Il tesoro (Deledda)/Capitolo VIII
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VIII.
Il cinque agosto, giorno del suo onomastico, Maria Nevina Spina seppe per la prima volta la triste notizia.
Il signor Peppe Spina, che adorava la sua figlietta, avea comprato dolci e rinfreschi, invitando qualche collega impiegato per festeggiare l’onomastico di Maria. Ed ella, così graziosina, facendo gli onori di casa assieme alla grassa domestica, sua amica e sua guida, indossava il vestito nuovo, il bianco, e aveva le guance delicate insolitamente tinte di rosa. Era molto bellina così, coi chiari occhi tanto limpidi eppur tanto profondi, con la bella treccia pendente.
Aveva diciotto anni, ma ne mostrava quindici: un signore, facendole gli auguri, s’era permesso di regalarle un pizzicotto sulla guancia sinistra.
Vennero anche due signore, e a un certo punto cominciarono a sparlare dell’avvocato Cosimo Bancu, e Maria tese le piccole orecchie trasparenti, che diventarono di corallo. Ella non poteva, nè voleva parlare per difendere il suo vicino, e chinò dolorosamente i grandi occhi chiari.
Un giovinotto disse con tono beffardo, bevendo l’ultima goccia del bicchiere:
— Si rialzerà ora, se sposa la Marchis! — E guardò il bicchiere vuoto, attraverso la luce, socchiudendo un occhio malignamente.
Così Maria venne a conoscere molte cose che prima non sapeva, e che avrebbe voluto ignorar sempre.
— Sentite — diceva il giovinotto del bicchiere — la storia è così: qualche mese fa, una notte oscura, Bancu ritornava dal Circolo. In un certo punto vide una porta aperta, e sembrandogli strano si fermò, anzi sporse la testa all’interno. Tosto una bellissima ragazza gli gettò le braccia al collo, e cominciò a chiamarlo appassionatamente «Stefano mio, Stefano mio.» Benchè non si chiamasse precisamente così, Bancu lasciò fare, con che gusto figuratevi! E quando giunse il vero Stefano trovò la porta chiusa!
Grandi risate accolsero la storiella, che doveva aver un fondo di vero, perchè chi la narrava si chiamava Stefano. Ma Maria non rise, tanto più che una delle due signore terminò le sue supposizioni con questa lieta profezia:
— Vedrete, se davvero si sposeranno, non passerà un anno che saranno separati.
Oh, come soffriva Maria! L’idea che Cosimo dovesse ammogliarsi non le era mai venuta, nei tre anni che lo amava. Ella era una bimba melanconica e sentimentale, e forse per atavismo portava in sè qualcosa di misterioso, che sfuggiva persino all’attenzione continua e delicata di suo padre. Sua madre, figlia di una aristocratica famiglia sarda, aveva amato Peppe Spina per pura fatalità: fuggita con lui, l’aveva sposato, ed era morta diseredata e rinnegata dai suoi prima di conoscer le amare delusioni di certe unioni romantiche. Ma era morta innamorata ancora, e la sua gracile creatura aveva ereditato, insieme ad una delicata signorilità di pensiero, di fisionomia e di modi, una fatale potenza d’amore.
Maria aveva trascorso l’infanzia in un borgo delle montagne, davanti a paesaggi alti e silenziosi, in una solitudine melanconica e solenne.
Suo padre, uomo più tosto lieto e felice del suo stato, le aveva fatto da maestro; quindi la sua coltura non poteva dirsi molto vasta e profonda, e neppure la sua intelligenza era molto grande, ma possedeva una profondità di pensiero quasi sorprendente per la sua età.
Appena scesi a Nuoro, ella s’era affacciata alla finestra dell’appartamento pulito e modesto, e aveva visto Cosimo Bancu: e quella fisionomia pallida e ardente, quel profondo sguardo magnetico subito l’avevano avvinta.
