Il naso
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IL NASO
Il 23 di marzo avvenne a Pietroburgo un fatto singolarmente curioso.
Sulla Prospettiva Volnesunski abita il barbiere Ivan Iakovlevic, il cui cognome è scomparso dall’insegna, ove non si distingue ormai più niente, meno la pittura d’un signore dalla guancia insaponata e la scritta: «si fanno anche i salassi». Il barbiere Ivan Iakovlevic si destò dunque di molto buon mattino e sentì un grato odor di pan caldo. Sollevatosi alquanto sul letto, vide che la moglie, signora di aspetto rispettabile, buongustaia di caffè, traeva dalla stufa alcuni panini cotti.
— Oggi, Praskovia Ossipovna, non prenderò caffè, — disse Ivan Iakovlevic: — preferisco invece pane e cipolla.
A dire il vero, Ivan Iakovlevic avrebbe voluto godersi l’uno e l’altro; ma sapeva che la cosa era addirittura impossibile, poichè Praskovia Ossipovna non ammetteva codesti capricci.
— Mangia del pane, scioccone! - pensò la donna fra sè: — mi resterà così per me un po’ più di caffè... — e gettò un pane sulla tavola.
Ivan Iakovlevic, per decenza, indossò una giubba sulla camicia, e postosi inanzi alla tavola, prese del sale, preparò due capi di cipolla, diè di mano a un coltello, e, con viso arguto, si mise a tagliare il pane. Lo divise a metà, vi guardò nel mezzo, e, con vivo stupore, vi scorse qualcosa di biancastro. Ivan Iakovlevic grattò accuratamente col coltello e tastò col dito: «sta saldo», disse fra sè: «cosa sarà?». Ficcò le dita e ne trasse... un naso!
Ivan Iakovlevic si lasciò cadere le braccia; poi, prese a stropicciarsi gli occhi, e ritastò col dito; era proprio un naso, un vero naso, anzi, a quel che gli pareva, un naso di forma conosciuta.
Sul volto di Ivan appariva un vero spavento; ma quello spavento era un niente a confronto dell’indignazione che invase la sua consorte.
— Dove hai tagliato codesto naso, animale? - si dette a strillare incollerita. — Birbone! Briaco! Ti denunzierò io stessa alla polizia! Ve’ che bandito! E son già tre i signori a lagnarsi che quando tu li radi, afferri e tiri loro il naso in maniera da quasi strapparlo.
Ma Ivan Iakovlevic non era più oramai nè morto nè vivo, poichè si era accorto che quel naso non era che il naso dell’assessore di collegio Kovalev, ch’egli radeva il mercoledì e la domenica.
— Taci, Praskovia Ossipovna, — disse alla fine: — ora l’avvolgerò in un panno, e lo porrò in un canto, ove resterà alcuni giorni; poi, poi, lo porterò via.
— No, io non consento! Io non permetto di lasciare in casa un naso tagliato; ciambellone bruciato! Lui se ne sta ore e ore ad affilar rasoi e poi non giunge mai a far presto e bene! Vagabondo! Fannullone! Or credi che per te io voglia invescarmi nelle panie della polizia? Ah, tu sei un bighellone, un baggeo melenso. Miratelo! Vedetelo! Portalo dove vuoi; io non voglio sentirne fiatare mai più.
Ivan Iakovlevic restava lì, proprio intontito; pensava, pensava... e non sapeva a che pensare.
— Solo il diavolo sa come è avvenuto! — disse alla fine, grattandosi dietro l’orecchio. — Ieri, sono tornato briaco o no? Non so dir di sicuro. Ma, a quel che sembra, la faccenda è veramente curiosa; poichè il pane è qualcosa che si cuoce; ma un naso... manco a pensarci! Non ci capisco niente, davvero niente!
Ivan Iakovlevic tacque. L’idea che le guardie di polizia potevano scoprirgli quel naso in casa e renderlo responsabile, lo gettò in una profonda prostrazione. Gli pareva vedere già il colletto rosso, elegantemente trapunto di argento, la spada... e tremò per tutta la persona. Messe mano alle brache e agli stivali, indossò quel po’ di cenciume, e fra i gravi ammonimenti di Praskovia Ossipovna, attorse il naso in un pannolino e usci sulla via.
Egli disegnava di deporre quel naso in un punto qualunque, vicino a un paracarri, sotto un portico, o di lasciarselo cadere in qualche parte, a un tratto, e sgattaiolare poi per un’altra via. Ma disgraziatamente, ecco incontrare una conoscenza che si mette a dimandargli: Dove vai? Chi vai a radere così di buon’ora?». In questa guisa Ivan Iakovlevic non potette profittar lì per lì di un solo minuto. Due volte, poi, riesci a far cadere il naso; ma una guardia gli fe’ cenno di lontano con Palabarda e gli gridò: Raccogli; ti è caduta qualcosa».
E Ivan Iakovlevic fu costretto a raccogliere il naso e ricacciarselo in tasca. Fu colto da disperazione, tanto più che la folla andava sempre più crescendo nella via, a mano a mano che si aprivano i magazzini e le botteghe.
Decise di raggiungere il ponte Isaakev: forse, là, avrebbe avuto agio di gettare il naso nell’acqua della Nevà.
Ma io ho commesso il fallo di non avervi ancor detto nulla su quel ch’era Ivan Iakovlevic, uomo eminente sotto diversissimi aspetti.
Ivan Iakovlevic, come ogni artiere russo che si rispetti, era un ubriacone inveterato, e sebbene radesse tutti i giorni le barbe altrui, non radeva quasi mai la sua. La sua marsina (giacchè Ivan Iakovlevic non andava mai in gabbano) era bigiastra, o meglio, era nera con macchie giallocannella, e bigia; il collo lucido di grasso, e al posto de’ tre bottoni, penzolavano ancora i fili attorcigliati. Ivan Iakovlevic era cinico addirittura: quando l’assessore di collegio Kovalev gli diceva, secondo il solito, mentre lui lo radeva: «Ti puzzan sempre le mani, Ivan Iakovlevic», lui rispondeva: «Perché puzzerebbero?». «Non so, fratel mio, ma puzzano», ripeteva l’assessore di collegio Kovalev; e Ivan Iakovlevic, annusata una presa, gl’insaponava poi le guancie, sotto il naso, dietro le orecchie, sotto il mento, ovunque, in una parola, credesse conveniente.
