Il piacere/X
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X.
Alla partenza dei Ferres seguì dopo pochi giorni la partenza degli Ateleta e dello Sperelli per Roma. Donna Francesca volle abbreviare la sua villeggiatura a Schifanoja, contro il solito.
Andrea, dopo una breve sosta a Napoli, giunse a Roma il 24 ottobre, una domenica, con la prima gran pioggia mattutina d’autunno. Rientrando nel suo appartamento della casa Zuccari, nel prezioso e delizioso buen retiro, provò un piacere straordinario. Gli parve di ritrovare in quelle stanze qualche parte di sè, qualche cosa che gli mancava. Il luogo non era quasi in nulla mutato. Tutto, intorno, conservava ancora, per lui, quella inesprimibile apparenza di vita che acquistano gli oggetti materiali tra mezzo a cui l’uomo ha lungamente amato, sognato, goduto e sofferto. La vecchia Jenny e Terenzio avevano preso cura delle minime particolarità; Stephen aveva preparato con alta squisitezza il comfort pel ritorno del signore. Pioveva. Per qualche tempo, egli rimase con la fronte contro i vetri della finestra a guardare la sua Roma, la grande città diletta, che appariva in fondo cinerea e qua e là argentea tra le rapide alternative della pioggia spinta e respinta dal capriccio del vento in un’atmosfera tutta egualmente grigia, ove ad intervalli si diffondeva un chiarore, súbito dopo spegnendosi, come un sorridere fugace. La piazza della Trinità de’ Monti era deserta, contemplata dall’obelisco solitario. Gli alberi del viale lungo il muro che congiunge la chiesa alla Villa Medici, si agitavano già seminudi, nerastri e rossastri al vento e alla pioggia. II Pincio ancora verdeggiava, come un’isola in un lago nebbioso.
Egli, guardando, non aveva un pensiero determinato ma un confuso viluppo di pensieri; e gli occupava l’anima un sentimento soverchiante ogni altro: il pieno e vivace risveglio del suo vecchio amore per Roma, per la dolcissima Roma, per l’immensa augusta unica Roma, per la città delle città, per quella ch’è sempre giovine e sempre novella e sempre misteriosa, come il mare.
Pioveva, pioveva. Su ’l Monte Mario il cielo si oscurava, le nuvole si addensavano, diventavano d’un color ceruleo cupo d’acqua raccolta, si dilatavano verso il Gianicolo, si abbassavano sul Vaticano. La cupola di San Pietro toccava con la sommità quella enorme adunazione e pareva sostenerla, simile a una gigantesca pila di piombo. Tra le innumerevoli righe oblique dell’acqua si avanzava piano un vapore, a similitudine d’un velo tenuissimo che passasse a traverso corde d’acciajo tese e continuamente vibranti. La monotonìa del croscio non era interrotta da alcun altro strepito più vivo.
― Che ora è? ― chiese egli a Stephen, volgendosi.
Erano le nove, circa. Egli si sentiva un po’ stanco. Pensò di mettersi a dormire. Poi, anche, pensò di non veder nessuno, nella giornata, e di passar la sera a casa in raccoglimento. Ricominciava per lui la vita di città, la vita mondana. Egli voleva, prima di riprendere quel vecchio esercizio, darsi a una piccola meditazione e a una piccola preparazione, stabilire una regola, discutere seco medesimo qual dovesse essere la condotta futura.
Ordinò a Stephen:
― Se viene qualcuno a chiedere di me, ditegli che non sono ancora tornato. Avvisate il portiere. Avvisate James che non ho più bisogno di lui oggi ma che venga a prendere gli ordini questa sera. Fatemi preparare la colazione per le tre, leggerissima, e il pranzo per le nove. Niente altro.
S’addormentò quasi súbito. Alle due, il domestico lo svegliò; e gli annunziò che prima di mezzogiorno era venuto il duca di Grimiti, avendo saputo dalla marchesa d’Ateleta il ritorno.
― Ebbene?
― Il signor duca ha lasciato detto che sarebbe tornato prima di sera.
― Piove ancora? Aprite interamente gli scuri.
Non pioveva più. Il cielo s’era rischiarato. Una zona di sole pallido entrò nella stanza, diffondendosi su l’arazzo della Vergine col bambino Gesù e Stefano Sperelli, su l’antico arazzo che Giusto portò di Fiandra nel 1508. E gli occhi di Andrea vagarono per le pareti, lentamente, riguardando le tappezzerie fini, le tinte armoniose, le figure pie ch’erano state testimoni di tanti piaceri e avevano sorriso ai lieti risvegli ed anche avevan reso men tristi le vigilie del ferito. Tutte quelle cose note ed amate parevano dargli un saluto. Egli le riguardava con un diletto singolare. L’imagine di Donna Maria gli sorse nello spirito.
Si sollevò un poco su i guanciali, accese una sigaretta, e si mise a seguire il corso dei pensieri, con una specie di voluttà. Un benessere insolito gli occupava le membra, e lo spirito era in una felice disposizione. Egli mesceva le sue fantasie alle onde del fumo, in quella luce temperata ove i colori e le forme prendevano una vaghezza più blanda.
