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Alessio ne restò così colpito che non rispose, e chinò gli occhi su Domenico, che appoggiato alle sue ginocchia si succhiava tranquillamente un dito.
Cicchedda mise sul fornello il paiolino dell’acqua per pulire i piatti, e uscita nel cortile si sedette sotto il portico.
La notte era oscura, troppo fresca; un vento leggero e melanconico gemeva, frusciando sul fico nero, dove cantava l’ultimo grillo: la fanciulla a testa nuda, provò un brivido di freddo, e si sentì triste, triste fino alla morte.
Si mise a singhiozzare piano, piano, amaramente, e non rispose ad Agada, che la chiamò dalla cucina.
Dopo un poco uscì Alessio e avvicinandosele disse con dolcezza:
— Perchè non entri? Domenico dorme; va e mettilo a letto. Fa da buona, lascia cantar zio: tu sai com’è fatto lui!
Ella si sentì alleggerire il cuore: avrebbe voluto disfarsi in lagrime, cadendo ai piedi d’Alessio, e singultò forte, ma di ineffabile dolcezza.
— Ma sai che sei una ragazza sciocca! — diss’egli, ancor più dolcemente. — E perchè piangi ora? Alzati, e va in cucina...
— Tutti mi vogliono male — singhiozzò essa — ma me ne andrò.... me ne andrò....
— Macchè! Nessuno ti vuol male; io almeno ti voglio bene! — disse Alessio, e per provarglielo le passò una mano sui biondi e freschi capelli.