Il rapimento d'Elena e altre opere/Introduzione alle osservazioni
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Traduzione dal greco di Angelo Teodoro Villa (1758)
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INTRODUZIONE
ALLE OSSERVAZIONI.
Il Sig. Abate Francesco Quadrio, allorchè nel quarto Volume della sua Storia, o Ragione d’ogni Poesìa questa Traduzione ha chiamata assai pulita, e nobile, ha forse pensato, per quell’amor, che ne porta, d’incoraggirci con lodi non meritate a rendercene in miglior età più degni. Dio sa, se il nostro talento, qualunque esso sia, è poi in tal guisa da noi impiegato, che s’abbia com’egli dice, a concepirne ben fondata espettazione. Ad ogni modo anche per questo capo in noi s’accrescono le obbligazioni, che molte abbiamo, a questo valorosissimo Abate.
Ci contentiamo altresì e ne sappiam grado all’ornatissimo Autore, del titolo, che si dà nella Storia letteraria d’Italia1 a noi d’Erudito, e alla nostra Version di Felice. Bisogna però, che qui avvertiamo un errore di stampa, nel citar, che si fa, il titolo dell’opera; perchè in vece di leggersi Coluto Tebano di Licopoli, v’è stampato di Sicopoli. Lo che tanto più volentieri osserviamo, quanto nelle copiose correzioni, soggiunte nel terzo Tomo, non è l’errore emendato. Noi non sappiamo, se chiaramente, quanto basta, ci siamo spiegati nella Prefazione, allorchè scrivemmo = Io credetti d’essere veramente il primo a pubblicare la presente Vita; ma poichè l’ebbi tradotta, ne trovai riportato uno squarcio da Gio: Alberto Fabrizio nella sua Biblioteca, dove parla di Quinto Smirneo, e dal medesimo appresi essere già stata data alla luce da Aldo Manuzio nell’edizione ch’egli fece, di Coluto = Pensavamo d’accennar con ciò, che anche da Aldo Manuzio è stata questa Vita stampata. Come dunque il degno Autore della suddetta Storia letteraria riporta soltanto, che ne fu parte stampata da Gio: Alberto Fabrizio? Ma in un’Opera sì faticosa, e piena di tanta erudizione, qual si è l’accennata, questa svista, comune col Novellista Fiorentino, è tale, che non merita considerazione. D’altra parte noi non avemmo qui altro desiderio, che di mostrare a chi ha usato le dette espressioni per noi, per la nostr’Opera, i dovuti sentimenti, che conserviamo per lui, di stima, e di gratitudine non ordinaria.
L’indefesso Sig. Segretario Argelati dev’esser non meno da noi in pubblico ringraziato per ciò, ch’egli s’è compiaciuto di stampare in favor della nostra Versione nel primo Tomo della sua Biblioteca degli Autori Volgarizzati. Noi intanto a questa sua degna Opera, ch’è tuttavia sotto de’ torchi auguriamo di cuore quel felice esito, che ben si deve promettere dalla sua lunga fatica nel raccoglierne l’infinite notizie.
Ma sarem noi contenti d’aver con lettere ringraziato l’eruditissimo Novellista Fiorentino, quand’egli più d’ogn’altro s’è dato il fastidio nelle Novelle de 23. Gennajo 1750. di chiamare ad esame in qualche passo l’interpretazione da noi fatta, dell’accennata Vita del nostro Coluto? A lui siam debitori della spiegazione dataci della voce κασούλων, intorno a cui niente abbiam voluto noi arrischiare, perciocchè fra l’angustia di tempo, in cui ci risolvemmo di pubblicare il nostro Volgarizzamento, nulla avevam potuto di sicuro intorno a ciò rinvenire. Non è però che tralasciassimo d’usar ogni diligenza per non defraudar noi stessi, e il pubblico insieme di sì fatta notizia. Che anzi avevam pregato due Valentuomini amici nostri e nelle cose d’erudizion versatissimi, perchè insieme con noi si adoperassero nel desiderato ritrovamento.