Spontaneamente, i suoi pensieri non risalivano verso i giorni scorsi ma andavano all’avvenire. ― Egli avrebbe riveduta Donna Maria, fra due, fra tre mesi, chi sa?, forse anche assai prima; ed avrebbe allora riallacciato quell’amore che chiudeva per lui tante oscure promesse e tante segrete attrazioni. Sarebbe stato il vero secondo amore, con la profondità e la dolcezza e la tristezza d’un secondo amore. Donna Maria Ferres pareva essere, per un uomo d’intelletto, l’Amante Ideale, l’Amie avec des hanches, secondo l’espressione di Carlo Baudelaire, la Consolatrix unica, quella che conforta e perdona sapendo perdonare. Certo, segnando nel libro dello Shelley i due versi dolenti, ella aveva dovuto in cuor suo ripetere altre parole; e, leggendo tutto intero il poema, aveva dovuto piangere come la Dama magnetica e pensar lungamente alla pietosa cura, alla miracolosa guarigione. “I can never be thine!„ Perchè mai? Con troppa angoscia di passione, quel giorno, nel bosco di Vicomìle, ella aveva risposto: ― Vi amo, vi amo, vi amo!
Egli ancora udiva la voce di lei, l’indimenticabile voce. Ed Elena Muti gli entrò ne’ pensieri, si avvicinò all’altra, si confuse con l’altra, evocata da quella voce; e a poco a poco gli volse i pensieri ad imagini di voluttà. Il letto dov’egli riposava e tutte le cose intorno, testimoni e complici delle ebrezze antiche, a poco a poco gli andavano suggerendo imagini di voluttà. Curiosamente, nella sua imaginazione egli cominciò a svestire la senese, ad involgerla del suo desiderio, a darle attitudini di abbandono, a vedersela tra le braccia, a goderla. Il possesso materiale di quella donna così casta e così pura gli parve il più alto, il più nuovo, il più raro godimento a cui potesse egli giungere; e quella stanza gli parve il luogo più degno ad accogliere quel godimento, perchè avrebbe reso più acuto il singolar sapore di profanazione e di sacrilegio che il segreto atto, secondo lui, doveva avere.
La stanza era religiosa, come una cappella. V’erano riunite quasi tutte le stoffe ecclesiastiche da lui possedute e quasi tutti gli arazzi di soggetto sacro. Il letto sorgeva sopra un rialto di tre gradini, all’ombra d’un baldacchino di velluto controtagliato, veneziano, del secolo XVI, con fondo di argento dorato e con ornamenti d’un color rosso sbiadito a rilievi d’oro riccio; il quale in antico doveva essere un paramento sacro, poichè il disegno portava inscrizioni latine e i frutti del Sacrifizio: l’uva e le spiche. Un piccolo arazzo fiammingo, finissimo, intessuto d’oro di Cipro, raffigurante un’Annunciazione, copriva la testa del letto. Altri arazzi, con le armi gentilizie di casa Sperelli nell’ornato, coprivano le pareti, limitati alla parte superiore e alla parte inferiore da strisce in guisa di fregi su cui erano ricamate istorie della vita di Maria Vergine e gesta di martiri, d’apostoli, di profeti. Un paliotto, raffigurante la Parabola delle vergini sagge e delle vergini folli, e due pezzi di pluviale componevano la tappezzeria del caminetto. Alcuni preziosi mobili di sacrestia, in legno scolpito, del secolo XV, compivano il pio addobbo, insieme con alcune majoliche di Luca della Robbia e con seggioloni ricoperti nella spalliera e nel piano da pezzi di dalmatiche raffiguranti i fatti della Creazione. Da per tutto poi, con un gusto pieno d’ingegnosità, erano adoperate a uso di ornamento e di comodo altre stoffe liturgiche: borse da calice, borse battesimali, copricálici, pianete, manipoli, stole, stoloni, conopei. Su la tavola del caminetto, come su la tavola di un altare, splendeva un gran trittico di Hans Memling, una Adorazione dei Magi, mettendo nella stanza la radiosità d’un capolavoro.
In certe iscrizioni tessute ricorreva il nome di Maria tra le parole della Salutazione Angelica; e in più parti la gran sigla M era ripetuta; in una, era anzi a ricamo di perle e di granati. ― Entrando in questo luogo ― pensava il delicato addobbatore ― non crederà ella d’entrare nella sua Gloria? ― E si compiacque a lungo nell’imaginar la istoria profana in mezzo alle istorie sacre; e ancora una volta il senso estetico e la raffinatezza della sensualità soverchiarono e falsarono in lui il sentimento schietto ed umano dell’amore.
Stephen battè all’uscio, dicendo:
― Mi permetto di avvertire il signor conte che son già le tre.
Andrea si levò; e passò nella camera ottagonale, per abbigliarsi. Il sole entrava a traverso le tendine di merletto, facendo scintillare all’ingiro le mattonelle arabo ispane, gli innumerevoli oggetti d’argento e di cristallo, i bassi rilievi del sarcofago antico. Quei luccicori varii mettevano nell’aria una mobile gaiezza. Egli si sentiva allegro, perfettamente guarito, pieno di vitalità. Il ritrovarsi nel suo home gli dava una letizia inesprimibile. Tutto ciò ch’era in lui più fatuo, più vano, più mondano, si risvegliava all’improvviso. Pareva che le cose circonstanti avessero virtù di suscitare in lui l’uomo d’un tempo. La curiosità, l’elasticità, l’ubiquità spirituali riapparivano. Egli già incominciava ad aver bisogno di espandersi, di rivedere amici, di rivedere amiche, di godere. S’accorse d’aver molto appetito; ordinò al domestico di servirgli la colazione.
Egli pranzava di rado a casa; ma, per le occasioni straordinarie, per qualche fino luncheon d’amore o per qualche piccola cena galante, aveva una camera ornata delle tappezzerie napolitane d’alto liccio, del secolo XVIII, che Carlo Sperelli ordinò al reale arazziere romano Pietro Duranti nel 1766, su disegni di Girolamo Storace. I sette pezzi delle pareti rappresentavano, con una certa copiosa magnificenza alla Rubens, episodii d’amore bacchici; e le portiere, le sopraporte, le soprafinestre rappresentavano frutta e fiori. Gli ori pallidi e fulvi, predominanti, e le carni perlate e i cinabri e gli azzurri cupi facevano un accordo morbido e nudrito.