Questo onorando cittadino giunse alla fine sul ponte Isaakev. Gettò un’occhiata intorno, si avvicinò poi alla balaustrata come per veder se sotto il ponte passassero molti pesci; e, adagio adagio, vi gettò il pannolino col naso.
Gli parve esser liberato dal peso a un tratto di dieci pudi1 sulla persona. E sorrise, persino. Invece poi di andarsene a radere la barba agl’impiegati, entrò in uno stabilimento con l’insegna: «Cibi e tè», e chiese un bicchiere di poncio. Scorse, subito, in capo al ponte, il commissario di polizia del quartiere, uomo dalle forme distinte, da’ favoriti fulvi, dal tricorno, e lunga spada. Ivan Iakovlevic addiacciò dallo spavento. Intanto il Commissario gli accennò con la mano, e gli disse: «Avvicinati qui, caro!».
Ivan Iakovlevic, uso alle belle maniere, si tolse di lontano il berretto, e, avvicinatosi senza indugio, disse:
— Auguro il buon giorno a Vostra Nobiltà.
— No, no, fratel mio, non c’è nobiltà. Dimmi, che hai fatto laggiù, sul ponte?
— Affè, signore, andavo a radere i miei clienti, e ho guardato solo se la corrente è rapida...
— Mentisci, mentisci, Così non te la cavarai. Vuoi rispondere a tono?
— Son disposto a radere Vostra Grazia due volte la settimana, e anche tre, senza fallo... — rispose Ivan Iakovlevic.
— No, amico mio, codeste son ciarle. Già mi radono tre barbieri e se ne stimano onoratissimi. Invece io ti domando che cosa hai fatto laggiù...
Ivan Jakovlevic impallidì...
Ma qui la storia si copre di una nubre opaca, e di quel che avvenne poi non si sa proprio assolutamente nulla.
II.
L’assessore di collegio2 Kovalev si destò per tempo e fece con le labbra: Brrr... brrr....!, come soleva fare ogni volta al destarsi, senza aver mai saputo dire perchè. Si stirò e comando che gli portassero uno specchietto che si trovava sul tavolino. Voleva osservare un foruncolo che la sera avanti gli era spuntato sul naso; ma, con somma sorpresa, vide che invece del naso era un taglio netto senza sporgenza alcuna. Spaventato, Kovalev si fece portar dell’acqua e si fregò gli occhi con l’asciugamano: davvero, il naso non c’era più. Si pose a tastar con la mano, si pizzicò per accertarsi di non dormire; ma, a quel che gli sembrava era proprio desto. L’assessore di collegio Kovalev saltò di botto, si scosse; sempre, niente naso! Comandò che gli portassero subito un abito, e corse dal gran maestro di polizia.
Intanto è necessario di dir qualche paroia su Kovalev, perchè il lettore possa vedere con qual genere di assessore di collegio egli abbia a fare.
Non si può paragonare gli assessori di collegio che devon questo grido ai loro diplomi con quelli che se lo son guadagnato al Caucaso. Son queste due sorti diverse e distinte. Gli assessori di collegio dell’ordine scientifico... ma qui mi taccio, giacchè la Russia è un paese tanto curioso che se si dica cosa alcuna d’un assessore di collegio... tutti gli assessori di collegio, da Riga al Kram calka, se la prendono per sè. Ed è la cosa per le funzioni tutte e per tutti i gradi.
Kovalev era assessore di collegio del Caucaso. Da due anni soltanto occupava quel grado, e non se ne dimenticava neppure per un minuto; anzi, per darsi aria di maggiore importanza e gravità, lui non si chiamava mai da sè semplicemente assessore di collegio, ma sempre maggiore. «Senti, colomba», soleva dire, incontrando per la via una venditrice di camicie: «Va da me a casa; io abito nella Sadovaja3; domanda pure: — Abita qui il maggiore Iakovlevic? — Tutti te la insegneranno». Se adocchiava qualche leggiadra bellezza, le susurrava qualche parolina: «Tu non devi chiedere altro che del maggiore Kovalev, e trovi subito, carina, la mia casa». E però, d’ora innanzi, noi lo chiameremo maggiore. Il maggiore Kovalev aveva l’abitudine di far un giretto quotidiano sulla Prospettiva della Nevà. Il colletto della sua camicia era sempre nitidamente bianco, bene inamidato. Tali erano i suoi favoriti che se ne vedon tuttavia portare dagli agenti del catasto nelle provincie e distretti, dagli architetti e medici militari, da tutti quelli che occupano impieghi, e, in generale, da tutti quelli che han le guancie paffute e rubiconde e che giuocano al boston a meraviglia: questi favoriti dalla metà della guancia van diritto sino al naso. Il maggiore Kovalev portava indosso addirittura una collezione di piccoli suggelli in corniola, con stemmi, o con la scritta; mercoledì, giovedì, lunedì, ecc. Era venuto a Pietroburgo, massime per trovare un posto adatto al suo grado, posto di vice governatore, a potervi riuscire, o magari, di usciere in qualche bella amministrazione. Il maggiore Kovalev non era ostile al matrimonio, solo a patto che la sposina portasse con sè una dote di duecentomila rubli. Ed ora il lettore giudichi da sè qual fosse lo stato del maggiore quando nel posto del naso abbastanza grazioso e ben proporzionato, non si vide che taglio netto e schiacciato.
Disgraziatamente, non compariva neppure un cocchiere per la via; onde fu costretto ad andare a piedi, avvolto nel mantello e col viso coperto da un fazzoletto, come chi sanguini dal naso.
