Il tesoro (Deledda)/Capitolo XII

Capitolo XII

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XII.


Da due mesi Elena viveva in un continuo e misterioso incanto: era come la vibrazione di una melodia lontana, che arrivandole attraverso i cieli di quella splendida primavera, coi profumi delle rose, con le fragranze e le voci della montagna, la cullava in un mare di ebbrezze spirituali. Non aveva mai scritto a Paolo che l’amava; temeva di rompere la dolcissima malìa, confessandogli apertamente il suo amore; sentiva che presto sarebbe giunto il giorno in cui la grande rivelazione sarebbe scoppiata dal suo cuore come un grido, come una nota sublime, ma le sembrava che, d’allora in poi, le sensazioni delicate della sua ineffabile estasi si sarebbero mutate in ebbrezza forse più intensa, ma meno sovrumana. Voleva ch’egli le parlasse ancora, ancora così, come le parlava, da un mondo di sogni e di luce eccelsa; ch’egli [p. 264 modifica] comprendesse solo per intuizione spirituale il suo amore, e non le chiedesse oltre, e continuasse a parlarle un linguaggio che nulla avesse di terreno.

Ed egli, infatti, doveva comprendere, capire la raffinata delicatezza di lei, e provare una pura felicità sovrumana, perchè le sue lettere diventavano sempre più luminose e spirituali: non toccavano più la terra; volavano, piume meravigliose, senza smuover l’aria, arrivavano al cielo, lo sfioravano, gli rapivano la luce più pura ed azzurra, e scendevano nella casa, nel giardino di Elena, diffondendovi l’incanto supremo che la avvolgeva.

Un giovane non avrebbe saputo, nè potuto scriver così. Nella nuova misteriosa giovinezza che egli diceva di sentire, scorgeva forse un gran distacco fra le crudezze della realtà ed il sogno. Era un sogno estremo, purificato dal tempo, dall’esperienza e dal dolore.

Così, di settimana in settimana, le sue lettere si facevano più delicate e profonde: erano ardenti, ma pure come il fuoco, e non domandavano altro che di proseguire l’incanto. Dopo averle lette, Elena reclinava sempre il volto sul foglio, e lagrime d’ineffabile gioia, di amore senza nome, le sgorgavano dai grandi occhi pensosi. Era così avvolta dall’incanto, che non pensava mai distintamente all’avvenire; sentiva tutta la vera felicità nel presente, e cercava di assorbirla interamente come un profumo. [p. 265 modifica]

Pur non provava pace: qualcosa di inafferrabile e d’infinito, appunto come una fragranza, la estasiava senza inebbriarla completamente. Nella felicità sentiva il desiderio struggente di altra felicità più grande e più intensa ancora; ma come il suo gaudio si scioglieva in lagrime, così temeva che, raggiunta l’estrema felicità di aver Paolo vicino, l’incanto forse andrebbe distrutto.

Un giorno Paolo mandò la sua fotografia con queste parole:

«Tu dunque, Elena mia dolce, vuoi la mia figura, dicendo che la coprirai di fiori. Sì, spandi rose, fanciulla.

«Io non sono ancora il vecchio Anacreonte; ma ho l’anima ancor giovane e amorosa come il cantore di Ceo, e sento la grazia com’esso: sentirò dunque la dolcezza dei tuoi fiori, ma vieppiù la grazia lontana delle mani pure e adorate che li spargeranno....»

Ella mise la fotografia nel salotto, insieme ad altre, in un portaritratti di velluto bianco ricamato, appeso alla parete con due nastri celesti: e l’adornò di rose e di gelsomini. Ogni volta che passava si fermava sorridendo, e allontanandosi si rivolgeva per sorridere ancora, quasi Paolo la vedesse. Spesso tornava indietro socchiudendo gli occhi, colta da una vaga suggestione ottica, perchè nella penombra della parete, fra le rose e i gelsomini, la fotografia [p. 266 modifica] assumeva linee e tinte vive; la carnagione pallida si animava, gli occhi profondi e soavi assumevano uno sguardo d’infinita passione.

Paolo aveva scritto d’essersi fotografato pensando a lei, cercando di fissare intensamente la sua lontana visione: forse per ciò ora ella sentiva quello sguardo avvolgerla in un fascino irresistibile, che anche da lontano la vinceva, riprodotto dalla fredda figura di carta.