Piana,1 la grossa domestica che l’aveva allevata e la seguiva dovunque, si accorse subito di qualche cosa, e cominciò a sgridarla perchè
stava sempre alla finestra; ma d’altronde Piana aveva molto da fare, e non poteva abbastanza custodire l’uccellino che metteva le ali per volarsene. Siccome Peppe Spina era uno di quei piccoli impiegati sibariti, che si compensano del lungo, arido e umile lavoro, con ogni sorta di piccoli e possibili godimenti materiali, Piana stava sempre davanti ai fornelli escogitando ogni giorno nuove raffinatezze di vivande e non poteva accorgersi che Maria aspettava alla finestra l’uscita ed il ritorno di Cosimo Bancu.
Poca relazione correva fra le Bancu e gli Spina, ma Maria amava giù fortemente le sorelle e la madre di Cosimo. Specialmente Elena l’affascinava: quando dalla sua finestra ne vedeva il pallido volto pensoso, restava a guardarla incantata, e avrebbe dato chissà cosa per poter diventare sua amica. Ma Elena non le badava più di Cosimo, e Maria ne provava un profondo disagio.
Ciò che voleva, desiderava e sognava, non lo sapeva bene neppur lei. In tre anni non parlò una sol volta con Cosimo, ma ne conosceva bene la voce, lievemente caustica e altera, e la sentiva da lontano in ogni sua vibrazione. Ma nei suoi timidi sogni indistinti non si immaginava neppure che quella voce venisse amorosamente diretta a lei; non aspettava nè chiedeva nulla. La sua massima felicità era di vederlo: non desiderava neanche d’esser veduta, perchè, se per caso straordinario Cosimo sollevava gli occhi e la guardava, o inconsciamente o indifferente, ella ne soffriva. La sua massima angoscia poi era il dubbio che egli indovinasse il suo segreto amore.
Maria, udendo ch’egli era fidanzato, si svegliò come da un sogno: la gelosia le fece comprendere molte cose fino ad allora ignote, e cominciò a soffrire: la sua prima impressione fu che non le era più lecito di aspettare il passaggio di Cosimo, nè di vederlo. Che farebbe dunque tutta la giornata? Il mondo le crollò intorno, con la sensazione del vuoto che apporta la caduta di un sogno, la rottura d’una cara e dolce abitudine.
Per tre giorni Cosimo non rivide la testina di lei alla finestra, e ne provò una vaga inquietudine. Era malata la piccina? Avea forse saputo la novità? Voleva domandarne alle sorelle, ma non lo fece per orgoglio: la curiosità però lo pungeva, e un giorno incontrando Piana nella via le disse ridendo: — Piana, piano!
— Cosa comanda la vossignoria?
— Come stai? — e le tirò un pizzicotto di cui ella, grassa com’era, non s’offese punto.
— Bene, grazie a Dio — rispose.
— E la tua padroncina, come sta?
— Bene anch’essa, grazie a Dio.
Rientrando, Plana trovò che Maria, seduta al fresco della scala, faceva melanconicamente la calzetta, e cominciò a dire scherzando: — E la tua padroncina come sta?
— Chi ti ha fatto questa domanda? — chiese ella sollevando la testa.
— Un signore nella via!
Maria arrossì pensando subito a Cosimo.
— Chi? Chi? — insistè, tirandosi la treccia e morsicandola. E andò dietro a Piana finchè la costrinse a pronunziare il nome adorato e odiato. E, con gran dispetto di Cosimo, ritornò alla finestra piò pallida e sottile che mai. Soffriva assai, pensava sempre, ostinatamente a Peppina Marchis, e le pareva di volerle male; ma non odiava più Cosimo, perchè s’era degnato di chieder sue notizie.
Intanto i giorni passavano, l’aria si rinfrescava lentamente; ella, cambiando d’umore, diventava silenziosa e seria, ma benchè di costituzione delicata, il suo fisico non risentiva la melanconia morale. Era l’anima sola che gemeva e soffriva.
La vita seguiva sempre eguale: sempre Peppe Spina lavorava come una macchina da scrivere, sempre Piana cucinava; ella oramai li sfuggiva. In due mesi si creò l’idea di una infelicità tremenda e inesorabile: non guardava più nè al passato, nè all’avvenire, e nel presente sentiva una tristezza profonda fino alla morte.
A volte si sedeva in basso, sul gradino della porta della sua cameretta, e guardava lungamente il quadrato di cielo formato dallo sfondo della finestra.