— Ma non sarà forse che una illusione; è impossibile che mi sia caduto il naso così, stupidamente, — pensò.
E se ne andò in una dolceria per guardarsi nello specchio. Fortunatamente non vi si trovava nessuno; alcuni ragazzi scopavano la sala e davan ordine alle sedie; altri, con gli occhi ancora sonnacchiosi, portavan paste calde nei panieri; sui tavolini e sulle sedie giacevano i giornali del giorno avanti macchiati di caffè.
— Orsù! Grazie a Dio, non c’è nessuno, — disse: — ora posso vedermi a dovere.
Andò timidamente allo specchio, e guardò.
— Solo il diavolo sa cosa sia quest’orrore! — esclamò dopo aver sputato. — Fosse rimasto almeno qualcosa al posto del naso! Ma non v’è proprio niente!
Mordendosi le labbra pel raccapriccio, uscì dalla dolceria; e, contro le sue consuetudini, risolse di non guardar nessuno e di non sorridere ad anima viva. D’improvviso, si fermò, come impietrito. Sulla porta di una casa... inanzi agli occhi gli comparve una apparizione inesplicabile: una carrozza si fermò vicino alla scalea; si aperse lo sportello, e ne uscì, curvandosi, un signore in divisa, che salì in fretta la gradinata. Quale non fu lo spavento e nell’un tempo lo stupore di Kovalev, riconoscendo in quello il proprio naso! Innanzi a quel singolarissimo spettacolo gli parve che ogni cosa gli turbinasse davanti agli occhi, e a stento potè reggersi in piedi; ma decise, tutto tremante come colto da febbre, di aspettare il ritorno di quel signore nella vettura.
Infatti, dopo due minuti, il naso riapparve. Era in uniforme, ricamato in oro, con un collettone saliente, con calzoni in pelle di camoscio e la spada a fianco. Dal cappello piumato si poteva arguire che aveva il grado di consigliere di Stato4. Dal vestito, era evidente che andava facendo visite: guardò da ambo i lati; gridò al cocchiere: «Via!», e se ne andò.
L’infelice Kovalev si sentì impazzire. Non sapeva che pensare di un fatto così inaudito. E davvero, come era possibile che un naso, il quale il giorno prima campeggiava sulla sua faccia, e non poteva andarsene o camminare, fosse ora in uniforme? Inseguì la vettura, che fortunatamente non andava lontano, e che si fermò dinanzi al Gostini Dvor5.
Si affrettò, e si cacciò fra una turba di mendicanti, dalle facce nodose, che avevan buchi per occhiaie, della qual cosa egli si burlava un tempo. V’era poca gente: Kovalev si trovava in tale smarrimento d’idee, che non sapeva decidersi a nulla; cercò il signore in ogni canto; lo scorse alla fine, in piedi, davanti a un banco. Il naso gli nascondeva completamente il viso nell’alto colletto saliente, e osservava alcune mercanzie con profonda attenzione.
— Come avvicinarlo? — pensava Kovalev. — Da tutta la persona, dalla divisa, dal cappello, si vede chiaro ch’è un consigliere di Stato. Se sapessi come fare!...
Cominciò dal tossire, a tratti, intorno al consigliere di Stato; ma il naso non lasciò per un istante solo il suo atteggiamento.
— Signore, – disse Kovalev, tentando in sè di darsi coraggio: — signore...
— Che desidera? — domandò il naso volgendosi.
— Trovo sorprendente, signore... mi sembra che... lei debba conoscere il suo posto. E io la trovo d’improvviso, dove?... capirà.
— Mi scusi... ma io non arrivo a comprendere di che cosa mi parli. Si spieghi.
— Come spiegarmi con lui? — pensò Kovalev.
E, raccogliendo le forze, cominciò:
— Sicuro, io... d’altra parte, io sono maggiore. Mi trovo senza naso. Lei capirà; non è proprio conveniente. Per qualche rivendugliola che spaccia arance sul ponte Voskresenski, passi pure lo star senza naso; ma per me che intendo diventar funzionario, e che ho inoltre relazioni in molte case, con signore, per esempio la signora Cekhtareva, moglie di un consigliere di Stato, e molte altre, giudichi un po’ lei stessa... Io non so, signore (e così dicendo il maggiore Kovalev alzò le spalle)... Scusi... scusi... se si considera codesto dal punto di vista dell’onore e del dovere... lei stessa capirà...
— Non capisco addirittura niente! — rispose il naso. — Si spieghi meglio.
Signore, — rispose Kovalev col sentimento di alta dignità personale: — non so come spiegar invece le sue parole. Qui la faccenda, a quel che mi pare, è chiara e tonda... o lei vuole... Giacchè, insomma, lei ha il naso mio!
Il naso fissò il maggiore e aggrottò alquanto le sopracciglia.
— Lei s’inganna, signore; il mio naso è mio. D’altra parte, fra noi non può esser nulla a partire. A giudicar dai bottoni della sua uniforme di subalterno, lei dev’essere impiegato in altro ramo di servizio.
E, con queste parole, il naso si volse altrove.
Kovalev era tutto crucciato, non sapendo che farsi e che pensare. In quel mentre, un gradevole fruscio di gonne s’intese: una signora attempata, adorna di pizzi, si avvicinò con a fianco un’esile giovinetta, la cui veste bianca le disegnava elegantissimamente la personcina armoniosa, con un cappello giallo-paglino lieve come pasta frolla.
Kovalev si avvicinò alquanto, si raccomodò il collo della camicia di bastista, protese i piccoli sigilli pendenti dalla catena d’oro, e, sorridendo di lato, volse l’attenzione sulla giovinetta snella, che s’inchinava leggermente, quasi fiore primaverile, e si portava alle labbra una manina bianca dalle dita quasi trasparenti. Il sorriso, apparso appena sul volto di Kovalev, si diffuse meglio quando scorse sotto il cappellino un mento ovale d’un niveo candore e parte di una gota colorita come precoce rosa di primavera.
