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desolazione, un’angoscia, uno spasimo senza nome in quei singhiozzi sfrenati, in quel pianto amaro che empiva la camera di gemiti. E Domenico, vedendola piangere, raddoppiò i suoi strilli, il suo pianto senza lagrime.

— Vattene! — gridò Alessio a Costanza.

— Perchè me ne vado? — saltò su essa come una vipera. — Son forse in casa tua?

— Ah, giusto! — diss’egli amaramente, come colpito. E se la prese col bimbo e con Cicchedda, che continuavano a piangere.

— Finiscila, demonietto, altrimenti ti batto. Prendi, Cicchedda, portalo a letto, e tu pure finiscila, figlia di Dio! Vi dico!... — concluse minaccioso, porgendole il piccino. Entrambi si calmarono e s’avviaron singhiozzando appena a fior di labbro; ma fu tale l’indignazione di Costanza, vedendo Alessio porre il figlio fra le braccia dell’amante, dopo averlo strappato a lei, che cominciò a ingiuriar aspramente Cicchedda. Questa uscì senza rispondere, ricominciando a singultare; e Alessio alzò allora la mano per percuotere la cugina.

— Non so cosa mi tenga! — disse a denti stretti.

Ella non si scansò; solo incurvò leggermente le spalle e disse:

— Sì, non ci manca che questo, Alessio Piscu! Tutto l’altro l’hai fatto! Ah, ma non credevamo mai che ti prendessi così giuoco della casa nostra!