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passasse a traverso corde d’acciajo tese e continuamente vibranti. La monotonìa del croscio non era interrotta da alcun altro strepito più vivo.
― Che ora è? ― chiese egli a Stephen, volgendosi.
Erano le nove, circa. Egli si sentiva un po’ stanco. Pensò di mettersi a dormire. Poi, anche, pensò di non veder nessuno, nella giornata, e di passar la sera a casa in raccoglimento. Ricominciava per lui la vita di città, la vita mondana. Egli voleva, prima di riprendere quel vecchio esercizio, darsi a una piccola meditazione e a una piccola preparazione, stabilire una regola, discutere seco medesimo qual dovesse essere la condotta futura.
Ordinò a Stephen:
― Se viene qualcuno a chiedere di me, ditegli che non sono ancora tornato. Avvisate il portiere. Avvisate James che non ho più bisogno di lui oggi ma che venga a prendere gli ordini questa sera. Fatemi preparare la colazione per le tre, leggerissima, e il pranzo per le nove. Niente altro.
S’addormentò quasi súbito. Alle due, il domestico lo svegliò; e gli annunziò che prima di mezzogiorno era venuto il duca di Grimiti, avendo saputo dalla marchesa d’Ateleta il ritorno.
― Ebbene?
― Il signor duca ha lasciato detto che sarebbe tornato prima di sera.
― Piove ancora? Aprite interamente gli scuri.
Non pioveva più. Il cielo s’era rischiarato.