III. Come prendessero coloro i sogni ambiziosi della bianca Getruda

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III. Come prendessero coloro i sogni ambiziosi della bianca Getruda
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Capitolo III.

Come prendessero colore i sogni ambiziosi della bianca Getruda.

Ah sì, aveva ragione il nero castellano; Getruda bianca non era fatta per dar la mano ad un povero aldione, bensì per piacere ad un castellano, ad un conte, ad un re. Quante volte non glielo aveva detto l’acqua della fonte, su cui si era inchinata? E ancora glielo diceva, posto accortamente di sbieco verso la luce del sole, uno specchio di metallo, donato a sua madre dalla nobile Gerberga, moglie del conte Aleramo, e figliuola di re. Ah, parer bella egualmente al figlio di Aleramo, al figliastro della nobile Gerberga, quale fortuna! Perchè fino allora Getruda non aveva veduto [p. 64 modifica]

Perchè fino allora Getruda non aveva veduto, non aveva immaginato nessuno che fosse più alto di lui, conte Anselmo, signore di quelle terre, di tutte le cose e persone che in quelle terre esistevano.

Ma anche per giungere fino a lui, le sarebbe stato necessario passar per le mani del castellano Rainerio.

Per le mani e per le carezze sue! Sicuramente, quello non era l’uomo che Getruda avrebbe sognato, ne’ suoi sogni ambiziosi. Ma era quell’uomo che le indicava un modo di giungere più alto; un modo ch’ella altrimenti non sarebbe venuta a capo d’immaginare.

Fredegonda, la bellissima fantesca, da lui ricordata in buon punto, com’era giunta ai gradini del trono?

La bellezza è una gemma; e la gemma ha mestieri d’esser diligentemente pulita, nobilmente legata in oro dall’artefice, per piacere ai potenti che dovranno adornarsene.

Perde ella il pregio? o non lo acquista piuttosto, passando per le mani dell’orafo?

Fredegonda, come una gemma preziosa, era [p. 65 modifica] piaciuta al possente Merovingio; e l’orafo, il presentatore di quella gemma, era stato Landerico.

Tanto aveva narrato Rainerio; tanto aveva dimostrato, con l’accortezza dell’esempio, alla bianca Getruda.

Dove poteva condurla il castellano? Del come, ella non poteva formarsi per allora una idea, il come sarebbe venuto a suo tempo. Ella intanto pensava al dove. Alla corte di Acqui? Ma poteva ciò bastare a Rainerio? Il castellano aveva le sue ambizioni, e pareva vederle assai ciliare. Possedeva il favore di Anselmo, e voleva salire più alto, molto più alto; non dunque alla corte di Anselmo. E sarebbero stati in due; uomo valoroso e donna bella: due ambizioni accompagnate. Egli col valore e con l’arte; ella con la bellezza, che quell’uomo voleva pur tanto esaltare.... Orbene, perchè no? Si sarebbe veduto; si poteva pensarci; a buon conto, si doveva accettare il suo consiglio: non impegnare il suo cuore coi servi della gleba.

Certamente, il castellano Rainerio non era [p. 66 modifica] bellissimo; non somigliava punto all’uomo che tutte le fanciulle sognano, tra i quattordici e i diciott’anni, e che ella aveva sognato come tutte le altre. E nel punto che ella pensava così, le passò davanti agli occhi della mente l’immagine di Marbaudo. E tremò; ma fu un tremito passeggiero, a cui tenne dietro un sorriso di compassione.

Marbaudo era un aldione, quasi un servo della gleba, per lei. Era anche un bel giovane. Ma che importa ad una donna che l’uomo sia bello, se egli non è potente del pari, secondo il grado d’ambizione a cui ella è giunta, o per condizione di vita, o per tentazione degli spiriti maligni, che parlano al cuore con gli esempi dell’altrui fortuna e ricchezza?

Se Getruda fosse stata una bella regina, scambio d’essere una bella figliuola di lavoratori dei campi, meno male; avrebbe anche potuto essere capricciosa nella scelta, e ragionare a un dipresso così:

“Ecco un bello e forte uomo, che nelle sue rozze vesti ha un’aria di principe; vediamo [p. 67 modifica] se fosse possibile d'ingentilire questo iddio boschereccio, mettendogli sul capo un elmo di milite, perchè la gloria lo educhi a grandezza, o nelle mani un’anfora d’argento, perchè serva come coppiere alla nostra mensa regale. Se vince la prova, lo innalzerò; diventerà un sostegno, un ornamento della mia corte, ed io potrò dirgli un giorno: — Bel cavaliere, tutto ciò è avvenuto per grande amore che m’aveva preso di voi. „

Ma ella non era una regina; era una povera ragazza del contado: e per un uomo, se sapeva sceglierlo, doveva innalzarsi ella stessa. Ora, i pregi di Marbaudo erano molti; ma uno glie ne mancava, che sarebbe bastato per tutti; egli non era della schiatta dei signori, nè sulla via di diventare un nobile uomo, di usurpare ancor egli, o con l’audacia o con l’arte, o col valor suo, o col favore dei grandi, la sua parte di mondo.

