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tutto lisciato, raffazzonato, armonioso, e tenerino. Sarà fedele chi non gli farà perdere queste grazie natie, traducendolo. Due cose tra l’altre senza contradizione son necessarie, il metro, che appunto chiamasi Anacreontico, e la rima, ch’è un dilettevole incantesimo de’ nostri orecchi. Ma egli è pur vero, che, se noi vogliamo obbligarci a quella ferratura Corradiniana, nè l’una, pè l’altra di queite cose leggiadramente otterremo. Chi non prova il tormento che dà la rima anche ne’ componimenti di nostra invenzione? Chi non vede la difficoltà di riuscire nel metro corto? Ma stà stà, che il Regnier da lui costantemente chiamato Regier, s’accosta al Poeta più da vicino, sebbene alla foggia dei primi. Così traslata egli un verlo d’Anacreonte:
Vo cantar gli Atridi, e Cadmo.
Ora l’Abate nostro non gliela sa perdonare, sicchè pieno d’impazienza non dimandi perchè tralascia di tradurne il θέλω ᾄδειν, contentandosi di voltar solamente il θέλω λέγειν. Ogn’altro però, che una leggiere tintura avesse avuto di Greco, dimandato avrebbe, piuttosto, perchè lasciato avesse di volgarizzar quest’ultimo, giacchè ᾄδειν da appunto altro non vuol dir, che cantare, e quel cantare, che a’ Poeti s’attribuisce. Ecco, dove casca l’asino. Ha creduto, che letteralmente