preso tu! Fortuna tua se avessi dato retta a chi ti sembrava nemico, mentre.... Il veleno ce lo hai dato tu, ingrata....
— Infine! — diss’ella arrossendo. — Cosa vi devo? Mi avete dato da mangiare e da bere, ma mi avete spolpato le ossa col lavoro. Mi avete insegnato a servirvi, ma non ad amarvi. Mi avete....
— Basta! — gridò Salvatore; e Domenico, che trascurava il cavallino per badare curioso alla scena, ripetè anche egli, battendo la manina sul letto: — Basta!
Salvatore si volse vivamente, lo fissò e s’intenerì. Ma Cicchedda continuò amaramente a sfogare tutto il suo rancore, e forse esagerandoli narrò tutti i mali trattamenti, le angoscie, le umiliazioni sofferte in silenzio.
Salvatore l’ascoltò e la guardò intensamente: poi le espresse la sua meraviglia.
— Che ti fossi fatta una bella ragazza lo sapevo; ma che la tua lingua si fosse sciolta così, non lo credevo.... Eppure non ti volevamo male: oh, se tu avessi dato ascolto a noi! Uno stato conveniente non ti mancava! Invece....
— Invece? — ripetè ella fieramente, seccata.
Salvatore allora le disse parole roventi, tanto che Alessio fu per slanciarsi dentro e cacciarlo via.
— Zio Salvatore! — gridò Cicchedda con ira — accadrà quel che Dio vuole, e quanto accade è nel volere di Dio. Ma se vi hanno mandato le vostre donne per insultarmi, avete fatto male a venire! E se non volevate perdere i benefizi di Alessio Piscu, non dovevate scacciarlo da casa vostra!...
— Ah, come! Ah, come! — cominciò egli a gridare, dimenandosi e andandole contro, tanto che ella si spaventò, e Domenico si mise a piangere. — Tu credi sia ciò che mi dispiace? Tu credi ciò? E credi ch’io non l’abbia scacciato perchè non potevo soffrire la sua presenza, perchè l’odiavo? E credi che non l’odiavo per amor tuo?
— Per amor mio? — diss’ella con sorpresa, fissandolo curiosamente.
— E credi tu che io non potevo provare per te gli stessi sentimenti di Alessio?...
— Ah — diss’ella con ironia — è perciò che l’odiate, allora?...
Salvatore la fissò, tacque per un momento, poi le afferrò le mani gridando:
— Guardami in volto, ragazza! Quando io ti ho mai mancato di rispetto?
— Mai, questo è vero! — rispose ella.
— Ah, lo vedi tu stessa! E credi tu che Salvatore Brindis, cattivo, matto, maligno, ti avrebbe detto mai ciò che oggi ti dice, se non fosse accaduto ciò che è accaduto?
— Questo non lo so! — diss’ella con sorriso aspro.
Era suo malgrado commossa e tremante, e Salvatore, avvedendosene, si sentiva invaso da una commozione violenta, da un desiderio pazzo di dire quanto soffrisse. Ira, desiderio e passione gli scombussolavano la ragione.
Fuori, Alessio aveva sulle labbra un sorriso beffardo e maligno; ma anch’egli provava un leggero tremito; comprendeva alfine tutto il violento e strano operare di Salvatore Brindis, e lo compativa, ma desiderava che se ne andasse subito da casa sua, e che non ci rimettesse più piede.
Domenico, spaventato per le voci dello zio intanto strillava non lasciando sentire al babbo il seguito del colloquio. Solo Alessio potè udir Cicchedda ridere un po’ commossa, e il desiderio d’irrompere nella camera lo fece avanzare d’un passo.
Perchè ella rideva, perchè non mandava via subito il suo nuovo strano adoratore?
— Fa chetare quel bimbo — disse Salvatore. — E addio.
Cicchedda restò sulla porta finch’egli non scese pesantemente e rumorosamente le scale: e quand’egli fu uscito, Alessio le comparve davanti all’improvviso.
— Ah! mi hai spaventata! — esclamò ella mettendosi un dito in bocca, poi portandoselo alla gola. — Eri lì?
— Sicuro — diss’egli seccamente.
Ed ella sorrise, accorgendosi ch’egli era geloso di zio Salvatore Brindis.
Note
- ↑ Modo con cui il nemico sardo vi annunzia: — Ti ucciderò!