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tirandoselo fin presso alle labbra. Per eseguire il giuoco, si scoprì il braccio: un braccio magro e pallido, sparso di lanugine scura; appiccicò il fondant all’osso acuto; e, stringendosi con la mano sinistra l’antibraccio destro e facendo forza, riuscì a vincere la scommessa, con l’abilita d’un clown, tra gli applausi.
― E questo è niente ― disse ella ricoprendosi la nudità spettrale. ― Chica pero guapa; è vero, Muséllaro?
Ed accese la decima sigaretta.
L’odor del tabacco era così delizioso che tutti vollero fumarne. L’astuccio della Silva passò, di mano in mano. Maria Fortuna lesse ad alta voce su l’argento smaltato dell’astuccio:
― “Quia nominor Bébé.„
Allora tutte desiderarono d’avere un motto, un’impresa da mettere su i fazzoletti, su la carta da lettere, su le camicie. La cosa parve loro molto aristocratica, sommamente elegante.
― Chi mi trova un motto? ― esclamò l’antica amante di Carlo de Souza. ― Lo voglio latino.
― Io ― disse Andrea Sperelli. ― Eccolo: “Semper parata.„
― No.
― “Diu saepe fortiter.„
― Che vuol dire?
― E che t’importa di saperlo? Basta che sia latino. Eccone un altro, magnifico: “Non timeo dona ferentes.„
― Mi piace poco. Non m’è nuovo....
― E allora, questo: “Rarae nates cum gurgite vasto.„