― Quando tornerà il duca di Grimiti ― disse egli al domestico ― lo farete entrare.
Anche là il sole, declinante verso Monte Mario, mandava raggi. Si udiva lo strepito delle carrozze su la piazza della Trinità de’ Monti. Pareva che, dopo la pioggia, si fosse diffusa su Roma tutta la luminosa biondezza dell’ottobre romano.
― Aprite le imposte, ― disse al domestico.
E lo strepito divenne più forte; entrò l’aria tepida; le tende ondeggiarono appena.
― Divina Roma! ― egli pensò, guardando il cielo tra le alte tende. E una curiosità irresistibile lo trasse alla finestra.
Roma appariva d’un color d’ardesia molto chiaro, con linee un po’ indecise, come in una pittura dilavata, sotto un cielo di Claudio Lorenese, umido e fresco, sparso di nuvole diafane in gruppi nobilissimi, che davano ai liberi intervalli una finezza indescrivibile, come i fiori danno al verde una grazia nuova. Nelle lontananze, nelle alture estreme l’ardesia andavasi cangiando in ametista. Lunghe e sottili zone di vapori attraversavano i cipressi del Monte Mario, come capigliature fluenti in un pettine di bronzo. Prossimi, i pini del Monte Pincio alzavano li ombrelli dorati. Su la piazza l’obelisco di Pio VI pareva uno stelo d’àgata. Tutte le cose prendevano un’apparenza più ricca, a quella ricca luce autunnale.
― Divina Roma!
Egli non sapeva saziarsi dello spettacolo. Guardò passare una torma di chierici rossi, di sotto alla chiesa; poi, la carrozza d’un prelato, nera, con due cavalli neri dalle code prolisse; poi, altre carrozze, scoperte, che portavano signore e bimbi. Riconobbe la principessa di Ferentino con Barbarella Viti; poi, la contessa di Lucoli che guidava due poneys seguita dal suo cane danese. Un soffio dell’antica vita gli passò su lo spirito e lo turbò e gli diede un’agitazione di desiderii indeterminati.
Si ritrasse e si rimise a tavola. D’innanzi a lui il sole accendeva i cristalli e accendeva su la parete una saltazione di satiri intorno a un Sileno.
Il domestico annunziò:
― Il signor duca con due altri signori.
Ed entrarono il duca di Grimiti, Ludovico Barbarisi e Giulio Muséllaro, mentre Andrea si levava per farsi loro incontro. Tutt’e tre, l’un dopo l’altro, lo abbracciarono.
― Giulio! ― esclamò lo Sperelli, rivedendo l’amico dopo due anni e più. ― Da quanto sei a Roma?
― Da una settimana. Volevo scriverti da Schifanoja, ma poi ho preferito aspettare che tu tornassi. Come stai? Ti trovo un po’ dimagrato, ma bene. Soltanto qui a Roma ho saputo del tuo caso; altrimenti mi sarei partito dall’India per venirti ad assistere. Ai primi di maggio, mi trovavo in Padmavati, nel Bahar. Quante cose t’ho da raccontare!
― E quante, anch’io!
Si strinsero di nuovo le mani, cordialmente. Andrea pareva lietissimo. Questo Muséllaro gli era caro sopra tutti gli altri amici, per la sua nobile intelligenza, per il suo spirito acuto, per la finezza della sua cultura.
― Ruggero, Ludovico, sedete. Giulio, siedi qui.
Egli offerse le sigarette, il tè, i liquori. La conversazione si fece vivissima. Ruggero Grimiti e il Barbarisi davano le notizie di Roma, facevano la piccola cronaca. Il fumo saliva nell’aria tingendosi ai raggi quasi orizzontali del sole; le tappezzerie s’armonizzavano in un color caldo e pastoso; l’aroma del tè si mesceva all’odor del tabacco.
― T’ho portato un sacco di tè ― disse il Muséllaro allo Sperelli ― assai migliore di quello che beveva il tuo famoso Kien-Lung.
― Ah, ti ricordi, a Londra, quando componevamo il tè, secondo la teoria poetica del grande Imperatore?
― Sai, ― disse il Grimiti. ― È a Roma Clara Green, la bionda. La vidi domenica per Villa Borghese. Mi riconobbe, mi salutò, e fece fermare la carrozza. Abita, per ora, all’Albergo d’Europa, in piazza di Spagna. È ancora bella. Ti ricordi che passione ebbe per te e come ti perseguitò, quando tu eri innamorato della Landbrooke? Súbito, mi chiese le tue notizie prima delle mie....
― La rivedrò volentieri. Ma si veste ancora di verde e si mette sul cappello i girasoli?
― No, no. Ha abbandonato l’esteticismo per sempre, a quanto pare. S’è gettata alle piume. Domenica, portava un gran cappello alla Montpensier con una piuma favolosa.
― Quest’anno ― disse il Barbarisi ― abbiamo una straordinaria abbondanza di demi-mondaines. Ce ne sono tre o quattro a bastanza piacevoli. Giulia Arici ha un bellissimo corpo e le estremità discretamente signorili. È tornata anche la Silva, che jer l’altro il nostro amico Muséllaro conquistò con una pelle di pantera. È tornata Maria Fortuna, ma in rotta con Carlo de Souza che pel momento vien sostituito da Ruggero....
― La stagione è già dunque in fiore?
― Quest’anno, è precoce come non mai, per le peccatrici e per le impeccabili.
― Quali delle impeccabili sono già a Roma?
― Quasi tutte: la Moceto, la Viti, le due Daddi, la Micigliano, la Miano, la Massa d’Albe, la Lúcoli....