E questa ineffabile suggestione le dava, giorno per giorno, più intenso il desiderio di scriver apertamente a Paolo quanto lo amava: una sera gli scrisse con più dolcezza del solito, dicendogli ingenuamente del sorriso che rivolgeva al ritratto.

Egli l’avrebbe sentita vibrar tutta, e assorbendola come il ritratto assorbiva il profumo delle rose e dei gelsomini, se ne sarebbe profondamente allietato; e nella sua ebbrezza, stringendo sempre più l’adorata fanciulla nel cerchio della sua intensa passione, le avrebbe finalmente chiesto di parlar meglio, di dirgli che lo amava, e che voleva esser sua per l’eternità.

Elena aspettava oramai solo questa domanda per posargli spiritualmente la fronte sul cuore e dirgli che era già sua; e intanto, di giorno in giorno, cambiando i fiori sul ritratto, sentiva crescer il fascino; il sogno non le bastava più; aveva bisogno della realtà, per lei e per lui che spesso le faceva udire una nota di desolata [p. 267 modifica] tristezza e di profonda solitudine. E voleva creare una felicità senza nome al suo grande, al suo buono, al suo nobile Paolo, verso cui, oltre l’amore, consacrava tanta venerazione che non osava più pronunziarne il nome.

Neppur con Giovanna aveva più parlato di lui; e Giovanna, accorgendosi delle lettere che ella spesso scriveva e riceveva, credeva fossero dell’antico innamorato, ch’era stato nominato giudice in un piccolo tribunale sardo.

Anche Cosimo e Peppina credevano che Elena avesse riannodato la vecchia relazione; tutta la città parlava di questo prossimo matrimonio; Giovanna si lamentava per la poca confidenza di sua sorella, e ogni giorno insisteva per saper qualche cosa.

Ella taceva e sorrideva senza negare, usando questo metodo anche con la cognata, che spesso le parlava suggestivamente di Giovanni Carta-Selix e del loro antico amore.

Peppina conduceva spesso a passeggio le cognatine, Giovanna cresceva ogni giorno, facendosi grande e bella, slanciata ed elegante, mentre Elena restava sottile, pallida e delicata. Però anche il suo viso sembrava più espressivo e grazioso dell’anno scorso; gli occhi più limpidi e profondi; e un vago sorriso di beatitudine, rivolto come ad una lontana visione luminosa, la irradiava.

Ora non si sentiva più scomparire tra la [p. 268 modifica] formosa cognata e la vezzosissima sorella, non se ne accorgeva neppure, non cercava più di mettersi accanto a persone piccole e brutte per comparire di più; anzi sorrideva ricordandosene.

Nessuna bellezza, alcuna distinzione, potevano più umiliarla, ora che un’anima così grande, nobile e poetica, ritrovava e adorava in lei la vera e immortale grazia della donna. Anzi ora ella guardava con orgoglio, con infinita compassione, le fanciulle frivole e spumeggianti che le passavano davanti come vuote variopinte farfalle. Chi di esse aveva un’anima? Chi di esse era stata o sarebbe mai amata e amerebbe come lei? Ella collocava Paolo tanto in alto, e così solidamente in alto, che innalzandosi fino a lui nel sogno d’un amore che le sembrava unico, vedeva tutto piccolo al di sotto e al di fuori di quella sfera meravigliosa.

E ne provava una beatitudine profonda, formata forse da un po’ di orgoglio, ma che però la rendeva buona, pura e superiore.

«Come sei buona — le scriveva Paolo — e come renderai migliore l’anima del fortunato che potrà dirti sua!»

Ma all’ultima lettera egli tardava a rispondere, ed Elena se ne sentiva inquieta e un po’ nervosa. Sopravveniva il caldo di luglio; l’aria pareva ossidarsi, la montagna s’ingialliva ardentemente: la vegetazione, rimasta esuberantemente fresca per le piogge cadute agli ultimi [p. 269 modifica] di giugno, cominciava a piegarsi e rattristarsi nel sole. I petali delle rose e delle glicine, sbiadite dal caldo, cadevano coprendo i viali; di notte era una strana ebbrezza di profumi ardenti.