Ella si smarriva lassù; vi sentiva l’impressione di una cosa infinita, infinita, inafferrabile, inesplicabile, come la passione che la dominava.
Una inesplicabile tristezza la prese, la invase e conquise tutta; le sembrò che il davanzale rappresentasse la sua anima solitaria e abbandonata, e disperò. Chiuse la finestra, e si gettò sul letticciuolo senza poter piangere.
Allora il vento autunnale diventò più forte; mille rumori tristi, resi acuti dal freddo, arrivavano sino ai vetri riflettenti il crepuscolo giallo, cantando tristi canzoni di morte.
Oh, morire, morire! Come Cicchedda, anche Maria, nella profonda e ineffabile tristezza dell’autunno morente, desiderò morire per destar pietà di lui!
A misura che il freddo s’inoltrava, vide Cosimo più di rado. Non apriva la finestra, ma guardava dai vetri che la pioggia talvolta copriva d’un velo liquido e arabescato: altre volle era la nebbia tiepida e violacea che vaporava per la via; e dietro quei veli melanconici la figura di Cosimo parea appannarsi, dileguarsi dall’anima di lei; ma la tristezza restava sempre fissa, immensa e grave. Intanto pensava che fra poco, divenuto Cosimo sposo di un’altra, ella non avrebbe più potuto amarlo senza peccato. O lei, o il suo amore morrebbero. Forse il suo amore era già morto; e il dileguarsi dei sogni e il cessare d’una dolce consuetudine era la sola causa della sua tristezza; ma nonostante tutto non disperava ancora completamente.
Un giorno Piana le disse che le Bancu, e specialmente Elena, non erano contente del matrimonio di Cosimo. Ella arrossì di cattiva gioia; oh, che Elena almeno non amasse l’altra! Ma tosto si pentì, perchè dopo tutto si sforzava a non odiare la rivale, benchè, per le maldicenze sentite, se la immaginasse molto spregevole. Vedendola al passeggio o in chiesa la guardava con occhi spauriti; e scorgendola così bella, florida, elegante e indifferente, ne provava una straziante umiliazione, che la rimpiccioliva e l’opprimeva.
Venne l’inverno. In carnevale Peppe Spina si divertiva assai, e pretendeva che altrettanto si divertisse sua figlia.
Quest’uomo un po’ bizzarro, che in gioventù aveva avuto solo il fascino d’una grande bellezza, ora, nella virilità sciupata dall’arido e continuo lavoro, non era che un piccolo gaudente, incolto e volgare. Nel suo ufficio era di un umore stravagante e bisbetico, per cui gli avvocati dicevano corna di lui, ma fuori, ritornato semplicemente Peppe Spina, era sempre d’un buon umore invadente, piuttosto grossolano.
Il contatto signorile della sua sposa gli aveva però lasciato come un lontano riflesso, che tornava ogni giorno a splendere nei modi suoi, davanti alla sola Maria, anzi rievocato dalla sua presenza. Davanti a sua figlia Peppe Spina diventava l’uomo più delicato e signorile del mondo, e il suo amore assumeva una tinta eguale, dolcemente lieta ed espansiva.
Aveva allevato la sua delicata creatura con cura e religione, in un ambiente ideale, che però non era il vero ambiente di casa Spina. Tutte le cure materiali della casa, i piccoli fastidi, la prova dell’esistenza quotidiana gravava solo sopra di lui e sulle larghe spalle di Piana. Fino ai quindici anni Maria non s’era occupata di nulla, e dai quindici in su di Cosimo Bancu. Viveva in un mondo trascendentale, e anche facendo la calzetta, anche aiutando debolmente Piana, il suo spirito rifuggiva spontaneamente dalle piccolezze della vita umile e quotidiana.
Ella parlava poco, sfuggiva lo sguardo e talvolta anche la presenza del padre, e, quel ch’era peggio, pareva che facesse ciò naturalmente, per semplice indifferenza.