Ma Kovalev balzò d’un subito indietro, come se si fosse scottato. Si era ricordato di non aver proprio niente al posto del naso, e sentì scorrere copiose lacrime sulle guancie.
Si rivolse per dire apertamente e a bassa voce al signore in divisa d’essere un briccone e un iniquo, e a sua volta non pretendeva da lui altro che il proprio naso; ma il naso non c’era più; aveva avuto l’agio di allontanarsi, e di andare, probabilmente, a fare qualche altra visita.
Il fatto immerse Kovalev in maggiore disperazione. Uscì, e rimase per un minuto sotto il peristilio, guardando attentamente da ogni parte se non vedesse spuntare il naso. Ricordava chiaramente che il cappello era piumato e la divisa ricamata in oro; ma non aveva notato il soprabito e la tinta della carrozza nè quella dei cavalli; non sapeva altresì se dietro fosse qualche lacchè e in qual livrea. D’altra parte, correvan di galoppo nell’un senso e nell’altro tal moltitudine di carrozze, ch’era difficile osservarle; e pur riconoscendo quell’una, con qual mezzo fermarla?
La giornata era bellissima, piena di sole. Gran folla sulla Prospettiva della Nevà. Onde fiorite di figure invadevano tutto il marciapiede dal ponte Polisseisk al ponte Anickin. Qui passeggiava un consigliere di Corte6, alcuni amici di Kovalev che lo chiamavano luogotenente colonnello, massime innanzi ad estranei. Ecco Iarylkin, capo di ufficio al Senato, il miglior amico, che faceva far sempre la rimessa al boston, quando giuocava l’otto. Ecco un altro maggiore, che aveva conquistato il grado nel Caucaso e che gli accennava di andare.
— Ehi! se il diavolo ti porti, ehi, cocchiere! — disse Kovalev: — su, menami difilato dal prefetto di polizia.
Kovalev sedette nel droski7, gridando di quando in quando al cocchiere: «Via, su, a briglia sciolta!».
— C’è il prefetto di polizia? — domandò entrando nel vestibolo.
— No, — rispose il portiere: — è uscito or ora.
— Oh, vedi!
— Sì, — aggiunse il portiere: — non è molto, ma è uscito; se fosse arrivata un minutino prima, probabilmente lo avrebbe trovato.
Kovalev, senza togliersi il fazzoletto dal viso, sedette di nuovo vicino al cocchiere e gli gridò con voce disperata:
— Su, via; corri.
— Dove? — chiese il cocchiere.
— Va’ diritto.
— Come diritto? Siamo a un angolo di via: a destra o a sinistra?
Questa dimanda intrigò Kovalev e lo costrinse di nuovo a pensare. Nelle sue condizioni, lui doveva anzitutto recarsi al Tribunale di polizia, non già perchè la sua faccenda avesse una diretta inerenza con la polizia, ma perchè le sue indagini potevano essere più rapide colà che non altrove. Andare a chieder giustizia nella direzione degli uffici, ov’era in funzione il naso, poteva essere imprudenza, giacchè, udite le risposte del naso medesimo, era evidente che per lui non esisteva nulla di nascosto, e lui poteva mentire anche in questa occasione, come aveva già mentito, assicurando di non essersi trovato mai con lui. Kovalev voleva dunque ordinare d’esser condotto al tribunale di polizia, quando gli venne in mente che quel briccone astuto, il quale, nel primo incontro, si era comportato in maniera sleale, poteva a bell’agio profittar dell’indugio e scappar dalla città, e allora, tutte le ricerche diventerebbero inutili, anzi si prolungherebbero, Dio ne scampi, per un mese intero. Alla fine, pare che proprio lo aiutasse il cielo. Egli risolse di andar di corsa all’amministrazione di un giornale, e far inserire subito un annunzio con la descrizione minuta de’ connotati, perchè chi lo incontrasse potesse condurglielo, o almeno almeno indicargli la casa di quel ribaldo.
Preso questo partito, comandò al cocchiere di menarlo appunto all’amministrazione d’un giornale, e per tutta la via si dette a picchiar sodo coi pugni sulla schiena dell’automedonte, gridandogli: «Corri più presto, mascalzone! più presto, canaglia!».
— Eh via, barin! — diceva il cocchiere, scuotendo il capo, e sforzando con le redini il cavallo dal pelo lungo.
Il droski si fermò alla fine, e Kovalev entrò, a perdifiato, in una stanzetta da ricevere, ove un vecchio impiegato, in marsina frusta e cogli occhiali, se ne stava seduto dietro un tavolino, e, con una penna fra le labbra, contava monete di rame.
— Chi riceve gli annunzi qui? — gridò Kovalev entrando. — Oh, scusi, buon dì, salute!
— I miei rispetti! — rispose il vecchio impiegato, alzando per poco gli occhi e riabbassandoli sui ritoli delle monete.
— Desidero di far inserire...
In piedi, davanti al tavolino, con un foglio in mano, stava un domestico gallonato, correttissimo nell’aspetto, che rivelava lungo servizio in case aristocratiche, e che stimava ora opportuno far mostra di urbanità.
— Creda, signore, che quel cagnolino non vale dieci griveniki8; io poi, per me, non gli darei neppure otto gros; ma la signora contessa, se Dio mi perdoni, l’adora, l’adora! Ed ecco, promette cento rubli a chi glielo ritrova! A dirla schietta, in questo momento, fra noi, certi gusti della gente non si capiscono addirittura. Quando si amano i cani, si prende un levriere, un barboncino; vi si gettan cinquecento, magari mille rubli, ma si ha un cane stupendo.
L’onorando impiegato ascoltava codesto con faccia arguta, e intanto contava le lettere della nota portatagli. A lato gli stava una folla di vecchie, di giovani di magazzini, di portieri con le loro carte da inserire in mano.
