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— Dio mio, nostra Signora mia! — ella gemè.
Franzisca versò una scodella d’acqua su un pane d’orzo, e apprestandolo con un pezzetto di formaggio che pareva calce in un vecchio canestro rosicchiato, la invitò a mangiare.
Intanto ricostruì il fatto, come aveva potuto capirlo. Alessio era rientrato verso le nove, e Salvatore, senza neppur lasciargli rimetter il cavallo nella stalla, aveva cominciato a inveire violentemente contro di lui, chiamandolo vile.
Sulle prime Alessio aveva risposto pacatamente, anzi, scherzosamente.
— O zio Salvatore, o zio Salvatore, perchè ve la pigliate così? — E lo guardava maliziosamente, negando i fatti, ma con aria di conquistatore.
Ma quando seppe che Cicchedda era stata cacciata e che la faccenda andava sul serio, si alterò. Lo zio continuò a caricarlo di vituperi, di rimproveri violenti, e fra le altre cose gli ricordò le parole dettegli nell’autunno passato, il giorno che salivano all’ovile della montagna.
— Io non me ne ricordo! — disse Alessio sdegnosamente. — Come volete che ricordi le vostre sciocchezze?...
S’intromisero le donne, e ciò fu un male irrimediabile, perchè naturalmente, invece di calmare gli animi, li inasprirono. Siccome Alessio pareva volesse rinfacciare a Salvatore i favori fattigli, lo zio gli disse d’andarsene di casa sua.