Ma tutto fu inutile in quella limitazion di tempo. Diremo però, che, già finita l’edizione, n’è occorso più d’una volta di trovar nominato questo Monastero di Casoli, e benchè della maggior parte non facessimo annotazione, per non aver più creduto di doverne far uso; tanto però, che possa bastare, ne parleremo a suo luogo nelle Osservazioni. Soggiungiamo altresì d’aver noi avuto due testimonianze d’autori intorno a questo dal dortissimo Greco, Sig. Raffaello Vernazza, degno Professore della natia lingua nell’alma Città di Roma. Gli autori sono Jeroteo Monaco nel titolo del suo Τυπικόν mandato già a Roma da Antonio Arcudio, di cui ne parla Leone Allaci nella dissertazione prima de Libris Ecclesiasticis Græcorum, ristampata per opera di Gio: Alberto Fabrizio. Amburg MDCCXII., e da noi ora veduta. L’altro è il medesimo Antonio Arcudio in una nota al sovraccennato Typicon. Noi, che avevamo esaminato il Fabrizio, ma in tutt’altro luogo, commendiamo la diligenza del dotto Professore, più faremmo non meno a lui obbligati, che al P. Don Carlo Francesco Vago, Barnabita, se questo valente Amico nostro, e una volta MacAtro di Sacra Teologia, che sentiamo ora cos piacer nostro eletto Proposto del suo Collegio in Bologna, avesse avuto la sofferenza di la sciargli stendere, ed ordinare, in maniera, che fossero intelligibili, le brevi Note trasmesseci intorno al nostro Volgarizzamento. Il Novellista Fiorentino vorrebbe altresì, che fosse stato da noi tradotto quelgòegone della Vita Fiorì, e non Nacque. Ma noi con buona grazia di sì celebre Letterato rispondiamo, che per quanti Lessici greci abbiam trasandati, per quanti autori veduti, c’è occorso sempre di trovar quel verbo nel significato di nascere2. Che s’egli ne riconviene d’aver noi in una Nota alla Prefazione adoperato il verbo Fiorire, doveva egli piuttosto in questo passo correggere la nostra inavvertenza e non desiderare in quell’altro un’interpetrazione aliena dall’Originale. In somma, quando abbiam tradotto dal greco, con rigor l’abbiam fatto: Men forse propriamente parlato abbiamo, e senza la dovuta riflessione, quando non si trattava di traslatare, ed era per l’argomentazione il medesimo usurpare la voce Nascere, o l’altra Fiorire. Sapevamo anche noi essere stato Imperadore quell’Anastasio, di cui nella Vita si fa parola, e non eravamo, la Dio mercè, così indietro nell’erudizione, che non avessimo trovato massimamente ne’ secoli bassi, usati indistintamente i nomiαὐτοκράτωρ, e βασιλεύς, nel significato d’Imperadore. Basta fra gli altri vedere Erodiano, e Zosimo, ovunque degl’Imperadori fecer menzione. Ma riflettendo noi più usual mente adoperarsi quest’ultimo nel significaro di Re, così l’abbiam voluto traslatare in una rigorosa tanto, e letteral traduzione. Vogliamo però confessare at Sig. Novellista, che meglio avremmo fatto traducendo a modo suo, giacch’egli è più verisimile, che l’autor della Vita abbia inteso di chiamare Imperadore Anastasio; purchè anch’egli ne conceda, non esser poi questo un sì madormale svarione, che ci abbia a fare arrossire. Passa di poi a correggere il diligente Novellista quel νικάιας in νικαιεύς e quel θουσκυλάνου in Τουσκουλανός . Che risponderemo noi a ciò? Essere questi errori non da imputarsi a noi, ma sì bene a chi ha scritto la Vita? Certamente lo potremmo fare con verità. Le due ultime lettere della prima voce sono scritte secondo il solito, con tale abbreviatura, che collazionate con altre simili vogliono leggersi ας e non mai sus. E noi abbiamo a buon’ora sospettato che fofle stata per avventura questa Vita da qualche imperito Italiano composta, il quale, siccome avrebbe detto in sua lingua Bessarion di Nicea, così egualmente si sosse espresso nel Greco. Quanto all’altra voce, nuovamente ricorrendo noi al Manoscritto, abbiam veduto di non avere sbagliato, anzi v’abbiam trovato la Θ in carattere così grande, che riguardo all’altre lettere usuali, può chiamarsi lettera da Speziale. Nè sappiam, come lo Stampatore v’abbia capricciosamente sostituito una piccola. Ora dovevam