Vedevasi, in una di queste carte, come un cocchiere di sobria condotta cercava posto; in un’altra, si offriva un calesse, poco usato, venuto da Parigi nel 1814; là una ragazza da faccende di diciannove anni, esperta nella lavanderia, buona anche per altre bisogne, chiedeva collocamento; qui si proponevan droski solidi senza molle; o un giovane cavallo ardente, pomellato, di diciassette anni; semi di rape e ravanelli, venuti di Londra; una casa di campagna con tutte le dipendenze; due stalle per cavalli e un piazzale dove si poteva far sorgere un magnifico giardino di betulle e di abeti; altri cercavan di acquistare vecchie suola e invitavan a presentarsi ogni giorno dalle 8 alle 3 per far affari...
La stanza, nella quale si pigiava tanta gente, era piccola e l’aria greve, densa; ma l’assessore di collegio Kovalev non poteva sentir niente, avendo la faccia coperta da un fazzoletto e il naso... Dio sa dove.
— Signore, mi permetta di pregarla... Ho molta fretta... — disse egli alla fine, impazientito.
— Subito! Subito!... due rubli e quarantatrè copeki!... Un minuto!... Un rublo e sessantaquattro copeki! — disse il vecchio signore, lasciando in disparte, anche cogli occhi, i fogli delle vecchie e dei portieri. — Lei che desidera? — chiese in fine voltosi a Kovalev.
— Prego... — disse Kovalev. — È avvenuta una frode o una ladreria... sinora non so come. Io la prego d’inserire soltanto che colui il quale mi consegnerà quel furfante avrà una buona ricompensa.
— Voglia dirmi il suo cognome.
— No; perchè il mio cognome non posso dirlo. Ho molte relazioni: la signora Cekhtareva, moglie di un consigliere di Stato, la signora Pelagia Grigorevna Podtocina, moglie di un ufficiale superiore... Se venissero a saper d’improvviso... Dio me ne guardi! Lei può scrivere semplicemente: «Un assessore di collegio», o meglio, «Un maggiore».
— Dunque, il suo mozzo di stalla è scappato...
— Che mozzo di stalla!... C’è di peggio... Ciò che è scappato è... il naso!
— Ve’, che strano cognome! E qual somma questo signor Naso le ha preso?
— Naso! Ma lei non ha compreso ancora! È il mio naso, proprio il mio naso, ch’è scomparso, nè so dove si trovi. Il diavolo ha voluto giuocarmi un brutto tiro!
— Ma come mai è scomparso? lo non ci capisco niente affatto.
— Io non posso dirle come. Ma l’importante è che esso va in giro adesso per la città e s’intitola consigliere di Stato. E però io la prego di annunziare: che colui, il quale lo afferri, me lo porti subito, nel tempo più breve. Lei d’altronde capisce come mai possa io vivere senza questa parte della mia persona. Non si tratta, per esempio, d’un dito del piede... Nella scarpa non se ne vede la mancanza... Io vado ogni giovedi dalla moglie d’un consigliere di Stato, la signora Cekhtareva; conosco pure la signora Pelagia Grigorevna Podtocina, moglie di un ufficiale superiore, che ha una graziosissima figlia... Ho ancora altre brillanti relazioni, e lei comprende come io posso oramai... Oramai mi è impossibile comparire in qualsiasi luogo.
L’impiegato riflettè, mordendosi forte le labbra.
— No; io non posso inserire tale annunzio nel giornale, — disse alla fine, dopo lungo silenzio.
— Come?... Perchè?
— Perchè un giornale non può perdere il suo buon nome. Se ognuno comincia a inserirvi che gli è scomparso il suo naso, allora... Ecco perchè poi si sparge la voce che si stampano fandonie e si raccolgono voci menzognere...
— E perchè questo sarebbe fandonia? Nel mio caso, pur troppo, non è niente di simile, mi pare.
— Lei pensa così; or senta un fatto avvenuto la settimana scorsa. Venne qui un funzionario, proprio come lei è venuto quest’oggi, recando una noterella, che gli costò due rubli e settantacinque copeki. Tutto l’annunzio consisteva in ciò: un barboncino dal pelo nero è fuggito. Lei mi dirà: Oh come c’entra? Avvenne questa ridicola coincidenza: che il barboncino non era se non il cassiere di non so quale amministrazione.
— Ma io non le chiedo di pubblicare circa un barboncino; ma pel mio naso, e, in conseguenza, per me stesso.
— No, non posso inserire codesto annunzio.
— Neppur quando il mio naso sia veramente scomparso?
— Se è scomparso, è affare del medico; si dice che costoro possan piantar nasi convenientissimi. E poi, e poi, io credo che sia un uomo d’indole allegra, che ama divertirsi e scherzare in società...
— Le giuro per quanto è di più sacro! E poichè siamo a tal punto, mi permetta che le mostri...
— Perchè adirarsi? — seguitò l’impiegato, annasando una presetta. — Del resto, se non le spiace, — soggiunse con moto di curiosità: — sarei pur contento di vedere...
L’assessore di collegio si tolse il fazzoletto dal viso.
— Davvero la cosa è singolarmente stupefacente!! — esclamò l’impiegato: — il filo è proprio come tagliato di netto... Sì, è piatto, che pare impossibile.
— Ebbene, discuterà ancora adesso? Vede lei stessa quanto importi l’inserir questo avviso. Glie ne sarò particolarmente grato, e son lieto di questa occasione che mi ha procurato il piacere di conoscerla...
Il maggiore, come si vede, si era proposto, per quella volta sola, di usar le lusinghe.
— Annunziar codesto, certo, è cosa da poco, — disse l’impiegato; — solo credo che lei non ne trarrà vantaggio di sorta. Lei dovrebbe incaricar qualcuno dalla penna industre di descriverlo come fenomeno di natura e d’inserir tale articolo nella «Abeille du Nord» (qui aspirò una presa), per giovare a’ giovani (qui si soffiò il naso), e anche per la pubblica curiosità.