Si sarebbe egli almeno contentato di servire all’ambizione di Getruda? Avrebbe accettato presso di lei l’ufizio di Landerico?

No davvero, Getruda lo indovinava [p. 68 modifica] benissimo; egli sarebbe stato un amante molesto, un geloso feroce. L’avrebbe adorata: gran mercè! Tanti altri l’avrebbero adorata egualmente.

E quel geloso, non dandole che l’amor suo, l’avrebbe sottratta ad ogni sguardo, costringendola al modesto ufizio di far progenie di dldioni. Sorte non invidiabile, per verità!

Getruda sapeva, per molti esempi che aveva dintorno, come la gioventù si perda e la bellezza sfiorisca, nelle cure della famiglia, dove la ricchezza e l’ozio fastoso non aiutino a correggere i danni della maternità e le ingiurie del tempo.

Quante leggiadre spose di Croceferrea e delle terre circostanti non si erano precocemente avvizzite negli stenti della vita campagnuola! Quante belle labbra vermiglie non avevano perduta in pochi anni la loro graziosa accompagnatura di perle! Queste erano volgarità; ma dovevano pure tornarle a mente, nel meditare che ella faceva su quel tema fastidioso tra tutti. Ed è un tema a cui si pensa necessariamente, quando si è belle e gelose della [p. 69 modifica] propria bellezza, dono divino che il cielo non manda due volte alla sua creatura. Ma poi, a che serve la bellezza, quando non ha tributo di omaggi? E come si possono ottenere gli omaggi, quando la bella è nata in umile stato e col pericolo di doverci restare per tutta la vita? Sicuramente, la vezzosa Fredegonda non si era appagata di piacere all’accorto Landerico. Non meno accorta di lui, lo aveva preso come sgabello, per salire, per raggiungere l’altezza del trono.

Due ambizioni si erano dunque accompagnate, e trionfavano insieme, ognuna a suo modo e nella propria misura: quegli diventando un cortigiano, un illustre servitore; ella cingendo la corona regale. Arte, inganno, fortuna! Sì, tutto ciò che volete. Ma è pure risaputo che si sale un po’ tutti così; l’essenziale è di giungere alla meta. E quando la vezzosa Fredegonda ebbe cinta quella corona regale, nessuno pensò che quella corona non le tornasse a viso, o che la superbia dell’antica ancella delle regine di Neustria, fosse diversa da quella di tante figliuole di re. [p. 70 modifica]

Getruda pensava; e frattanto Dodone discorreva col castellano, che gli vantava i pregi della bianca fanciulla. Il vecchio aldione fingeva di non capire, e ciò gli permetteva di rispondere in quel modo che gli tornava meglio. SI, veramente, non c’era male; Getruda aveva la bellezza che chiamano del diavolo, perchè presto il diavolo se la porta via, cioè a dire la gioventù. Aveva ancora una certa vivezza di pensiero, una certa festività di modi; spuma che accompagna il buon vino, fino a tanto che è giovane. Ma intanto bisognava pensare a maritarla, quella cara figliuola.

— Di questo si dia pensiero ogni altro, che non sia il padre di Getruda; — rispondeva Rainerio. — La tua figliuola è un occhio di sole. Sarà la fortuna della tua casa, se tu sai intenderla e farne tuo pro’.

Il furbo villano intendeva benissimo il pensiero di Rainerio. Egli non aveva credulo mai che il castellano andasse così spesso lassù per il semplice gusto di ragionare con lui di nuove piantate di vigna, per raddoppiar le vendemmie di Croceferrea, o del raccolto delle mele, [p. 71 modifica] donde si cavava il sidro per le sbevazzate della corte d’Anselmo. Da quelle frequenti cavalcate di Rainerio al podere, Dodone traeva profitto per pagare il meno che gli fosse possibile e metter di costa qualchedun’altra di quelle belle monete d’oro con la effìgie dei vecchi imperatori romani, che gli piacevano tanto.