noi riportando una Vita da un Manoscritto, a nostro talento correggerla è non piuttosto fedelmente trascriverla cogli originali difetti? Massimamente che vedevamo essere stata, come da noi, stampata già dal Fabrizio, e conseguentemente da Aldo Manuzio, da cui la copiò. Ma noi non vogliamo in tutto scusare la mancanza nostra, comprendendo, che avremmo almeno dovuto soggiungerne l’ammenda in piè di pagina. E, perchè ciò non sia avvenuto, non lo sappiam dire, quando non volessimo accagionarne l’angustia di tempo, in cui ci siamo obbligati a dar l’ultima mano all’Opera, mentre andava sotto de’ torchi. Certo che ne ricorda d’aver noi tal pensiere avuto. Questi al più sarebbero i due errori di stampa, su cui potrebbe appoggiare il Sig. Novellista la sua proposizione che la Vita è alquanto scorretta. Giacchè però è sommamente difficile nell’edizione riuscir d’una lingua affatto ignota a chi stampa, in cui per lo meno un accento in ogni voce s’incontra, e pressochè nella maggior parte uno spirito, l’uno è l’altro de’ quali posson essere di natura diversa, abbiam volentieri veduto, ch’egli abbia fatto giustizia alla nostra diligenza nel rendere la stampa del Poema correttissima. Anche un’altra cosa vogliam qui soggiungere, che ne ha recato stupore, considerando come abbia potuto un uomo, che ha un vasto capitale d’erudizione in testa, dir con ragione, che noi avevam creduto di potere, dopo altri dotti Italiani, fare una plausibile Traduzione in versi Toscani. E chi sono eglino questi altri dotti dotti Italiani? A noi da principio ēra venuto in mente, che forse tra l’altre inedite Versioni dal Greco dell’indefesso Abate Salvini v’avesse anche questa. Onde non abbiam lasciato con lettera d’interrogarne l’umanissimo Novellista. Ma che? Egli si degnò di risponderci, che v’avea la Traduzione dell’Abate Corradin dall’Aglio, la quale credeva egli che da noi non fosle stata veduta. Ma non era così, che n’avevamo anzi letta una pagina, e mirandola tanto indegna d’un bellis simo Originale, ci lusingammo, che facile intrapresa sarebbe stata di produrne un’altra meno infelice, onde noi stessi ne prendemmo l’assunto. E, se dentro l’Opera nostra non ne abbiam fatta menzione, ciò pure addivenne, perchè stampandola noi in tempo, che’l diligentissimo Abate Quadrio raccoglieva notizie delle varie Edizioni, e de’ Traduttori di Coluto, abbiamo osservato, che le scoperte nostre intorno a questo soggetto erano già state fatte da lui medesimo. Onde abbiam voluto usargli questo rispetto di rimetterne alla relazione di quel grand’uomo i lettori. Per altro, se il Sig. Novellista s’è inteso di parlare della Traduzion dell’Abate dall’Aglio, con qual giustizia ha potuto dire dopo altri dotti Italiani? Nè sono stati altri Italiani che han tradotto Coluto, nè a quell’Abate doveva accordare il titol di dotto: poichè lo aveva egli prima sì malmenato in altre Novelle, ca noi parimente con tanto disprezzo ne ha scritto, che tutt’altra cosa avevamo dovuto da lui aspettarci. Quest’osservazione volentieri abbiam fatta per non parer presso al pubblico tanto imprudenti d’accingerci a nuova Traduzione in quella lingua, che ne fosse già stata da altri dotti uomini arricchita. Fatto stà, che noi viviamo obbligati al celebre Sig. Novellista Fiorentino, e per lui siam pieni di stima, assicurandolo, che ’l solo amore della verità ne ha renduti difensori di noi medesimi, dove ne conveniva esserlo Egli però ha saputo con tanta grazia le sue difficoltà proporre, con lodi mischiandole non meritate da noi, che aslolutamente ne dobbiam esser contenti. E s’altre fatiche nosre, che siam per fare, stimerà egli degne di sue diligenti osservazioni, noi certamente, senza mostrarne disgusto, torneremo a ringraziarlo con lettera, e proccureremo di sargh in pubblico quella giustizia, ch’è ben dovuta alla sua non ordinaria dottrina.
Co’ medesimi sentimenti di gratitudine ce la passiamo verso de’ Signori Novellisti di Ratisbona, i quali della nostra Versione diedero distintamente notizia nelle loro Novelle det 1750. par. X.