Qualche volta Spina, nei ritrovi, seguendola con gli occhi e vedendola ballare e mostrarsi fugacemente lieta con le altre persone, giungeva a provarne una segreta e indistinta gelosia. Ma le ore liete duravano poco. Spesso Maria interrompeva a mezzo una risata, e ricadeva nella sua stanca malinconia, che pareva posa, capriccio di bimba volubile e viziata. Quasi che uno spettro, un’ombra, un ricordo amaro le passasse davanti, il suo viso s’oscurava e le sue labbra assumevano quell’increspatura dolorosa che colpiva vivamente il padre. Allora egli si pentiva della sua innocente gelosia, e avrebbe voluto, a costo di morirne di crepacuore, che Maria ridesse e chiacchierasse sempre e con tutti.
— Sei stanca? Vuoi che ce ne andiamo? — le chiedeva.
— Come vuoi.
— No, se ti diverti ancora. — Essa faceva una smorfietta d’indifferenza. — Allora andiamo.
E benchè egli avesse desiderio di restare, l’avvolgeva bene negli scialli, se la pigliava sotto braccio e tornavano a casa.
Lungo la via, al buio, avrebbe voluto dirle cose allegre e confidenti, ma il silenzio di lei, l’immobilità del suo braccio gli toglievano il coraggio di parlare.
Un giorno venne in casa Spina una signora, dicendo che il sabato seguente c’era ballo al circolo, e siccome Maria non dimostrava entusiasmo, esclamò:
— Ma signor Spina, che razza di fanciulla è sua figlia? Eccola lì fredda come il ghiaccio! Alla sua età una notizia simile mi faceva saltare per la gioia!
— Eh, Maria non salta — diss’egli. — Ma anzi ora è allegra. Se la vedesse in certi momenti!
Ella sentì un lieve accento di rimprovero e di tristezza in queste parole, ed ebbe voglia di piangere. Rise invece.
— Sì, aspetti che mi metto a saltare — disse alla signora. — Del resto, quelle che sembrano più fredde forse sono più sensibili delle altre!
Il padre, avendo molte ragioni per dubitare di questa asserzione, scosse la testa, accomodandosi il colletto con due dita.
— Vorrei un bel costume col velo — diss’ella.
— C’è quello di Piana.
Maria rise di cuore all’idea di trovarsi nel costume di Piana, il cui colletto poteva cingerle la vita, e Spina, contento ch’ella ridesse, le fece a sua insaputa portare un magnifico costume da un villaggio vicino.
— Com’è bello, com’è ricco! — diss’ella con gioia e sorpresa, voltando e rivoltando il corsetto alla luce.
Anche Piana guardava a bocca aperta.
— Ecco come dovrebbe esser sempre! — pensò Spina. — Perchè non è sempre così? Che le ho 10 fatto perch’ella non sia sempre così? Almeno il carnevale fosse eterno, e ci fosse un ballo ogni sera, ed io potessi procurarle ogni giorno un nuovo costume.
Tutta la sera Maria, che ogni tanto contemplava il costume, restò lieta; e quando Piana la vestì e l’adornò di gioielli, rise col volto colorito, voltandosi e rivoltandosi davanti allo specchio.
— Sta ferma! — gridò Piana. — Altrimenti me ne vado e t’accomodi tu!
La gonnella era di velluto nero e seta azzurra; nastri celesti allacciavano il corsetto sulla camicia ricamata e inamidata; le maniche spaccate sul davanti dal gomito in giù lasciavano sfuggire gli sboffi della camicia: un portento di ricchezza e d’eleganza.
— Come stai bene! — esclamò Piana, stringendole la cintura d’oro; poi si allontanò per guardarla meglio.
Mentre Maria, sdegnando il suo aiuto, si metteva il velo, rientrò in casa Beppe Spina, accompagnato sino alla porta da Stefano.
— Dov’è Maria? Non è pronta ancora? — gridò Spina dalle scale.
— Eh, si mette il velo, ma ci riuscirà domani! — disse Piana sdegnosa. — Io non so proprio che figura farà al ballo.
— Verrai tu pure.
— Io? — gridò Piana, puntandosi un dito sul petto. — Sta fresco lei se crede ch’io venga là per mettere il velo a sua figlia!
Entrato da Maria, Spina fu stupito di trovare, invece di sua figlia, una bellissima fanciulla alta e sottile, da gli occhi splendenti e il viso roseo.
Il velo ricamato dava una delicata vaporosità allo splendore del costume.
— Piana dice che il velo non te lo sai mettere! — esclamò, non sapendo dir altro.