Elena sentiva qualche cosa di sè svaporare con la freschezza dell’aria e delle rose; qualche cosa dei suoi sogni si dissolveva con quelle ardenti fragranze che esalavano dai fiori morenti.

Perchè la primavera non s’era fermata, perchè le montagne non erano rimaste dolcemente bionde, perchè il cielo perdeva la sua fresca trasparenza, perchè Paolo tardava a rispondere, e perchè infine, in un caldo crepuscolo di luglio, arrivò una sua lettera così profondamente e misteriosamente triste? Cominciava con queste parole:

«Avrei voluto scriverti subito dopo aver ricevuto e avidamente letta la tua lettera adorabile, ma ragioni imperiose e tristi mi obbligarono ad un viaggio, durante il quale, se non potei risponderti, il tuo foglio mi tenne però cara e dolce compagnia. E anche tu, Elena, se è vero che vieni spesso a ritrovarmi in ispirito, dovevi esser con me e susurrarmi parole soavi; tutte quelle che non si trovano nella tua lettera, perchè sento bene che la tua penna si ferma molte volte a mezza via. Temi forse di rendermi vanitoso? Ci sarebbe di che. Lusingarmi? Non credo sia nel tuo carattere. [p. 270 modifica] Rendermi troppo felice, per lasciarmi poi, fra qualche tempo, un risveglio doloroso? Forse. In ogni modo, poichè non credo molto al mio avvenire, e tanto poco ci credo che non ne ho neppure più il desiderio, io dico: godiamo l’ora presente che è buona; se è una illusione codesto pietoso ufficio che invita una graziosa giovine liana a rivestire delle sue braccia tenere e verdi il vecchio tronco che si spoglia e oscura, io cedo alla soave stretta, e chiedo alle aure che mormorano di dirti per me una dolce canzone.... vorrei dire di amore, ma di questa parola tu sembri provare sgomento, quasi tema ch’io sia per ripeterla un giorno, quando non sarai più libera, quando fra le anime nostre si metterà, per forza naturale del tempo e degli eventi, l’uomo fortunato che ti farà sua!»

Dopo due pagine su queste tono, la lettera assurgeva a note di angoscia quasi disperata. Elena vibrava in tutta la persona, e diventava bianca come colta da un acuto malessere.

«.... il primo a scomparire sarò certamente io, e forse fra non molto; ho giorni di grande sconforto, di profonda desolazione, nei quali invoco la morte, perchè la vita mi sembra ora un deserto sterile, ora una babilonia odiosa: vorrei fuggire, od estinguermi in una pace profonda. Non ho vissuto come avrei voluto e dovuto; ero nato per amar molto e non ho potuto amare; ero nato forse a grandi cose, e non [p. 271 modifica] ho fatto nulla; non resi mai alcuna persona felice, a nessuno è stata utile la mia esistenza, e molto spesso mi domando se non era meglio ch’io non fossi nato!»

E la lettera dolorosa così terminava:

«E tu perdonami, Elena; io non debbo oggi proseguire, anzi non avrei dovuto incominciare. Ti ho lasciato scorger troppo attraverso giorni dolorosi. Cerco spesso in alto la stella guidatrice, ma questa stella sembra oscurarsi nei miei orizzonti. Forse ho sognato troppo; ed ora sento freddo, e mi pare a certe ore di scender vertiginosamente in un abisso profondo e tenebroso. Scuoto le ali, ritentando il volo nell’alto, ma nell’alto mi pare che tutti gli astri si spengano. Tu puoi sollevarmi ancora, Elena, cantando al vecchio fanciullo la tua ninna-nanna soave; ma quando la tua voce tace, ed apro gli occhi, mi spavento e gemo».

Nonostante ciò, ella sentì che ben poco ella contava davanti alla misteriosa desolazione di Paolo: e un’angoscia fredda ed acuta le serrò così fortemente il cuore, che non le permise neppure di piangere.

E Paolo De-Cerere, nell’egoismo del suo dolore, non s’accorse quanto la faceva soffrire: ella gli parve una creatura forte e meravigliosa, che penetrasse nel suo cuore solo per strapparne le più angosciose spine e curarne le piaghe. [p. 272 modifica]

Forse perchè ella non gli aveva lasciato ancora comprendere tutta la misura del suo amore, egli non immaginava neppure quanto ella potesse soffrire.