Le monete, s’intende, e non gl’imperatori; i quali si guardavano soltanto per guarentigia del titolo. Non erano, per esempio, così pregiate le facce degli imperatori di Bisanzio; facce proibite, o da proibire, per la fede greca che appariva dal titolo inferiore dell’oro. Monete greche e monete romane erano del resto in uso per tutto il mondo conosciuto, e in Italia piacevano ai servi indigeni, come ai signori stranieri. Dodone non poteva sperare, all’età sua, di diventar grande; ma voleva esser ricco. E quando una di quelle monete entrava nel suo forziere, la faccia d’imperatore, che c’era impressa, non poteva sperare di uscirne più, se non nelle ore quiete e solitarie che il vecchio aldione consacrava all’adorazione del suo [p. 72 modifica] dio. In tempi già tanto lontani dal culto degli imperatori estinti, Dodone di Croceferrea era un augustale a suo modo; non adorava gl’imperatori romani in ispirito, ma in verità; non nella idea della apoteosi, ma nella specie sonante.

Aveva tre figli: due maschi e una femmina. Uno dei maschi, il primogenito, si era presto accasato; aveva voluto andarsene a vivere altrove; sicchè non c’era da fare più assegnamento su lui. Il secondo, ultimo nato, rimaneva ancora nel podere, in compagnia del padre; ma era giovane, e non ancora un sollievo per lui, specie nella vigilanza sui famigli e sui manovali presi a giornata.

Occorreva dunque a Dodone un buon aiuto, intelligente e fedele, i cui servigi avrebbe pagati con la mano della figliuola. Marbaudo gli era parso l’uomo da ciò. E pensava per l’appunto a Marbaudo, quando rispondeva a Rainerio, che gli parlava di sua figlia:

— Bisognerà pensare a maritarla, quella cara figliuola. —

Il vecchio Dodone strizzò l’occhio sinistro, [p. 73 modifica] come soleva, per dimostrare al suo interlocutore di aver capita la burletta.

Ma subito la sua faccia arguta si compose ad una espressione di umiltà, e diciamo pure di melensaggine rusticana.

— Non dir queste cose a lei, te ne prego! — rispose egli allora. — Ci vuol tanto poco a far montare in superbia le ragazze del giorno d’oggi! La mia figliuola è come tutte le altre, che hanno la bellezza della gioventù e della salute, e si credono di essere Dio sa che gran cosa. Quanto a me, ho altro da aspettarmi che una grande fortuna! Sarò molto contento se mi riescirà di metter la mano sopra un bravo uomo, che non abbia grilli per il capo e ami il lavoro come lo amo io, come lo hanno amato i miei vecchi. Perchè questo è necessario a noi, gente dei campi: amar la fatica, alzarci per tempo e andar tardi al riposo. Vorrei trovare un genero che fosse buono e forte, e m’aiutasse a far prosperare questa terra. Il podere è grande ed ha bisogno di braccia. Su quelle ripe, dove cresce la vigna, non ci si può andar già con l’aratro! [p. 74 modifica] — Ma per questi servizi hai gente abbastanza; — disse Rainerio.

— Ah, sì! Buone lane, che fanno in quattro il lavoro di un uomo! Ti allontani un momento, e lasciano la vanga, per asciugarsi il sudore; quando hanno asciugato il sudore, raccolgono il fiato; quando hanno raccolto il fito, se ne servono per istare a chiacchiera, Ano a tanto non ti vedano ricomparire sul ciglione. Ci vuol vigilanza continua, perchè il lavoro sia fatto; ed io non posso mica esser dovunque, come il bisogno! Avevo un figliuolo capace di aiutarmi, ed ha voluto prender moglie e tenere un poderuccio da sè. L’altro, che mi resta in casa, è troppo giovane e mi pare che s’avvii spensierato a quel modo! Infatti, è forte a suonare lo scacciapensieri sotto le finestre delle ragazze che stanno nel vicinato. Ancora ieri ho dovuto sgridarlo; ho dovuto dirgli che i giovani della sua età hanno l’obbligo di lavorare, di guadagnarsi il pane che mangiano, e m’ha risposto con un’alzata di spalle. “Perchè lavorare? mi ha soggiunto. Tanto, è vicino il finimondo. „ [p. 75 modifica]

— Che sciocchezze! — esclamò Rainerio. — Credete nel finimondo, voi altri?

— Eh, mio signore, io non so veramente, — rispose Dodone. — Se il mondo avesse a finire, come si ciancia da un pezzo, non saremmo noi che dovremmo dolercene di più. Ma siccome potrebbe anche darsi che non finisse, penso che quella vigna vada potata alla sua stagione, quel fieno falciato e rivoltato, quelle castagne raccolte e messe nel seccatoio. E finisca pure, come dicono; ne abbiamo sempre per dieci anni da campar noi, e da pagare i tributi. Perciò, dico io, vuol essere un giovanotto forte e buono, che m’aiuti a far fruttare la terra.

— E quest’uomo pagherai con la mano della tua bella figliuola? — chiese Rainerio.

