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Pioveva. Per qualche tempo, egli rimase con la fronte contro i vetri della finestra a guardare la sua Roma, la grande città diletta, che appariva in fondo cinerea e qua e là argentea tra le rapide alternative della pioggia spinta e respinta dal capriccio del vento in un’atmosfera tutta egualmente grigia, ove ad intervalli si diffondeva un chiarore, súbito dopo spegnendosi, come un sorridere fugace. La piazza della Trinità de’ Monti era deserta, contemplata dall’obelisco solitario. Gli alberi del viale lungo il muro che congiunge la chiesa alla Villa Medici, si agitavano già seminudi, nerastri e rossastri al vento e alla pioggia. II Pincio ancora verdeggiava, come un’isola in un lago nebbioso.

Egli, guardando, non aveva un pensiero determinato ma un confuso viluppo di pensieri; e gli occupava l’anima un sentimento soverchiante ogni altro: il pieno e vivace risveglio del suo vecchio amore per Roma, per la dolcissima Roma, per l’immensa augusta unica Roma, per la città delle città, per quella ch’è sempre giovine e sempre novella e sempre misteriosa, come il mare.

Pioveva, pioveva. Su ’l Monte Mario il cielo si oscurava, le nuvole si addensavano, diventavano d’un color ceruleo cupo d’acqua raccolta, si dilatavano verso il Gianicolo, si abbassavano sul Vaticano. La cupola di San Pietro toccava con la sommità quella enorme adunazione e pareva sostenerla, simile a una gigantesca pila di piombo. Tra le innumerevoli righe oblique dell’acqua si avanzava piano un vapore, a similitudine d’un velo tenuissimo che