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stancabili e insaziabili su cui Ercole avrebbe potuto compiere la sua impresa d’amore, la sua tredicesima fatica, senza sentirsi chieder tregua. E gli occhi le nuotavano, molli viole, in un’ombra alla Cremona e la bocca sempre socchiusa mostrava in un’ombra rosata un luccicor vago di madreperla, come una conchiglia socchiusa.

Giulia Arici piaceva molto allo Sperelli, per quel suo color dorato, sul quale s’aprivano due lunghi occhi di velluto, d’un morbido velluto castagno che talvolta prendeva riflessi quasi fulvi. Il naso un po’ carnoso e le labbra tumide, fresche, sanguigne, dure, le formavano nel basso del viso un’espressione d’aperta lascivia, resa ancor più vivace dall’irrequietudine della lingua. I canini, essendo troppo forti, le sollevavano gli angoli della bocca; e, come gli angoli così sollevati si facevano aridi o le davano forse un lieve fastidio, ella ad ogni tratto con la punta della lingua li inumidiva. E si vedeva ad ogni tratto scorrere per la chiostra dei denti quella punta, come la foglia bagnata d’una rosa grassa per una fila di piccole mandorle nude.

― Julia, ― disse Andrea Sperelli, guardandole la bocca ― san Bernardino ha per voi in un suo sermone un epiteto meraviglioso. E anche questo non sapete, voi!

L’Arici si mise a ridere, d’un riso ebete ma bellissimo, che le scopriva un poco le gencive; e nell’agitazione ilare usciva da lei un profumo più acuto come quando viene scosso un cespuglio.

― Che mi date ― soggiunse Andrea ― che mi date in compenso se, estraendo dal sermone