Sapendolo, forse, non le avrebbe spezzato il cuore, rivelandole crudamente la causa del dolore che lo urgeva.

«Elena santa, Elena adorata,

«Io non so di dove incominciare per ringraziarti, per dirti tutto ciò che mi sta nel cuore, e neppure mi sarà possibile di dare alle mie parole tutta quella profonda intensità, divinamente penetrante, che ho scorto nelle tue parole care, che l’angelo di Dio deve averti dettato.

«Se tu sapessi, adorata, in qual momento dolorosissimo mi giunge la tua lettera, intenderesti il bene che mi fai e che Dio veramente, Dio solamente t’inspirò.

«Sono in mezzo a gravi fatiche giuridiche e non ho il tempo materiale per dare sfogo ad alcun mio sentimento; ma tu, che oramai mi conosci, puoi sola comprendere quanto soffro. La tua lettera giunge provvidenziale e viene a salvarmi dal male ch’io stesso m’ero fatto per la mia cieca fede. È tutto un romanzo che nessuno conosce e di cui io sono la vittima. Tu sola, forse, lo hai presentito; tu sola hai diritto di conoscerlo, e sarà il mio maggior castigo l’obbligo che m’impongo di confidarlo a te. Lo [p. 273 modifica] faccio con l’animo puro, come l’avrei fatto alla mia stessa, santissima madre.»

In dodici fitte paginette, scritte febbrilmente, narrava la sua triste storia.

Egli era di religione ebrea; lo era perchè tali erano stati i suoi avi, e sua madre, e suo padre, ancor vivo, ch’egli adorava. Aveva trascorso una triste giovinezza senza luce d’amore, mentre verso l’amore lo portava tutta la sua natura poetica e ardente. Ma nessuna donna, fino a tarda età, l’aveva amato come egli sapeva amare e come sognava d’essere amato. Però un giorno apparve sulla sua via una donna giovine e bella, ed egli credè d’aver finalmente trovato il suo sogno. Era la donna di cui altra volta aveva vagamente parlato ad Elena, facendole intendere d’averla dimenticata, la donna che pregava per lui, mentre egli attraversava sventure d’ogni sorta. Si chiamava Sara, era anch’essa ebrea, era sola, bionda e graziosa.

Una passione intensa li aveva uniti, cinque o sei anni prima, ma il padre di Paolo s’era risolutamente opposto al loro matrimonio, poichè Sara non gli sembrava degna del figlio. Allora Paolo, per non addolorare il vecchio padre, aveva sposato segretamente, col rito ebreo, la giovine donna. Pur tenendo segrete le loro relazioni, due o tre anni di felicità inenarrabile erano trascorsi per gli strani sposi. Un giorno però De-Cerere aveva involontariamente [p. 274 modifica] commesso un errore nel suo ufficio, e, per punizione, era stato mandato in Sardegna. Sara non volle seguirlo, adducendogli per scusa che se il vecchio De-Cerere veniva a saperlo se ne sarebbe addolorato e forse avrebbe scoperto la loro unione, e Paolo, benchè a malincuore, trovando giusta la ragione, era partito solo. Nella lontananza Sara s’era lentamente raffreddata verso il marito, ed egli aveva trascorso due anni tristissimi a Nuoro, confortato appena dalla gentile amicizia delle Bancu, verso cui si sentiva irresistibilmente attratto. Al ritorno in continente aveva riveduto Sara, ma la sua fredda accoglienza, il diniego persistente a seguirlo nella sua nuova residenza, gli avevano messo nell’anima il veleno di dubbi tormentosi: e dopo un lungo strazio, egli, in quei giorni, s’era co’ suoi occhi stessi convinto della triste verità: Sara lo tradiva!

La triste, terribile lettera, terminava così: «Sono passato per tormenti incredibili, ma ora mi sento più calmo, e la tua lettera mi è piovuta in cuore come rugiada celeste. Già la mia ultima lettera ha dovuto farti sentire il mio bisogno di altra luce migliore, di sogni più alti e sereni.