— Sicuramente. Poichè tanto è destinata per ciò, e qualcheduno l’ha da prendere, è giusto che io pensi a collocarla utilmente.

— Vuoi che ci pensi io? — disse Rainerio, dopo un istante di pausa.

— Tu, mio signore?

— Io, si; perchè non potrei pensarci ancor [p. 76 modifica] io, desiderando il bene della tua casa, da amico qual sono?

— Vero.... verissimo.... — balbettò il vecchio aldione. — Ed io ti ringrazio della tua grande bontà. Ma conoscerai tu egualmente l’uomo che possa convenire ad una famiglia di lavoratori?

— Eh, per la croce di Dio! non sarà già così diffìcile, come il provvedere a tutti i bisogni della casa d’Aleramo, — rispose Rainerio. — Tra tanti aldioni soggetti al conte Anselmo, troverò ben io quello che faccia al caso tuo. —

Dodone non pensò più a strizzar l’occhio sinistro, tanto era da tenerli aperti ambedue.

— Capisco, — diss’egli, acquetandosi in apparenza, — potrai fare anche questo, e trovar meglio che io non saprei. Ma vedi, signor mio, sarà anche meglio lasciare a Domineddio la cura di mandarci quell’uomo, e sopra tutto di ispirar bene la mia cara figliuola.—

Il castellano, a cui si anteponeva così in mal punto l’autorità di Domineddio, pensò per allora di non dire più altro sull’argomento [p. 77 modifica] delle nozze di Gctruda. Sorrise, in quella vece, e mutò discorso; poi cogliendo il momento che un famiglio veniva a quella volta, per dire qualche cosa a Dodone, si accomiatò dal vecchio e andò verso il suo cavallo, che lo aspettava davanti alla casa.

— Tuo padre vuol maritarti; — bisbigliò egli a Getruda, nel passarle daccanto. — Resisti, se vuoi essere ciò che devi; non dare a servi la tua bellezza, che è degna di più alta fortuna.

— Ahimè, signore! — mormorò Getruda. — Povera bellezza, che nessuno vedrà!

— L’ho veduta io, che saprò farla risplendere agli occhi del mondo; — replicò il castellano. — Pensa a Fredegonda.

— Se mio padre vorrà, dovrò pure obbedirgli.

— A questo penserò io. Promettimi soltanto di non risolver subito, di non precipitare, di non guastare i disegni di un uomo che t’ama. —

Getruda chinò la fronte, arrossendo, come avrebbe fatto alla frase insidiosa di un viandante ammirato. Ma Dodone aveva un occhio [p. 78 modifica] al cane e l’altro alla macchia; Dodone vide il castellano fermarsi ancora davanti alla casa e scambiare quelle poche parole con la sua ambiziosa figliuola; perciò, a mala pena il castellano Rainerio si fu allontanato dall’aia, andò egli verso Getruda.

— Che cosa ti lui detto il castellano? — le chiese.

— Padre mio.... che vuoi tu che mi abbia detto?

— Che sei bella, non è vero? —

Getruda abbassò gli occhi, intenta a far girare il suo fuso.

— E tu lo hai creduto, non è così?

— Padre mio.... son cose che tutti gli uomini dicono.

— E da un uomo solo si ascoltano; — replicò il vecchio Dodone. — Da un uomo solo; m’intendi? e dall’uomo che tuo padre avrà scelto per te. Questo che io ti dico per l’autorità paterna, ti può ripetere il canonico Ansperto, in nome della legge divina.

— Io non dò retta a nessuno; — disse Getruda, umiliata dal piglio sdegnoso del vecchio. [p. 79 modifica] — È colpa mia se il castellano, venendo a cercare di te, si ferma a parlarmi?

— Egli si fermerebbe meno, se tu non mostrassi di ascoltar volentieri le sue ciance. So bene ciò ch’egli vuole. Maritarti a modo suo! Quanta cura per noi, povera gente! Ma bada; io non voglio nè scudieri, nè servitori di conti; io voglio un aiuto alla mia vecchiaia; voglio un uomo dei campi, come siam noi, che possa far fruttare questa terra, dove siam nati, e che è un po’ più nostra, che non sia di tanti signori, i quali hanno avuto solamente la fortuna di nascere. Noi siamo aldioni, ma sappiamo quel che la terra vale, e quante gocce del nostro sudore entrino in una spiga di grano, o in un acino d’uva. Questa terra è nostra, e dobbiamo difenderla. —

Ciò detto, e parendogli che fosse fin troppo, il vecchio Dodone voltò le spalle alla sua bella ed ambiziosa figliuola, per ritornarsene alla terra de’ suoi sudori; anch’essa insidiata da conti, da ciambellani, da abati e da vescovi, che non ci avevano sudato, per bacco!