Non farem già così con que’ Valentuomini, i quali per via di lettere si son compiaciuti di darne privatamente attestato dell’animo loro, comechè ricordevoli ci manterremo di tanta lor degnazione. Noi non potevamo dissimulare col pubblico l’onore, che mente riduce a cattivo partito. Vi sono però de’ ripieghi onesti per saziarla, senza ricorrere a’ più disperati. Egli, che aveva fatto studio di Greco, doveva imparar da Focilide che a chi non è provveduto di buon capitale per riuscir nell’opere d’intelletto, non manca una lunga campagna, e un assai vasto mare per esercitarvisi o colla mano o coll’industria; ed egli appunto, ch’era nato Viniziano , poteva farlo comodamente, e con più decoro sull’Adria. Questa è una scuola per tanti, e tanti altri, che scemi di buon giudizio, e di soda dottrina pensan di vivere colla loro mordacità, giacchè l’Abate dall’Aglio non ha più bisogno di si fatto suggerimento, credendolo noi in luogo, dove si riderà del le nostre censure, e della gloria, che noi altri infelici con tanta premura c’industriam d’acquistarci. Ma quella sua sguajata Prefazione a noi muove la bile. Diamin! Non v’è Oratore, o Poeta o Poeta greco, e latino, che sia fedelmente ridotto in questa nostra dolcissima lingua. È troppo per fede mia, e ci vuol obbligar a credere, che la perfetta cognizion delle lingue, e l’arte di ben tradurre sia stata agli altri tutti negata, che fiorirono prima di lui e riservata a lui solo. Salvini avea pure tante lingue in bocca, non che la Greca, e l’Italiana, che furono le sue delizie. Possibile, che non sia mai riuscito in nessuna delle molte Versioni, ch’e’ fece? Possibile, che mon abbia mai potuto, come s’era ideato, porre, e fissare i suoi piedi nelle vestigia de’ Poeti, che traslatava? Ma tant’è: Salvini traduce per esempio grand’Apollo, e Omero non cantò, che Apollo. Questo è un gran cerpellone, poichè sul punto di tradurre s’hanno a numerar le parole del Testo e se un jota v’ha di più, o di meno nella Versione, merita subitamente censura: E non è poco in colera il nostro delicatissimo Abate vedendo, che Salvini ha voluto rappresentarci Apolline, ch’era un Dio, che si dilettava di canti, e di suoni, fuori del suo naturale forte crucciato, quand’Omero appena lo chiamò crucciato. Pover’a noi, che siamo stati egualmente infedeli al nostro Coluto, allorchè abbiam dato verbigrazia il titolo di Bella ad Elena capricciosamente, quando forse il Poeta avrà avuto concetto che fosse brutta. Ne ci varrà l’aver confeslato questo nostro misfattone grandone nella lettera a chi legge, non essendo buona scusa il dire, che tali son poi questi Aggiunti, che non accrescono veruna minima idea all’idea dell’autore, come quelli, che di lor natura subitamente s’adattano a que’ nomi, di cui sono Aggiunti. Signori no, avremmo dovuto far piuttosto i versi mancanti di qualche sillaba ad imitazione dell’Abate dall’Aglio, ma non mai per rendergli o compiti, o più vaghi, aggiungervi a nostro talento nè Grande, nè Forte, nè Bella. Peggio poi per l’Abate Salvini, che noi alla fin fine non abbiam voluto empircene la bocca, ma per l’altro è arrivato a tanta diligenza l’esattissimo Censore di numerargli i versi, in cui s’è fatta lecita simile temerità, ed ha osservato, che in una decina (non importa poi nulla, che sien due) in quattro righe, ch’è poi tutt’uno, che venti, ha commeslo sette peccati di questa sorta.