L’assessore di collegio era sempre più disperato. Abbassò gli occhi in calce al giornale, ove si trovavan le notizie teatrali, e sul viso già gli si diffondeva il sorriso, scorgendo il nome di una artista sua preferita, e già cacciava la mano in tasca per trarne un biglietto azzurro, giacchè a suo avviso, gli ufficiali superiori devono adagiarsi solo nelle poltrone, quando l’idea del naso gli conturbò tutto.
Pare che lo stesso impiegato fosse commosso pel terribile caso di Kovalev. Desiderando alleviargli lo strazio, credette bene esprimergli la propria compassione con poche parole: «In verità, io sono molto sdegnato per l’avventura che l’è occorsa. Desidera una presa di tabacco? Scaccia il mal di testa e l’inclinazione alla melanconia; è anche un rimedio sovrano contro le emorroidi». E, così dicendo, l’impiegato presentò a Kovalev una tabacchiera della quale aperse delicatissimamente il coperchio, adorno del ritratto d’una signora col cappello.
A questo imprudente procedere dell’impiegato, Kovalev finì col perdere la pazienza. «Non capisco», disse adirato, «come lei possa trovar qui cagione di burla; non vede che mi manca l’organo essenziale a fiutare? II diavolo le porti via il suo tabacco! Adesso io non posso neppur più soffrirlo a vedere, non solo il suo esecrando berezinski, ma perfino il rapè». A queste parole, uscì profondamente sdegnato contro l’amministrazione del giornale, e si diresse verso il commissariato di polizia.
Kovalev giunse proprio sul punto che il funzionario stendevasi sbadigliando e dicendo fra sè: «Vo’ dormire per un paio di orette». Onde si vede che l’arrivo dell’assessore di collegio era oltremodo inopportuno.
Il commissario era grande amatore di cose artistiche, e anche di oggettini industriali; ma preferiva a tutto un biglietto imperiale. «È cosa», soleva dire, «che non v’è la migliore: non chiede cibo, tien poco posto, rientra sempre bene in tasca, e se lo si lascia scivolare non si rompe».
Ricevette Kovalev freddamente, facendogli capire che quella non era l’ora, subito dopo il desinare, di procedere ad una indagine; che la natura stessa insegna qualmente dopo il pasto dobbiamo riposare alquanto (così l’assessore di collegio potè vedere come gli apoftegmi de’ filosofi antichi non erano ignoti al commissario), e che un uomo d’ordine non perde il naso.
Queste parole feriron profondamente il nostro eroe. Bisogna notare che Kovalev era uomo molto suscettibile. Poteva bensi perdonare quanto si dicesse sulla sua persona, ma non perdonava mai quanto oltraggiasse il grado o la funzione. Pensare che in teatro, sulle scene, si potesse lasciar correre, via, quanto si diceva contro i sottufficiali; ma che non si deve permetter parole contro gli ufficiali superiori. L’accoglienza del commissario lo sconvolse tanto, che tentennò la testa e disse con sentimento di dignità, stendendo un po’ la mano: «Confesso che dopo le parole offensive udite da lei, io non abbia più niente da aggiungere». E uscì.
Rientrò in casa, sentendo appena di reggersi sulle gambe. Scendeva la notte e la sua dimora gli parve triste e sudicia, dopo tante inutili ricerche. Entrando nell’anticamera, vide sul divano di cuoio frusto il suo servo Ivan, che, coricato sul dorso, si divertiva a sputare sull’impiantito, cogliendo con molta destrezza, or questa or quella parte. Quella indifferenza lo rese furibondo; lo percosse col cappello sulla bocca, dicendogli: «Eccoti a far sempre scempiaggini».
Ivan saltò d’un balzo dal posto e corse a tutte gambe per togliergli il mantello. Il maggiore, stanco ed afflitto, entrò nella sua stanza, si gettò su di una poltrona, e, dopo alcuni sospiri, disse:
— Mio Dio! Mio Dio! Perchè questa sciagura? Se fossi senza mani e senza piedi... sarebbe meglio; ma un uomo senza naso, il diavolo sa che sia; un uccello non sarebbe più uccello, un cittadino non è più cittadino; è semplicemente cosa da prendere e buttar dalla finestra. Almeno me lo avessero tagliato in guerra, o in duello. o ne fossi io la cagione! Ma cascarmi così, per niente, per niente, addirittura per niente, gratuitamente, nemmanco per un centesimo! Orsù; no, non può essere, — soggiunse dopo aver riflettuto: — è incredibile che un naso caschi così; di tutte le maniere, questa è la più inverosimile. Certo, io sogno, o, semplicemente, me lo figuro; può darsi benissimo ch’io abbia bevuto, invece di acqua, l’acquavite con la quale mi lavo le guancie dopo d’essermi raso. Quello sciocco d’Ivan non me l’avrà tolta di mano, e, certamente io l’ho inghiottita.
Per assicurarsi con certezza di non esser briaco, il maggiore si pizzicò così forte, che pel dolore gettò un grido. Questa ferita lo persuase affatto ch’era vivo davvero, e davvero operava sul serio. Si avvicinò pian piano allo specchio, battendo le palpebre sulle prime, e sperando che il naso comparirebbe al suo posto; ma indietreggiò subito d’un salto, esclamando: «Che caricatura!».
La cosa diventava assolutamente incomprensibile: fosse scomparso un bottone, un cucchiaio d’argento, un orologio o qualcosa di simile, meno male; ma scomparire il naso...! E a chi, poi?... E nella stessa casa!... Il maggiore Kovalev, passando in rassegna tutte le vicende del caso, penso che a occhio e croce, la causa più certa doveva esser, nè altra c’era, la moglie dell’ufficiale superiore signora Podtocina, che desiderava fargli sposare la figlia. Egli si compiaceva bensì di corteggiare costei; ma eludeva sempre una conclusione finale. Quando la signora gli dichiarava apertamente di volergliela dare, egli indietreggiava a poco a poco, con molta cortesia, dicendo di esser ancora giovine, di dover servire ancora cinque anni, di aver appena giusto quarantadue anni.