E carezzevole le pose le mani sul capo, come per acconciarle il velo, e trovò il coraggio di dirle:
— Non sei più triste, non è vero?
Una nube passò davanti agli occhi di lei. Perchè suo padre le faceva questa strana domanda? Ah, dunque sapeva? Indovinava? Arrossì, provò una grande umiliazione, una intensa tenerezza, un desiderio di fuggire, di abbandonarsi piangendo sul petto di suo padre.
— Perchè triste? — disse invece con indifferenza, sfuggendo lo sguardo e le carezze di lui. Lo vide rattristarsi, e ne sentì un intenso dolore, ma non potè rompere l’ostacolo che li divideva. Non era possibile, non era possibile!
— Andiamo, andiamo! — disse. — Piana!
Uscì rapidamente. Per via incontrò Stefano e lo salutò famigliarmente.
— Oh, c’è anche lei? Buona sera! Viene?
Egli si tolse il sigaro di bocca, la guardò acutamente, colpito dalla sua splendida apparizione, e pensò:
— Che stupido Cosimo Bancu a non accorgersi di questa ragazza!
E si mise a corteggiarla. Fu al suo braccio che ella entrò nella sala da ballo, coi bei capelli a metà sciolti sotto il velo, che le davano un’aria di fata. Tutti si volsero a guardarla, e molti chiesero chi fosse.
Stefano vide Cosimo Bancu in fondo alla sala, appoggiato al pianoforte con aria annoiata, gli passò rasente, e sentì Maria, che dopo aver scorto il viso ben noto, tutto bianco e freddo sullo sparato della camicia che sembrava di porcellana, tremar come uno spaurito uccellino imprigionato.
Stefano s’accorse che Cosimo, con una fugace espressione di ammirazione sul volto, si rizzava sulla persona, fissando sulla fanciulla il suo acuto sguardo turchino, che penetrava come un assillo, come un insulto, come un bacio violento.
Gli avrebbe volentieri dato uno schiaffo, perchè quella sera soltanto si degnava d’accorgersi di Maria Spina, ma si contentò di guardarlo freddamente, conducendo intorno la sua piccola splendida dama.
La sala era già affollata di signorine in costume: un trionfo di scarlatto fiammeggiante che dava riflessi alle pareti adorne di edera lucente.
Quando Maria volle sedersi, Stefano si allontanò, ma non uscì dalla sala, benchè fosse un giocatore appassionato, e rimase vicino ad una porta, osservando Bancu, e attortigliandosi rabbiosamente i baffi.
Non era certamente innamorato di Maria, ma odiava Cosimo, e vedendolo fissare il suo sguardo da sparviero sulla fanciulla, provava un infinito disprezzo.
Ma s’accorgeva Maria dell’attenzione di Cosimo? Forse sì, perchè diventava sempre più bella, quasi animata da una misteriosa luce interna: sedeva graziosamente traverso una sedia, appoggiando un braccio alla spalliera, in modo che appariva di profilo, con la splendida gonna abbandonata sul davanti; e il velo che le cadeva sul fianco, la copriva tutta vaporosamente.
Cosimo la guardava ammaliato; gli sembrava che il profumo di viola, sentito mentr’ella gli passava vicino, si spandesse per tutta la sala e, siccome Peppina non era ancor giunta, desiderava vagamente che non arrivasse.
Perchè? E perchè provò una specie di irritazione nervosa pensando che quello sciocco di Stefano, suo predecessore nel cuore di Peppina, poteva diventargli successore nel cuore di Maria?
Sentendosi osservato da lui, a un certo punto, per fargli dispetto, mentre gli accordi del piano coprivano il chiacchierìo delle donne, e gli uomini, un po’ ridicoli nelle loro mosse falsamente corrette, correvano attraverso la sala in cerca di dame, s’avvicinò a Maria e inchinandosi l’invitò a ballare.
Ella, tutta rossa nel suo gran velo di fata, si confuse, non osò guardarlo, e si alzò; ma mentre Cosimo le porgeva il braccio, apparve il volto impassibile di Stefano.
Maria, nella sua confusione, lo scorse come attraverso il velo, e vide la sua gran bocca aprirsi ad un sorriso strano e parlare. Non udì le parole, ma vide Cosimo allontanarsi; quando si trovò appoggiata al braccio di Stefano, ebbe voglia di piangere.
— Non si ricordava? — domandò il giovine, guardandosi la punta dei piedi; e siccome ella non rispose, pensò con dispettosa pietà: — Povera creatura!
No, Maria non ricordava di avergli promesso il primo giro, e ballando gli pestò i piedi, perchè vedeva le pareti muoversi vertiginosamente in giro, le candele e le sedie roteare, le coppie aggirarsi intorno a sè stesse con gioco ridicolo e puerile.
Fra tanto caos notò Cosimo Bancu entrare dando la mano alla fidanzata, vestita di bianco, scollata, con una brillante catena d’oro intorno alla gola d’alabastro. I due fidanzati si misero a ballare, e da quel momento Maria non vide più che il collo di Peppina, e la catena d’oro che brillava a intervalli come una stella filante.
Stefano ricondusse la sua piccola dama che quasi non respirava più; mentre ella si sedeva passarono Cosimo e Peppina, parlando fra loro, e il vestito bianco della fidanzata, che spiccava come un giglio fra i costumi rossi delle altre signore, le sfiorò il velo.
Maria ne provò un’intensa tristezza: eppure Cosimo tornò a fissarla da lontano, e al secondo ballo le si avvicinò dicendole con famigliarità: — Questo è promesso a me, non è vero?
Ella s’alzò rigida e fredda, chinando la testa, sebbene non ricordasse d’aver fatto tale promessa: sentiva una tristezza sempre più profonda e cupa, ma il suo cuoricino non batteva più, e le pareti non si muovevano più vorticosamente. E fra le braccia di lui, con la testina così vicina al suo cuore, con la mano in quella di lui, non provò più nè gioia, nè dolore. E anch’egli, sentendosi fra le braccia quel corpo sottile e puro di bambina, da cui esalava il profumo di viola che l’aveva già colpito, nel veder quella fronte muta e triste, quei limpidi occhi che non osavano guardarlo, non seppe dire una parola. Con la mano inguantata premeva leggermente il velo ed i capelli sciolti di lei, e gli sembrava che quel velo, intessuto di brina e rugiada, purificasse la sua mano. Una timidezza strana lo prese, e si sentì invaso dalla tristezza di Maria. Finito il ballo, la ricondusse sul divano, s’inchinò senza sorridere e s’allontanò; non le rivolse più il suo acuto sguardo da sparviero, e parve anzi dimenticarla.
Per tutta la notte ella ottenne un gran successo col suo costume e il suo splendido velo: e ne pareva inebriata, gli occhi le splendevano, aveva le labbra rosse e lucenti come corallo.
Restava nella festa, trattenuta da una forza ignota; avrebbe voluto che quella notte non finisse mai, eppure in fondo sentiva sempre un’angoscia senza nome.
Verso la fine del ballo, mentre Stefano le sedeva accanto corteggiandola, le si avvicinò suo padre dicendole:
— Vogliono che tu canti l’Ave Maria di Gounod.
Ella lo guardò meravigliata, poi ricordò che nel villaggio delle montagne la signora del pretore le aveva insegnato l’Ave Maria di Gounod, e sorrise.
— Ma chi ha detto ch’io la sapevo?
— Io.
— Fa piacere a te?
— Sì.
— E allora anche a me.
S’alzò e gli prese il braccio sorridendo, ma in fondo alla sala vide Cosimo seduto al piano, e poco distante la fidanzata, assisa nella gloria del suo vestito bianco e dei suoi gioielli, e di nuovo si sentì morire.
Cosimo le accennò cortesemente di sedersi, ma ella volle star ritta, quasi appoggiata alla parete, seria e pallida nel suo gran velo un po’ scomposto.
Quasi tutti gli invitati s’aggrupparono intorno, e fu un chiacchierìo alto, pieno di risate, smorzato dagli accordi del piano, a cui Cosimo mescolava capricciosamente delle strane semicadenze che a Maria parevano singhiozzi sommessi.
— Siamo pronti — le disse, senza guardarla. E attaccò.
