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aveva una strana fisionomia che sogghignava o sorrideva a seconda delle ore?
E piangeva, piangeva pensando a tutte queste cose, e mentre una voce interna la consigliava di andarsene, di fuggire i tormenti e le tentazioni, un’altra voce, più intima, più forte e potente, le diceva che nonostante tutto, ella doveva restare e operare secondo come voleva il suo destino.
Verso le due pomeridiane la farina era pulita; e venuta zia Franzisca, fra una storiella e l’altra, mentre la caffettiera brontolava sul fuoco, con gran voluttà della comare, fu lievitato e impastato il pane d’orzo, rimesso entro grandi recipienti di sughero, disposti accanto al focolare, e ben coperti con sacchi di lana. La fermentazione doveva cominciare nelle prime ore della notte; a mezzanotte Cicchedda doveva rimescolar la pasta entro i recipienti, e qualche ora dopo cominciar il pane.
Intanto ella si sentiva triste ed inquieta, perchè i padroni tardavano a ritornare; temeva che passassero la notte in montagna, ed ogni tanto usciva sul portone.
— Ah lo aspetti? — pensò Costanza, accorgendosene. — Ma stasera non uscirai sulla strada a far la pazza, parola che ti do io!
Infatti al cader della notte Cicchedda sussultò udendo il passo dei cavalli, e prese Domenico fra le braccia gridando: