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cheon d’amore o per qualche piccola cena galante, aveva una camera ornata delle tappezzerie napolitane d’alto liccio, del secolo XVIII, che Carlo Sperelli ordinò al reale arazziere romano Pietro Duranti nel 1766, su disegni di Girolamo Storace. I sette pezzi delle pareti rappresentavano, con una certa copiosa magnificenza alla Rubens, episodii d’amore bacchici; e le portiere, le sopraporte, le soprafinestre rappresentavano frutta e fiori. Gli ori pallidi e fulvi, predominanti, e le carni perlate e i cinabri e gli azzurri cupi facevano un accordo morbido e nudrito.
― Quando tornerà il duca di Grimiti ― disse egli al domestico ― lo farete entrare.
Anche là il sole, declinante verso Monte Mario, mandava raggi. Si udiva lo strepito delle carrozze su la piazza della Trinità de’ Monti. Pareva che, dopo la pioggia, si fosse diffusa su Roma tutta la luminosa biondezza dell’ottobre romano.
― Aprite le imposte, ― disse al domestico.
E lo strepito divenne più forte; entrò l’aria tepida; le tende ondeggiarono appena.
― Divina Roma! ― egli pensò, guardando il cielo tra le alte tende. E una curiosità irresistibile lo trasse alla finestra.
Roma appariva d’un color d’ardesia molto chiaro, con linee un po’ indecise, come in una pittura dilavata, sotto un cielo di Claudio Lorenese, umido e fresco, sparso di nuvole diafane in gruppi nobilissimi, che davano ai liberi intervalli una finezza indescrivibile, come i fiori danno al verde una grazia nuova. Nelle lontananze, nelle alture estreme l’ardesia andavasi cangiando in