― La Lúcoli, l’ho veduta dianzi, dalla finestra. Guidava. Ho veduta anche tua cugina con la Viti.
― Mia cugina è qui fino a domani. Domani tornerà a Frascati. Mercoledì darà una festa in villa, una specie di garden-party, alla maniera della principessa di Sagan. Non è prescritto il costume rigoroso, ma tutte le dame porteranno cappelli Louis XV o Directoire. Andremo. ― Tu per ora non ti moverai da Roma; è vero? ― chiese il Grimiti allo Sperelli.
― Rimarrò sino ai primissimi di novembre. Poi andrò in Francia per quindici giorni a rifornirmi di cavalli. E tornerò qui, verso la fin del mese.
― A proposito, Leonetto Lanza vende Campomorto ― disse Ludovico. ― Tu lo conosci: è un magnifico animale, e gran saltatore. Ti converrebbe.
― Per quanto?
― Per quindicimila, credo.
― Vedremo.
― Leonetto è prossimo alle nozze. Si è fidanzato, in questa estate, a Aix-les-Bains, con la Ginosa.
― Mi dimenticavo di dirti ― fece il Muséllaro ― che Galeazzo Secínaro ti saluta. Siamo tornati insieme. Se ti raccontassi le gesta di Galeazzo, durante il viaggio! Ora è a Palermo, ma verrà a Roma in gennaio.
― Ti saluta anche Gino Bommínaco ― aggiunse il Barbarisi.
― Ah, ah! ― esclamò il duca, ridendo. ― Andrea, bisogna che tu ti faccia raccontare da Gino la sua avventura con Donna Giulia Moceto.... Tu sei al caso, io credo, di darci qualche spiegazione in proposito.
Anche Ludovico si mise a ridere.
― So ― disse Giulio Muséllaro ― che qui a Roma hai fatto stragi meravigliose. Gratulor tibi!
― Ditemi, ditemi l’avventura ― sollecitava Andrea, curiosamente. ― Bisogna sentirla da Gino, per ridere. Tu conosci la mimica di Gino. Bisogna vedere la faccia ch’egli fa, quando arriva al punto culminante. È un capolavoro!
― La sentirò anche da lui, ― insisteva Andrea, punto dalla curiosità ― ma accennami qualche cosa; ti prego.
― Ecco, in due parole ― consentì Ruggero Grimiti, posando sul tavolo la tazza, e accingendosi a raccontar la storiella, senza scrupoli e senza reticenze, con quella stupenda facilità con cui i giovini gentiluomini publicano i peccati delle loro e delle altrui dame. ― Nella primavera scorsa (non so se tu l’abbia notato) Gino faceva a Donna Giulia una corte ardentissima, assai visibile. Alle Capannelle, la corte si mutò in flirtation assai vivace. Donna Giulia era sul punto di capitolare; e Gino, al solito, era tutto in fiamme. L’occasione si presentò. Giovanni Moceto partì per Firenze, a portare i suoi cavalli slombati sul turf delle Cascine. Una sera, una sera dei soliti mercoledì, anzi dell’ultimo mercoledì, Gino pensò che il gran momento era giunto; e aspettò che tutti a uno a uno se ne andassero e che il salone rimanesse vuoto e ch’egli finalmente rimanesse solo, con lei....
― Qui ― interruppe il Barbarisi ― ci vorrebbe ora Bommínaco. È inimitabile. Bisogna sentirgli fare, in napoletano, la descrizione dell’ambiente, e l’analisi del suo stato, e poi la riproduzione del momento psicologico e del fisiologico, com’egli dice, alla sua maniera. È d’una comicità irresistibile.
― Dunque ― seguitò Ruggero ― dopo il preludio, che sentirai da lui, nel languore e nell’eccitazione erotica d’una fin de soirée, egli s’inginocchiò d’innanzi a Donna Giulia che stava seduta su una poltrona molto bassa, su una poltrona “imbottita di complicità„. Donna Giulia già naufragava nella dolcezza, difendendosi debolmente; e le mani di Gino divenivano sempre più temerarie, mentre ella già esalava il sospiro della dedizione.... Ahimè, dall’estrema temerità le mani si ritrassero con un moto istintivo come se avessero toccato la pelle d’una serpe, una cosa repugnante....
Andrea ruppe in uno scoppio di risa così schietto che l’ilarità si propagò a tutti gli amici. Egli aveva compreso, perchè sapeva. Ma Giulio Muséllaro disse, con gran premura, al Grimiti:
― Spiegami! Spiegami!
― Spiega tu ― disse il Grimiti allo Sperelli.
― Ecco, ― spiegò Andrea, ancora ridendo ― conosci tu la più bella poesia di Teofilo Gautier, il Musée secret?
― O douce barbe féminine! ― recitò il Muséllaro, ricordandosi. ― E bene?
― E bene, Giulia Moceto è una finissima bionda; ma se tu avessi la fortuna, che ti auguro, di tirare le drap de la blonde qui dort, certo non troveresti, come Filippo di Borgogna, il toson d’oro. Ella è, dicono, sans plume et sans duvet come i marmi di Paro che canta il Gautier.
― Ah, una rarissima rarità che io apprezzo molto ― disse il Muséllaro.
― Una rarità che noi sappiamo apprezzare ― ripetè Andrea. Ma Gino Bommínaco è un ingenuo, un semplice. ― Ascolta, ascolta il resto ― fece il Barbarisi.