Che direm poi d’Anacreonte, che a giudizio del dall’Aglio non ebbe finora un fedel Traduttore. Povero Anacreonte! Il Corsini, dic’egli, e il Marchetti cantano divinamente, ma a lor talento, e capriccio parafrasano, non traducono. Ma che? La lor Parafrasi è ella buona? Se no, perchè non s’affibbia la giornea anche contra costoro? Se sì, con qual ragione mena egli contro di loro tanto rombazzo nel Frontispizio? Oppure è per sè stessa una cattiva cosa la Parafrasi? Noi non pertanto siam di parere, che non poi tutti gli Originali possano da qualunque lingua in qualunque altra egualmente trasportarsi Ad ogni modo noi giudichiamo, che per esser fedele fa duopo riportare non tanto le frasi, quanto le grazie natìe del Poeta tradotto. Se l’una, e l’altra di queste cose può ad un tempo ottenersi, perchè non s’ha a fare? Se no, dee il giudizioso Traduttore, a costo di mutarne le frasi, far che s’assaporino nella volgar lingua i colori, e le bellezze del Testo. Ora Anacreonte è sì fatto Poeta, che ha un dir melato, ch’è pieno zeppo di vezzi, tutto tutto lisciato, raffazzonato, armonioso, e tenerino. Sarà fedele chi non gli farà perdere queste grazie natie, traducendolo. Due cose tra l’altre senza contradizione son necessarie, il metro, che appunto chiamasi Anacreontico, e la rima, ch’è un dilettevole incantesimo de’ nostri orecchi. Ma egli è pur vero, che, se noi vogliamo obbligarci a quella ferratura Corradiniana, nè l’una, pè l’altra di queite cose leggiadramente otterremo. Chi non prova il tormento che dà la rima anche ne’ componimenti di nostra invenzione? Chi non vede la difficoltà di riuscire nel metro corto? Ma stà stà, che il Regnier da lui costantemente chiamato Regier, s’accosta al Poeta più da vicino, sebbene alla foggia dei primi. Così traslata egli un verlo d’Anacreonte:
Vo cantar gli Atridi, e Cadmo.
Ora l’Abate nostro non gliela sa perdonare, sicchè pieno d’impazienza non dimandi perchè tralascia di tradurne il θέλω ᾄδειν, contentandosi di voltar solamente il θέλω λέγειν. Ogn’altro però, che una leggiere tintura avesse avuto di Greco, dimandato avrebbe, piuttosto, perchè lasciato avesse di volgarizzar quest’ultimo, giacchè ᾄδειν da appunto altro non vuol dir, che cantare, e quel cantare, che a’ Poeti s’attribuisce. Ecco, dove casca l’asino. Ha creduto, che letteralmente colla parola cantare fosse tradotto il verbo λέγειν, che significa dire, e che non lo fosse, col verbo ᾄδειν, che significa cantare.
Passa finalmente dopo altre stiticherie contra il Regnier a far mostra di sua vasta erudizione, colla quale ne fa assapere, che Salvini ne ha fatto due traduzioni d’Anacreonte, la prima delle quali è una parafrasi pura, e pretta, la seconda pare, che stia col testo. Esclama però punto dall’Estro, come un bue. Dio buono! Perchè non istate attaccati al Poeta e colla stessa vaghezza, e felicità non lo fate vostro? Vedete di grazia, che monta in bigoncia questo tristanzuol tisicuzzo e ne vuol fare assaporare la vaghezza, e felicità de’ suoi versi con una traduzione, che a buon conto e’ chiama fedele. Sentiamola.
Cantar voglio gl’Atridi
E voglio cantar Cadmo
Ma le corde della Cetra
Suonano solo Amore
Cangiai le corde pria
E la cetra affatto tutta
Affè ch’io cantava d’Ercole
Le fatiche, ma la cetra
Rispondea incontro gli Amori
Da qui innanzi addio da noi
Eroi, perchè la cetra
Soli gli Amor risuona.
Ma la cetra con le corde
Risuona solo Amore.
Non risuona, ma canta nell’ultimo verso avrebbe tradotto un più Corradiniano di lui. Avete Voi osservato la vaghezza, e felicità sua, sicchè pare immedesimato con Anacreonte? Quella varietà di versi, alcuna de’ quali è di sette sillabe, altri d’otto, dee pur muover diletto? Quella facilità, quella chiarezza, ed armonia le son pur cose, che fanno ire in visibilio. Ma sentite, ch’e’ve la vuol cantare in rima
Voglio gli Atridi cantar
E voglio Cadmo suonar,
Ma le corde della cetra
Sol d’Amor feriscon letra.
Le corde pria ho disfatto
E la cetra tutta affatto,
Affè ch’io cantava l’ira
D’Ercole, ma già la lira
Risuonava incontro Amor;
Addio, da noi fuor
Eroi, poichè la cetra
Sol d’Amor ferisce Petra.
Il canchero venga alla migliore di queste due Traduzioni. Oh poffare! E pretende poi quasi di far vedere, che in lui è entrato lo spirito del gran Catullo, ch’egli adduce per esemplare d’ottimo Traduttore. Non trattiamo.