«Non temere, io non chiederò mai a te quell’amore che Sara mi ha dato. Ma poichè da questo grande e vivo dolore, io esco purificato, benedico Dio che ti manda incontro a me, come dolce salvatrice dell’anima mia. Quanto vorrei [p. 275 modifica] dirli di più, Elena, ma sono oppresso. Solamente commosso dalla tua lettera, la rileggo più volte, come si recita una preghiera. Benedetta di Dio, Elena mia perfetta, alzami dove sai ch’io voglio volare; quello è il mio mondo e il mio regno. E scrivimi presto, perchè ho sete della tua parola.»

Ella non potè neanche piangere, tanto improvviso e fatale era il colpo. Ricordò lungamente la gelida e strana impressione provata quella sera e la notte che passò.

Come sempre, quando riceveva lettere di Paolo, cominciava il crepuscolo, le finestre erano spalancate e dal giardino saliva la voce fresca e lieta di Giovanna, che insieme a due sue piccole amiche e vicine rideva e cantava nel peristilio.

E sotto l’occhio vigile di donna Francesca le fantesche andavano e venivano per la casa, preparando la cena, e Lyly rincorreva Lisbet, nascondendosi dietro le porte per assaltarla meglio, e tutta l’esistenza della casa si svolgeva come al solito, nella tenue luminosità metallica del crepuscolo estivo.

Eppure Elena sentì come il tetto crollarle sulla testa, e il mondo intero sfasciarsi, dissolvendosi in un mare di dolore senza fondo e senza confini.

S’affacciò alla finestra, ma non vide nulla e non potè piangere. [p. 276 modifica]

Il principio e la fine della lettera la lasciavano fredda e insensibile; e l’addolorava solo, acutamente, il pensare che egli l’aveva ingannata, tacendo, egli creduto così grande, egli, creduto così nobile.

Bastava soltanto ciò per far precipitare l’idolo dall’altezza vertiginosa in cui ella lo aveva collocato. Ma anch’essa cadeva nell’abisso.

Solo dopo qualche tempo le sue idee si schiarirono; allora percepì meglio la sua posizione, e pensò.

Nulla importava che davanti a lei ed alla sua religione, Paolo fosse completamente libero: l’idea ch’egli apparteneva ad un altro culto, e che secondo questo veniva ad esser legato ad altra donna, le diede anzi una sensazione più penosa ancora, un orrore gelido e profondo. Almeno avesse potuto dire:

— S’egli m’ama davvero, e vuol redimersi, si convertirà alla mia religione e sarà libero!

Ma nella sua spietata confessione nulla Paolo le lasciava intendere di ciò: invocava il suo aiuto e il suo conforto, ma nessuna speranza, nessun conforto le porgeva per il dolore che le causava.

Perchè? Questo e molti altri perchè Elena gridò fra sè stessa, ma nessuna risposta venne; e neppur allora potè piangere, quasi paralizzata dall’angoscia e dalla delusione.

Passò una dolorosissima notte, senza trovar [p. 277 modifica] pace in alcun modo. Fino a tarda ora restò sul davanzale, davanti alla profonda notte stellata, i cui profumi misteriosi le recavano come il soffio d’ignote memorie.

Ricordava mille particolari, sempre sfuggiti alla sua cieca adorazione, e pensava al suo continuo timore, che le aveva impedito di rivelare intera la sua passione a Paolo; e pensava all’occulto invisibile ostacolo che sempre l’aveva divisa da lui.

Era dunque un presentimento, una voce di Dio? Era l’altra che si frapponeva spiritualmente fra loro e ora li divideva per sempre, per l’eternità?

E le stelle, le grandi stelle che dall’alto avevano limpidamente guardato l’incanto del suo poema, ora piovevano lagrime d’oro sul suo strazio, e il giardinetto sognava nell’oscurità calda della notte, velato da un mistero di dolore.

Verso l’alba, più che addormentarsi, cadde in un torpore anche fisicamente doloroso, e sogni confusi la tormentarono.