― Ah se ci fosse qui l’eroe! ― esclamò il duca di Grimiti. ― La storiella in un’altra bocca perde tutto il sapore. Figúrati dunque che la sorpresa fu tanta e tanta la confusione, da spegnere ogni fuoco. Gino dovette ritirarsi prudentemente, per l’impossibilità assoluta d’andar più oltre. Te l’imagini? T’imagini tu la terribile mortificazione d’un uomo che, essendo giunto ad ottener tutto, non può prender nulla? Donna Giulia era verde; Gino fingeva di tender l’orecchio ai rumori, per temporeggiare, sperando.... Ah, il racconto della ritirata è una meraviglia. Altro che Anabasi! Sentirai.
― E Donna Giulia è poi divenuta l’amante di Gino? ― domandò Andrea.
― Mai! Il povero Gino non mangerà mai di quel frutto; e credo che ne morrà di rammarico, di desiderio, di curiosità. Si sfoga a riderne, con gli amici; ma tu osservalo bene, quando racconta. Sotto la buffoneria c’è la passione.
― Bel soggetto per una novella ― disse Andrea al Muséllaro. Non ti pare? Una novella intitolata L’Ossesso.... Si potrebbe fare una cosa assai fine e intensa. L’uomo, continuamente occupato, incalzato, angustiato dalla visione fantastica di quella rara forma ch’egli ha toccata e quindi imaginata ma non goduta nè con gli occhi vista, si consuma di passione a poco a poco e diventa folle. Egli non può togliersi dalle dita l’impressione di quel contatto; ma il primo ribrezzo istintivo gli si muta in un ardore inestinguibile.... Si potrebbe insomma, sul fondo reale, lavorar d’arte: ottener qualche cosa come un racconto di un Hoffmann erotico, scritto con la precisione plastica d’un Flaubert.
― Próvati.
― Chi sa! Del resto, io compiango il povero Gino. La Moceto ha, dicono, il più bel ventre della Cristianità....
― Mi piace quel “dicono„ ― interruppe Ruggero Grimiti.
― ... il ventre d’una Pandora infeconda, una coppa d’avorio, uno scudo raggiante, speculum voluptatis; e il più perfetto ombelico che si conosca, un piccolo ombelico circonflesso, come nelle terre cotte di Clodion, un puro suggello di grazia, un occhio cieco ma più splendido di un astro, voluptatis ocellus, da celebrarsi in un epigramma degno dell’Antologia greca.
Andrea si eccitava, in quei discorsi. Secondato dagli amici, entrò in un dialogo delle bellezze delle donne assai men castigato di quello del Firenzuola. Si risvegliavano in lui, dopo la lunga astinenza, le sensualità antiche; ed egli parlava con un calore intimo e profondo, da gran conoscitor del nudo, compiacendosi delle parole più colorite, sottilizzando come un artista e come un libertino. E, in verità, il dialogo di quei quattro giovini signori tra quelle dilettose tappezzerie bacchiche, se fosse stato raccolto, avrebbe potuto ben essere il Breviarium arcanum della corruzione elegante in questa fine del XIX secolo.
Il giorno moriva; ma l’aria era ancora pregna di luce, ritenendo la luce come una spugna ritiene l’acqua. Si vedeva, per la finestra, all’orizzonte una striscia aranciata su cui i cipressi del Monte Mario si disegnavan netti come i denti d’un gran rastrello d’ebano. Si udivano di tratto in tratto i gridi delle cornacchie trasvolanti in gruppi a riunirsi su i tetti della Villa Medici per discender poi nella Villa Borghese, nella piccola valle del sonno.
― Che fai tu stasera? ― chiese ad Andrea il Barbarisi.
― Veramente, non so.
― Vieni allora con noi. Per le otto abbiamo un pranzo dai Doney, al Teatro Nazionale. Inauguriamo il nuovo Restaurant, anzi i cabinets particuliers del nuovo Restaurant, dove almeno non dovremo rassegnarci, dopo le ostriche, allo scoprimento afrodisiaco della Giuditta e della Bagnante, come al Caffè di Roma. Pepe academico su ostriche finte....
― Vieni con noi, vieni con noi ― sollecitò Giulio Muséllaro.
― Siamo noi tre ― aggiunse il duca ― con Giulia Arici, con la Silva e con Maria Fortuna. Ah, una bellissima idea! Vieni con Clara Green.
― Bellissima idea! ― ripetè Ludovico.
― E dove trovo io Clara Green?
― All’Albergo d’Europa, qui accanto, in piazza di Spagna. Un tuo biglietto la renderà felice. Sii certo che lascerà qualunque impegno. Ad Andrea piacque la proposta.
― Sarà meglio ― disse ― ch’io vada a farle una visita. È probabile ch’ella sia rientrata. Non ti pare, Ruggero?
― Véstiti, e usciamo súbito.
Uscirono. Clara Green era rientrara da poco all’albergo. Accolse Andrea con una gioja infantile. Ella, certo, avrebbe preferito di pranzar sola con lui; ma accettò l’invito senza esitare; scrisse un biglietto per liberarsi da un impegno anteriore; mandò a un’amica la chiave d’un palco. Ella pareva felice. Si mise a raccontargli una quantità di sue storie sentimentali; gli fece una quantità di domande sentimentali; gli giurò ch’ella non aveva mai potuto dimenticarlo. Parlava, tenendo le mani di lui nelle sue.
― I love you more than any words can say, Andrew....
Ella era ancor giovine. Con quel suo profilo puro e diritto, coronato dai capelli biondi, divisi su la fronte in un’acconciatura bassa, pareva una bellezza greca in un Keepsake. Aveva una certa incipriatura estetica, lasciatale dall’amor del poeta pittore Adolphus Jeckyll; il quale seguiva in poesia John Keats e in pittura l’Holman Hunt, componendo oscuri sonetti e dipingendo soggetti presi alla Vita nuova. Ella aveva “posato„ per una Sibylla palmifera e per una Madonna del Giglio. Aveva anche “posato„, una volta, innanzi ad Andrea, per uno studio di testa da servire all’acquaforte dell’Isabetta nella novella del Boccaccio. Era dunque nobilitata dall’arte. Ma, in fondo, non possedeva alcuna qualità spirituale; anzi, a lungo andare, la rendeva un po’ stucchevole quel certo sentimentalismo esaltato che non di rado s’incontra nelle donne di piacere inglesi e che fa uno strano contrasto con le depravazioni della loro lascivia.