Appunto per ciò la moglie dell’ufficiale superiore, a vendicarsi, si era indotta a deformarlo, e aveva dovuto pagar per tanto qualche vecchia strega, essendo impossibile che il naso, in una o in altra guisa, gli fosse stato tagliato altrimenti: nella sua stanza non lo aveva avvicinato alcuno; il barbiere Ivan Ivanovic lo avea raso il mercoledì, e durante tutto quel giorno e tutto il giovedì, aveva avuto il naso intatto: questo lui ricordava perfettamente; n’era sicuro; e poi dolore ne avrebbe sentito, e, senza dubbio, la ferita non si sarebbe cicatrizzata presto, non sarebbe rimasta piatta come....
Almanaccò in testa de’ disegni: intentare azione giudiziaria alla signora Podtocina o presentarsi di persona da lei e svergognarla. Queste riflessioni furono interrotte dalla vista della luce, che penetrava dagli spirali dell’uscio e lo fece accorto che Ivan aveva acceso un lume nell’anticamera.
Subito dopo apparve lo stesso Ivan con la candela in mano, e la stanza fu vivamente illuminata. Il primo moto di Kovalev fu di afferrar il fazzoletto e di coprire il posto ove il giorno innanzi trovavasi il naso, perchè lo sciocco servitore non cominciasse dallo spalancar tanto di bocca vedendo nel padrone quella stravaganza.
Ivan non aveva avuto ancor tempo di riprendere il suo cantuccio, quando s’intese nell’anticamera una voce sconosciuta che chiedeva: «Abita qui l’assessore di collegio Kovalev?».
— Entri; il maggiore Kovalev è proprio qui, — disse Kovalev accorrendo per aprire l’uscio.
Entrò un agente di polizia, uomo di bell’aspetto, dai favoriti non troppo chiari nè troppo scuri, dalle guancie paffute; lo stesso che abbiam veduto sul cominciar di questo racconto star in capo al ponte Isaakev.
— È lei che ha avuto l’onore di perdere il naso?
— Proprio io.
— Esso è ormai rinvenuto!
— Cosa dice? — esclamò il maggiore Kovalev.
La gioia gli toglieva la favella; guardò un po’ perplesso il poliziotto, che gli stava davanti, con le labbra e le gote illuminate dalla vacillante luce della candela.
— E come mai?- domandò alla fine.
— Per un caso sorprendente; l’hanno arrestato sul punto che partiva. Lui si era già insediato nella diligenza, e voleva recarsi a Riga. Il suo passaporto era già da gran tempo intestato a un funzionario. Il più stupefacente è poi ch’io stesso l’avevo preso per un signore, sulle prime; ma, fortunatamente, messi gli occhiali, mi accorsi subito che era un naso. Devo dirle che io sono miope, e, se lei mi si pone dinanzi, vedo bene che lei ha la faccia, ma non distinguo il naso, la barba, niente. Mia suocera, la madre di mia moglie, neppure lei vede niente.
Kovalev stava sulle spine.
— Dov’è? Dov’è? Vi corro subito.
— Non si disturbi tanto, Sapendo che vi è necessario l’ho portato con me. Ciò che poi è curioso è il fatto che il complice principale di questa briga è un briccone di barbiere in via Vosnesenski, che ora si trova in gattabuia. Io lo sospettavo da un pezzo come ubriacone e ladruncolo; due giorni or sono, egli ha portato via da un negozio due carte di bottoni. Il suo naso è perfettamente intatto.
E, così dicendo, l’agente si frugò nelle tasche, e ne trasse il naso, avvolto in un pezzo di carta.
— Sì; è proprio desso! — esclamò Kovalev: — è desso, sicuramente desso! Accetti di prender ora con me una tazza di tè.
— Le sono riconoscentissimo per la sua squisita cortesia; ma non posso, devo correre di qui a una casa di correzione... In questi ultimi tempi è avvenuto un gran rincaro ne’ viveri... Ho con me mia suocera, la madre di mia moglie, e tanti figliuoli... Il primogenito dà veramente grandi speranze; è un ragazzo intelligentissimo; ma mi mancano affatto i mezzi per la sua educazione...
Il medico comparve quasi subito. Dopo d’aver chiesto da quanto tempo era avvenuta la disgrazia, afferrò il maggiore Kovalev pel mento, e col pollice gli percosse il punto ove già trovavasi il naso. Così il maggiore fu costretto a dar della testa all’indietro tanto forte che battè l’occipite alla parete. Il medico disse che non era niente; e allontanatosi dal muro, gli ordinò di piegar la testa prima a destra e tastandogli il posto del naso, fece: Oè! poi gli ordinò di piegarla a sinistra, tastò e rifece: Oè! Per concludere, lo percosse di nuovo, sì che Kovalev ritrasse la testa, come un cavallo cui si osservino i denti. Fatta quella prova, il medico tentennò il capo, e disse:
— No; è impossibile. Preferisca di restare così, perchè sarebbe peggio. Certo, lo si può attaccare; posso attaccarglielo or ora, sicuro; ma le assicuro che sarà peggio per lei.
— Stupendo! E come posso rimaner senza naso? — disse Kovalev. — Non può esser peggio di adesso, senza contar che solo il diavolo sa che cosa sia. Dove comparire con una testa così grottesca? Io ho bellissime relazioni; e oggi stesso, di sera, debbo recarmi in due case; son conosciuto da molta gente; per esempio dalla moglie del consigliere di Stato Cekhtareva, dalla signora Podtocina, moglie d’un ufficiale superiore, sebbene dopo il procedere attuale io non avrò più niente a spartire con lei, se non per mezzo della giustizia. Mi faccia grazia, — soggiunse Kovalev con voce supplichevole, — di attaccarlo e non importa come. Se pur non vada d’incanto, basta che regga; potrò anche sostenerlo leggermente con la mano, ne’ casi un po’ pericolosi. Nè mi metterò a ballare, per paura che non corra rischio in qualche moto inatteso. Circa poi il compenso per questa visita, creda che per quanto posso...