Ognuno poi si sarebbe aspettato, ch’egli dovesse calar la visiera contro dell’Abate Lazzarini, giacchè l’avea sfidato nel Frontispizio. Ma no. Questi nella sua Traduzione dell’Elettra di Sofocle è stato più religioso d’ogn’altro, e volle sull’orme del Tragico camminare curiosamente per darcela sincera, migliore di quelle, che avevam per le mani. Si corruccia solamente per i due Cori, che mancavano nell’Originale Italiano. E guai se sapeva da chi erano stati suppliti, benchè bisogna da quel che in seguito dice, ch’egli avesse qualche sentore, che fosse un forestiero. Sguajato! Si fidò troppo de’ Lessicografi greci, quali vogliono, che αἷμα si spieghi per spada. Ed egli è quasi per giurare, che αἷμα non ebbe mai nella Grecia il significato di Spada. Noi anzi eravam d’oppenione, che se d’alcuna cosa potevalo a torto, o a diritto rimproverare, ciò fosse per aver usato tal voce in sentimento non segnato da’ Lessici. Credevamo però, che questo appunto fosse quel caso, in cui non dovessimo prendere scuola da’ medesimi. Potevasi più adeguatamente voltare il verso di Sofocle
νεακόνητον αἷμα χειρῶν ἔχων,
che nella maniera usata dal Traduttore?
La testè aguzza
Tenendo in mano
Cruenta Spada.
Sue può certamente essere una di quelle figure, tanto familiari a’ Greci, e a’ Latini dinotante la cagion dal suo effetto: tanto più che ’l giudizioso Traduttore dà una idea anche del Sangue nell’Aggiunto di cruenta alla Spada. Ed in tal caso vedete quanto è ben traslatata la voce composta νεακόνητον colle due Italiane Testè aguzza. Ma egli accorre al bisogno con questa sua versione
Tenendo in mano
La Spada acuta
Col fresco sangue.
Trovate anche qui Spada. Ma non maravigliatevene, ch’egli non s’è avvisato di tradurre perciò il greco αἷμα. Signori no: Spada non è nel Testo, ma s’ha a concepir, che vi sia, dal cortese Lettore, nell’istessa maniera, che s’ha a sottintendervi ancora, giusta il suo volgarizzamento, qualche proposizione, che regga la voce αἷμα. E a questa guisa il Poeta molto ne avrà lasciato da ammirare in quell’Aggettivo al Sustantivo congiunto, e concordante con esso, sebben dal medesimo independente, e che solo ha relazione ad un Sustantivo per comodo del verso taciuto. Molto più ancora in quella congiunzion di due voci, che dovranno indispensabilmente dal nostro intelletto disunirsi, per riferire il primo Aggettivo νέον al non espresso Sustantivo σίδηρον; e ’l secondo ἀκόνητον all’espresso αἷμα. Ma se fossimo uomini di sì buona pasta, qual non uscì per anco della miglior madia del Mondo, potremmo a lui passar facilmente un ordine tanto intralciato, e sconvolto, quanto non è la coda del gran Diavolo.
rOra immaginatevi qual darà saggio del suo valore in una propria versione chi è sì ben riuscito e con tanto spirito nel censurare l’altrui? Una grazia però vi chiede che se incontrate nel leggere qualche verso duro, e languidetto o qualche altra cosa di peggio, che vi facesse arricciare il naso, doniate generosamente alla necessità di un buon Traduttore. Chi vorrà mai non essere con lui generoso? Noi, che non ci sentiamo giammai il naso arricciare, e che siamo d’un cuore assai tenero, useremo in primis la generosità di perdonargli, secondo il suo desiderio, la durezza, e languidezza de’ versi, che tratto tratto s’incontra. Useremo in secondo luogo quella di non inquietarci, per veder tanto da lui strappazzata la nostra bellissima lingua, di che sembra quasi, che abbia voluto far pompa, cominciando da un verso che pare del nostro Incognito d’Eritrea.
Ninfe Trojan del fiume Xanto figlie.
Gli useremo quella in terzo luogo di non far conto de’ versi mancanti, e crescenti, come per esempio
Regina giuliva delle Grazie.
Agitator cieco de’ buoi.
Dove ha pensato con orrida, e nuova maniera di trascinare il dittongo, e di farne due sillabe per compimento del verso. Ne vuole più generosi? Sarem contenti soltanto di mostrare con tutta placidezza, ch’e̟’ non è stato per verun conto fedele.