― Who would have thought we should stand again together, Andrew! Dopo un’ora, Andrea la lasciò e risalì al palazzo Zuccari, per la scaletta che dalla piazza Mignanelli porta alla Trinità. Giungeva alla scaletta solitaria il rumore della città nella sera mite di ottobre. Le stelle riscintillavano in un cielo umido e terso. Di sotto alla casa dei Casteldelfino, a traverso un piccolo cancello, le piante in un chiarore misterioso agitavano ombre vaghe, senza un fruscìo, come piante marine fluttuanti in fondo a un aquario. Dalla casa, da una finestra con le tendine rosse illuminate, veniva il suono d’un pianoforte. Le campane della chiesa rintoccarono. Egli si sentì d’improvviso pesare il cuore. Un ricordo di Donna Maria lo riempì, d’improvviso; e gli suscitò in confuso un senso di rammarico e quasi di pentimento. ― Che faceva ella in quell’ora? Pensava? Soffriva? ― Con l’imagine della senese gli si affacciò alla memoria la vecchia città toscana: il Duomo bianco e nero, la Loggia, la Fonte. Una grave tristezza l’occupò. Gli parve che qualche cosa dal fondo del suo cuore si fosse involato; ed egli non sapeva bene qual fosse, ma n’era afflitto come d’una perdita irrimediabile.
Ripensò al proposito suo della mattina. ― Una sera in solitudine, nella casa dove ella forse un giorno sarebbe venuta; una sera malinconica ma dolce, in compagnia dei ricordi e dei sogni, in compagnia dello spirito di lei; una sera di meditazione e di raccoglimento! ― In verità, il proposito non poteva meglio esser tenuto. Egli stava per recarsi a un pranzo di amici e di donne; e, senza dubbio, avrebbe passata la notte con Clara Green. Il pentimento gli fu così insoffribile, gli diede tale tortura, ch’egli si abbigliò con insolita prontezza, saltò nel coupé e si fece condurre all’albergo, prima dell’ora. Trovò Clara già pronta. Le offerse un giro in coupé per le vie di Roma, durante il tempo che mancava alle otto.
Passarono per la via del Babuino, intorno l’obelisco nella piazza del Popolo, quindi su pel Corso e a destra per la via della Fontanella di Borghese; ritornarono per Montecitorio al Corso fino alla piazza di Venezia e quindi su al Teatro Nazionale. Clara cinguettava di continuo, e di tratto in tratto si chinava verso il giovine per mettergli un mezzo bacio su l’angolo della bocca, coprendo l’atto furtivo con un ventaglio di piume bianche d’onde esciva un profumo di white-rose assai fine. Ma Andrea pareva non ascoltasse e all’atto di lei sorrideva a pena.
― Che pensi? ― gli chiese ella, pronunciando le parole italiane con un poco d’incertezza ch’era una grazia.
― Nulla, ― rispose Andrea, prendendole una mano non ancora inguantata e guardando gli anelli.
― Chi lo sa! ― sospirò ella, dando un’espressione singolare a que’ tre monosillabi che le donne straniere imparano súbito; ne’ quali esse credono sia racchiusa tutta la malinconia dell’amore italiano. ― Chi lo sa!
Poi soggiunse, con un accento quasi supplichevole:
― Love me this evening, Andrew!
Andrea le baciò un orecchio, le passò un braccio intorno al busto, le disse una quantità di cose sciocche, cambiò umore. Il Corso era popoloso, le vetrine splendevano, i venditori di giornali strillavano, vetture publiche e signorili s’incrociavano col coupé, dalla piazza Colonna alla piazza di Venezia si spandeva tutta l’animazione serale della vita di Roma.
Quando entrarono dai Doney, le otto erano passate di dieci minuti. Gli altri sei commensali erano già presenti. Andrea Sperelli salutò la compagnia e, portando per mano Clara Green, disse:
― Ecce Miss Clara Green, ancilla Domini, Sibylla palmifera, candida puella.
― Ora pro nobis ― risposero in coro il Muséllaro, il Barbarisi e il Grimiti. Le donne risero, ma senza capire. Clara sorrise; e, fuor del mantello, appariva in abito bianco, semplice, corto, con una scollatura a punta sul petto e su le spalle, con un nastro verdemare su l’omero sinistro, con due smeraldi alli orecchi, disinvolta sotto il triplice esame di Giulia Arici, di Bébé Silva e di Maria Fortuna.
Il Muséllaro e il Grimiti la conoscevano. Il Barbarisi le fu presentato. Andrea diceva:
― Mercedes Silva, nominata Bébé, chica pero guapa.
― Maria Fortuna, la bella Talismano, che è una vera Fortuna publica... per questa Roma che ha la fortuna di possederla.
Quindi, volgendosi al Barbarisi:
― Fateci voi l’onore di presentarci a quella dama, che, se non m’inganno, è la divina Giulia Farnese.
― No: Arici ― interruppe Giulia.
― Chiedo perdóno, ma per crederlo ho bisogno di raccogliere tutta la mia buona fede e di consultare il Pinturicchio nella Sala Quinta.