L’indomani, una giornata di caldo asfissiante, vagò per la casa, come un’anima in pena, senza trovar pace, pallida e con gli occhi cerchiati di grigio: aveva nascosto la lettera e avrebbe voluto non rivederla mai più, per non ricordare neppure la sensazione angosciosa provata nel leggerla, e andava ripetendo fra sè con una strana insistenza autosuggestiva: Ogni cosa è finita! [p. 278 modifica]

E la tristezza della fine la seguiva in ogni passo: che avrebbe oramai fatto, pensato, ora, domani, posdomani e sempre?

Intanto vagava pensando a Sara, alla donna cattiva, alla donna corrotta, vicino a cui Paolo aveva osato collocare lei e il suo puro amore. Se ne sentiva offesa ed umiliata; sentiva il suo puro amore corrompersi e dissolversi al solo riflesso della vita di Sara. Ella stessa non era forse già coperta di abominazione, per aver amato un uomo non libero, non cristiano?

Solo il dolore l’avrebbe purificata, ma intanto non poteva sopportarlo con rassegnazione; e a misura che il tempo scorreva, la ferita si allargava, sanguinando, sbranandole tutta l’anima.

Non entrò nel salotto per non soffrire di più, perchè troppi sogni v’erano rinchiusi, sotto lo sguardo del ritratto di lui, nella dolce penombra. Avrebbe voluto non ridiscender neppure nel giardino, ma dopo il tramonto, scese, sentendosi soffocare.

Il cielo era coperto, ma l’occidente ardeva, come per il riflesso d’un fuoco lontano, e nell’aria immobile gravava un pesante e amaro profumo di stoppie incendiate. Ella si guardò attorno spaurita, quasi che da molto tempo non avesse posto piede laggiù.

Come nell’anima sua, tutto era incendiato là intorno; le ultime rose s’erano sfogliate, pochi fiori, dopo aver lottato col sole, ora [p. 279 modifica] reclinavano la testa, stanchi e smorti, addormentati per sempre nella pace pesante della strana sera: e nelle foglie vibrava un riflesso duro di rame e di polvere; e nelle cascate di verzura una fiamma invisibile aveva accartocciato le foglioline, trapuntandole e miniandole di bronzo.

Le rondini si posavano mute in cima alle canne secche, guardavano in alto quasi paurose d’interrompere il grave silenzio del pesante crepuscolo, poi sparivano volteggiando, col grigio petto inargentato dall’ardente riflesso dell’occidente.

Singhiozzi aridi e spasmodici le stringevano la gola; fuggì via dal giardinetto, e sospinta dalla sua fatalità, girò per la casa, finchè entrò nel salottino. Era l’ultimo crepuscolo, e una rossa luce suggestiva moriva lentamente sulle pareti.

Egli guardava sempre verso la porta, quasi, aspettando ansiosamente l’entrata d’Elena; e nell’aprire la porta, per un rapido riflesso di luce che balenò vivido sul raso bianco del portaritratti, ella scorse subito gli occhi di lui, che risplendevano come pieni di lagrime.

Attratta irresistibilmente si avvicinò, ricordando con acuta angoscia i fiori di cui sempre l’aveva circondato, e chiedendosi ancora s’egli li meritava; una verbena appassita, d’un rosso offuscato, pendeva ancora davanti al ritratto: ella sollevò lentamente gli occhi, e lo guardò, e nell’ultima luce di quel giorno doloroso le parve di [p. 280 modifica] scorgere in quegli occhi, non il solito soave fascino di passione, ma un grigio riflesso d’angoscia senza nome e di preghiera e di pianto.

Allora con un flutto di dolcezza pietosa la assalirono tutte le parole buone dell’ultima lettera, e misurando dalla sua la tortura di lui, percepì finalmente quanto egli doveva soffrire.

Per un minuto secondo, nell’ombra invadente del salotto, ove anche il paesaggio del vecchio quadro si era oscurato come nella tenebra di una notte tristissima, sparve l’odiosa figura di Sara, ed Elena si sentì ancora una volta sola con Paolo, che la guardava supplichevolmente.

Allora sentì che, come in quel giorno, ella non lo aveva mai più intensamente e umanamente amato; e sembrandole sempre che tutto fosse finito, potè finalmente piangere, per lui, per lei, per il passato e per l’avvenire, con infinita desolazione, con tutta la solenne e ineffabile voluttà del dolore.