Fu allora un gran silenzio per la sala: parve che tutto il freddo e grigio silenzio dell’alba, biancheggiante sui vetri, si spandesse dentro; le fiammelle delle steariche quasi consumate si fecero lunghe e vivide, dando un rapido riflesso violaceo alle foglie sempre fresche e lucenti dell’edera sulle pareti.
Maria cominciò con voce un po’ tremula e sommessa, alterata dalla pronunzia del latino: Cosimo la sentiva come scendere dall’alto, e senza dimostrarlo l’ascoltava intensamente.
— Più forte! — disse una voce.
Maria si rinfrancò, e con la voce alzò gli occhi, inebbriandosi della sua angoscia sovrumana, che solo quella preghiera, che solo quella musica, suonata da chi causava il suo indicibile dolore, potevano in qualche modo esprimere e calmare. Gli ascoltatori non sorrisero più; le donne impallidirono, invase da un bisogno di piangere per quel dolore misterioso ed occulto che gemeva nell’invocazione della soavissima preghiera. E la voce diventava sempre più alta, più dolcemente straziante; e l’invocazione pareva un singulto di suprema disperazione, di estrema speranza.
Una ruga si disegnava fra le sopracciglia di Cosimo; le pareva che le note, sotto le sue dita bianche di decadente, fossero lunghi spilli d’oro, d’argento, di cristallo, che gli foravano e illuminavano il cuore come raggi proiettati da un’alta luce interna, abbagliante ed acuta.
Da tre notti egli non dormiva: quella notte aveva bevuto e giocato assai, tanto da mostrarsi più volte scortese e geloso con la sua fidanzata: nessuna meraviglia quindi se, suonando l’Ave Maria di Gounod, e udendo la voce di Maria, provava quella bizzarra impressione di spilli iridati, convergentisi in raggi che lo illuminavano e straziavano internamente.
La voce soave e infantile ora gli giungeva come di lontano, spinta, smorzata, resa sonora o languida dal vento: e nella interna luce che lo illuminava, la visione di Maria gli appariva tutta pura e divina nella sua veste di velluto e di velo. E sentiva la piccola anima trascurata e derisa pianger desolatamente, soavissimamente nelle sue note stesse, sotto le sue bianche mani crudeli.
A misura che la preghiera finiva, la voce diventava sempre più alta, più limpida e pura: Cosimo rivide Maria alla finestra, ed ora il suo amore, trasfuso nella sua preghiera, gli parve come una sorgente d’acqua purissima, color d’argento, che avrebbe potuto rinfrescarlo, purificarlo, dargli la pace che sentiva di non poter ritrovare nel frivolo amore di Peppina Marchis.
Una smania, un desiderio acuto di cessare, di volgersi, di chieder perdono a Maria, e dirle che l’adorava, e farle dimenticare in un bacio solo tutto il dolore che la sua voce svelava, lo prese, invadendogli il sangue con l’ebbrezza di una coppa di vino dolce e potente; ma quando lasciò di suonare si sentì come paralizzato, gli parve destarsi da un sogno, e vide la fanciulla allontanarsi fra gli applausi e gli sguardi di tutti gli invitati.
Uscendo dal ballo con Giovanna, vestita da florida e ridente olianese — Elena non era intervenuta — e accompagnando per un tratto di strada la fidanzata e i suoi parenti, Cosimo non parlò, ma due o tre volte traballò: Peppina rise freddamente.
Rientrato in casa, dormì profondamente fino a mezzogiorno; uscendo alzò la testa verso la finestra di Maria, ma la vide chiusa. Anche nei giorni seguenti non rivide la fanciulla, e fu preso da una inquietudine nervosa e cupa, credendo la fanciulla ammalata. Un giorno ne chiese notizie a Piana, e seppe che infatti Maria s’era sentita assai male dopo il ballo del circolo, e che Peppe Spina l’aveva condotta a Cagliari per divagarla, lasciandola presso una sua parente.
— Meglio così, forse — pensò Cosimo.
Quando Maria ritornò seppe ch’egli aveva già impalmato la signorina Marchis; per ciò forse si mostrò finalmente affettuosa ed espansiva col padre, e Peppe Spina si sentì l’uomo più soddisfatto del mondo.
Note
- ↑ Cipriana.