Egli diceva queste sciocchezze senza ridere, dilettandosi ad empir di stupefazione o d’irritazione la dolce ignoranza di quelle oche belle. Aveva, quando si trovava nel demi-monde, una sua maniera e un suo stile particolari. Per non annoiarsi, si metteva a compor frasi grottesche, a gittar paradossi enormi, atroci impertinenze dissimulate con l’ambiguità delle parole, sottigliezze incomprensibili, madrigali enigmatici, in una lingua originale, mista come un gergo, di mille sapori come un’olla podrida rabelesiana, carica di spezie forti e di polpe succulente. Nessuno meglio di lui sapeva raccontare una novelletta grassa, un aneddoto scandaloso, una gesta da Casanova. Nessuno, nella descrizione d’una cosa di voluttà, sapeva meglio di lui trovare la parola lubrica ma precisa e possente, la vera parola di carne e d’ossa, la frase piena di midolla sostanziale, la frase che vive e respira e palpita come la cosa di cui ritrae la forma, comunicando all’uditor degno un piacere duplice, un godimento non pur dell’intelletto ma dei sensi, una gioia simile in parte a quella che producono certe pitture dei grandi maestri coloristi, impastate di porpora e di latte, bagnate come nella transparenza d’un’ambra liquida, impregnate d’un oro caldo e inestinguibilmente luminoso come un sangue immortale.
― Chi è il Pinturicchio? ― domandò Giulia Arici al Barbarisi.
― Il Pinturicchio? ― esclamò Andrea. ― Un superficiale riquadratore di stanze, che qualche tempo fa ebbe la fantasia di dipingervi sopra una porta, nell’appartamento del papa. Non ci pensate più. È morto.
― Ma come?...
― Oh, in una maniera spaventevole! La moglie era l’amante d’un soldato di Perugia, che stava di guarnigione a Siena... Domandatene a Ludovico. Egli sa tutto; ma non ve n’ha mai parlato, per tema d’affliggervi. Bébé, ti avverto che il principe di Galles a tavola comincia a fumare tra il secondo e il terzo piatto; non prima. Tu anticipi alquanto.
La Silva aveva accesa una sigaretta; e inghiottiva le ostriche mentre il fumo le usciva dalle narici. Ella somigliava un collegiale senza sesso, un piccolo ermafrodito vizioso: pallida, magra, con gli occhi avvivati dalla febbre e dal carbone, con la bocca troppo rossa, con i capelli corti, lanosi, un po’ ricci, che le coprivano la testa a guisa d’un caschetto d’astrakan. Teneva incastrata nell’occhiaia sinistra una lente rotonda; portava un alto solino inamidato, la cravatta bianca, il panciotto aperto, una giacca nera di taglio maschile, una gardenia all’occhiello, affettando le maniere d’un dandy, parlando con una voce rauca. E attirava, tentava, per quella impronta di vizio, di depravazione, di mostruosità, ch’era nel suo aspetto, nelle sue attitudini, nelle sue parole. Sal y pimienta.
Maria Fortuna invece aveva il tipo un po’ bovino, era una Madame de Parabère, tendente alla pinguedine. Come la bella amante del Reggente possedeva una carne bianca, d’una bianchezza opaca e profonda, una di quelle carni instancabili e insaziabili su cui Ercole avrebbe potuto compiere la sua impresa d’amore, la sua tredicesima fatica, senza sentirsi chieder tregua. E gli occhi le nuotavano, molli viole, in un’ombra alla Cremona e la bocca sempre socchiusa mostrava in un’ombra rosata un luccicor vago di madreperla, come una conchiglia socchiusa.
Giulia Arici piaceva molto allo Sperelli, per quel suo color dorato, sul quale s’aprivano due lunghi occhi di velluto, d’un morbido velluto castagno che talvolta prendeva riflessi quasi fulvi. Il naso un po’ carnoso e le labbra tumide, fresche, sanguigne, dure, le formavano nel basso del viso un’espressione d’aperta lascivia, resa ancor più vivace dall’irrequietudine della lingua. I canini, essendo troppo forti, le sollevavano gli angoli della bocca; e, come gli angoli così sollevati si facevano aridi o le davano forse un lieve fastidio, ella ad ogni tratto con la punta della lingua li inumidiva. E si vedeva ad ogni tratto scorrere per la chiostra dei denti quella punta, come la foglia bagnata d’una rosa grassa per una fila di piccole mandorle nude.
― Julia, ― disse Andrea Sperelli, guardandole la bocca ― san Bernardino ha per voi in un suo sermone un epiteto meraviglioso. E anche questo non sapete, voi!
L’Arici si mise a ridere, d’un riso ebete ma bellissimo, che le scopriva un poco le gencive; e nell’agitazione ilare usciva da lei un profumo più acuto come quando viene scosso un cespuglio.
― Che mi date ― soggiunse Andrea ― che mi date in compenso se, estraendo dal sermone del santo quella parola voluttuosa, come da un tesoro teologale una pietra afrodisiaca, io ve la offro?
― Non so ― rispose l’Arici, sempre ridendo e tenendo tra le dita a bastanza fini e lunghette un bicchiere con vin di Chablis. ― Quel che volete.
― Il sostantivo dell’adjettivo.
― Che dite?
― Ne discorreremo. La parola è: linguatica. Messer Ludovico, aggiugnete alle vostre litanie questa appellazione: “Rosa linguatica, glube nos.„
― Peccato ― disse il Muséllaro ― che tu non sia alla mensa di un duca del secolo XVI, tra una Violante e una Imperia, con Giulio Romano, con Pietro Aretino e con Marc’Antonio!
La conversazione andavasi accendendo nei vini, nei vecchi vini di Francia, fluidi e ardenti, che dànno ali e fiamme al verbo. Le majoliche non eran durantine, istoriate dal cavalier Cipriano dei Piccolpasso, nè le argenterie eran quelle milanesi di Ludovico il Moro; ma nè pure erano troppo volgari. Nel mezzo della tavola un vaso di cristallo azzurro conteneva un gran mazzo di crisantemi gialli, bianchi, violacei, su cui si posavano gli occhi malinconici di Clara Green.
― Clara, ― chiese Ruggero Grimiti, ― siete triste? A che pensate?
― A ma chimére! ― rispose l’antica amante di Adolphus Jeckyll, sorridendo; e chiuse il sospiro nel cerchio d’un bicchiere colmo di Sciampagna. Quel vino chiaro e brillante, che ha su le donne una virtù così pronta e così strana, già incominciava ad eccitare variamente i cervelli e le matrici di quelle quattro etáire ineguali, a risvegliare e a stimolare in loro il piccolo demone isterico e a farlo correre per tutti i loro nervi propagando la follìa. Bébé Silva gittava motti orribili, ridendo d’un riso soffocato e convulso e quasi singhiozzante come quel d’una donna che sia per morir di solletico. Maria Fortuna schiacciava i fondants col gomito nudo e li offeriva per niente, premendo poi su la bocca di Ruggero il gomito dolcificato. Giulia Arici, oppressa dai madrigali dello Sperelli, si turava gli orecchi con le belle mani, abbandonandosi alla spalliera; e la sua bocca, in quell’atto, attirava i morsi come un frutto sugoso.
― Hai mangiato mai ― diceva il Barbarisi allo Sperelli ― certe confetture di Costantinopoli, morbide come una pasta, fatte di bergamotto, di fiori d’arancio e di rose, che profumano l’alito per tutta la vita? La bocca di Giulia è una confettura orientale.
― Ti prego, Ludovico, ― diceva lo Sperelli ― lasciamela provare. Conquistami Clara Green e cedimi Giulia per una settimana. Clara anche ha un sapore originale: un giulebbe di violette di Parma tra due biscotti Peek-Frean alla vainiglia....
― Attenti, signori! ― gridò Bébé Silva, prendendo un fondant.
Ella aveva vista la piacevolezza di Maria Fortuna e aveva fatta la scommessa ginnica di mangiarsi un fondant sul suo proprio gomito tirandoselo fin presso alle labbra. Per eseguire il giuoco, si scoprì il braccio: un braccio magro e pallido, sparso di lanugine scura; appiccicò il fondant all’osso acuto; e, stringendosi con la mano sinistra l’antibraccio destro e facendo forza, riuscì a vincere la scommessa, con l’abilita d’un clown, tra gli applausi.
― E questo è niente ― disse ella ricoprendosi la nudità spettrale. ― Chica pero guapa; è vero, Muséllaro?
Ed accese la decima sigaretta.
L’odor del tabacco era così delizioso che tutti vollero fumarne. L’astuccio della Silva passò, di mano in mano. Maria Fortuna lesse ad alta voce su l’argento smaltato dell’astuccio:
― “Quia nominor Bébé.„
Allora tutte desiderarono d’avere un motto, un’impresa da mettere su i fazzoletti, su la carta da lettere, su le camicie. La cosa parve loro molto aristocratica, sommamente elegante.
― Chi mi trova un motto? ― esclamò l’antica amante di Carlo de Souza. ― Lo voglio latino.
― Io ― disse Andrea Sperelli. ― Eccolo: “Semper parata.„
― No.
― “Diu saepe fortiter.„
― Che vuol dire?
― E che t’importa di saperlo? Basta che sia latino. Eccone un altro, magnifico: “Non timeo dona ferentes.„
― Mi piace poco. Non m’è nuovo....
― E allora, questo: “Rarae nates cum gurgite vasto.„ ― È troppo comune. Lo leggo tante volte nelle cronache dei giornali...
Ludovico, Giulio, Ruggero ridevano in coro, sonoramente. Il fumo delle sigarette si spandeva su le teste formando leggeri nimbi azzurrognoli. A intervalli veniva dall’orchestra del Teatro un’onda di suoni, nell’aria calda; e faceva cantarellare Bébé. Clara Green sfogliava nel suo piatto i crisantemi, in silenzio, poichè il vin bianco e leggiere le si era convertito nelle vene in un languor triste. Per quelli che già la conoscevano, un tal sentimentalismo bacchico non era nuovo; e il duca di Grimiti si divertiva a provocarne l’effusione. Ella non rispondeva, seguitando a sfogliare nel piatto i crisantemi e stringendo le labbra, quasi per trattenere il pianto. Come Andrea Sperelli si curava poco di lei e si dava ad una pazza allegria di atti e di parole, meravigliando perfino i suoi compagni di piacere, ella disse con una voce supplichevole, tra il coro delle altre voci:
― Love me to-night, Andrew!
E da allora in poi, quasi ad intervalli misurati, levando di sul piatto lo sguardo ceruleo, si mise a supplicare languidamente:
― Love me to-night, Andrew!
― Oh che lagno! ― fece Maria Fortuna. ― Ma che significa? Si sente male?
Bébé Silva fumava, beveva bicchierini di vieux cognac e diceva cose enormi, con una vivacità artifiziale. Ma aveva, a quando a quando, momenti di stanchezza, di prostrazione, stranissimi, ne’ quali pareva che qualche cosa le cadesse dal volto e che nella sua figura sfrontata e oscena entrasse non so qual piccola figura triste, miserevole, malata, pensierosa, più vecchia, della vecchiezza d’una bertuccia tisica che si ritragga in fondo alla sua gabbia a tossire dopo aver fatto ridere la gente. Erano momenti fuggevoli. Ella si riscoteva per bere un altro sorso o per dire un’altra enormità.
E Clara Green a ripetere:
― Love me to-night, Andrew!