— Sappia, — disse il medico con voce non tanto alta nè tanto bassa, ma singolarmente insinuante e persuasiva, — che io non curo mai per amor di guadagno. È contro i miei principi e l’arte mia. Prenderò qualcosa per la visita, ma solo per non offenderla con un rifiuto. Sicuro; posso attaccarvi il naso; ma le dò la mia parola d’onore che così sarà più brutto, molto più brutto. Lasciamo invece far la natura. Lavi soltanto la parte con acqua fredda e l’assicuro che, privo del naso, lei starà bene quanto col naso. Ma le consiglio di conservare il suo naso nello spirito di vino in un vaso, o meglio, di versar nel recipiente due buone cucchiaiate d’acquavite e di aceto caldo... e davvero ne potrà cavar molto danaro. Lo porterei via io stesso, se lei non ci tenesse.
— No, no; non lo venderò per tutto l’oro del mondo! — esclamò il maggiore, disperato. — Preferisco perderlo!
— Scusi, — disse il dottore, andandosene: — volevo esserle utile... Che fare?... D’altra parte, lei ha veduto la mia sollecitudine...
Così dicendo il dottore usci dalla stanza, con nobile andatura. Kovalev non lo guardò neppure in viso, e, immerso in profondo annientamento, non distinse che i polsi della candida camicia netta come neve che uscivan dalle maniche della marsina nera.
La dimane, prima di dar querela, s’indusse a scrivere alla signora Podtocina per sapere se lei non volesse consentir di buon grado alla sua dimanda. La lettera era concepita così:
- «Signora Alessandra Grigorevna,
«Io non posso imaginar da parte sua un’azione così inaspettata; sia certa che, operando in tal guisa, lei non ci guadagnerà niente, e non m’indurrà punto a sposare sua figlia. Oramai, da un pezzo, la faccenda che riguarda il mio naso è chiarita, circa la parte che lei vi ha avuto come principale istigatrice; anzi addirittura la sola. Il suo staccarsi dal posto, la sua fuga, e il suo travestimento da funzionario, tutto ciò in somma, nel singolare suo atteggiamento, non è altro che una serie di stregonerie eseguite da voi o da persone che si dànno per conto suo alle nobili concentrazioni di tal genere. A mia volta, sento il dovere di avvertirla prima che, se il naso del quale io parlo non sarà oggi stesso rimesso a posto, io sarò costretto a ricorrere all’aiuto e all’assistenza delle leggi.
«Intanto, col massimo rispetto per lei, ho l’onore di essere suo umile servitore
Platone Kovalev».
- «Signor Platone Kovalev,
«La sua lettera mi ha sommamente sorpresa. Le confesso che davvero non me l’aspettavo, massime pei suoi ingiusti rimproveri. L’avverto che non ho mai ricevuto in casa il funzionario del quale lei parla nè travestito, nè sotto il suo vero aspetto. Da me venne, è vero, Filippo Ivanovic Potancicov; e, sebbene egli chieda ora la mano di mia figlia e che sia di sobria ed ottima condotta, e abbia molta cultura, io non gli ho lasciata punto speranza. Lei parla anche del suo naso. Se lei con ciò vuol dire ch’io ho intenzione di ridere sul naso, vale a dire di darle un formale rifiuto, io sono stupita che lei dica così; giacchè io sono di parere affatto contrario, lei lo sa benissimo; e se lei richiede adesso mia figlia in forma legale per ottenerla in isposa, io sono disposta a sodisfarla senza alcun indugio. Ciò sarà sempre oggetto del mio desiderio più vivo, nella cui speranza son sempre disposta a servirla.
Alessandra Podtocina.»
— No, — disse Kovalev dopo aver letta questa lettera: — lei è proprio incapace di tanto. Non può essere! Una lettera scritta così non può essere d’una persona che abbia commesso un delitto. — L’assessore di collegio era esperto in simili faccende e in altre, anzi una volta era stato mandato a compiere una inchiesta nel Caucaso.
— In che modo, con quali malie, intanto, si è compiuto? — disse fra sè. — Oramai vada tutto al diavolo.
E si lasciò cader le mani.
Frattanto, in tutta la capitale, correvan le voci sul singolare avvenimento, e, come sempre avviene, non senza frange e ricami. Tutti gli animi, di quel tempo, eran rivolti allo straordinario. Poco tempo prima il pubblico si era commosso a due esperienze di magnetismo; era ancor recente la storia delle tavole giranti in via delle Scuderie. Non bisogna dunque meravigliarsi se si cominciò subito a diffonder la novella che il naso dell’assessore di collegio Kovalev passeggiava verso le tre sulla Prospettiva della Nevà, e già da un bel pezzo. Una gran moltitudine di curiosi vi affluì ogni giorno. Alcuno affermò che il naso trovavasi nel magazzino di Iunker, ove si accalcò tanta folla, occupando anche i dintorni, che la polizia fu costretta a stabilirvi un servizio d’ordine. Uno speculatore, uomo da bene, con favoriti, che vendeva all’uscita dei teatri caramelle e paste secche, fece inalzare apposta bellissimi palchetti solidi di legno, ove invitava i curiosi a salire per sessanta copeki ciascuno. Un colonnello di gran merito uscì di casa a buon’ora per veder codesto; e potè penetrare a stento tra la folla; ma, con profonda indignazione, non vide nella finestra della bottega, invece del naso, che una comunissima maglia di lana e un quadro in litografia rappresentante una giovinetta che rammenda calze, e un elegante dal corpetto scollato, dalla barbettina corta, che la guarda dall’alto di un albero... quadro che era là da oltre dieci anni. Il colonnello se ne andò indispettito, dicendo: «Come mai si può ingannare il popolo con ciarle tanto sciocche e inverosimili!». Corse poi la voce che il naso del maggiore Kovalev passeggiava, non più sulla Prospettiva della Nevà, ma nel giardino di Tauride: vi si trovava già da molto tempo, dicevano, sin da quando vi soggiornava Khozrev Mizza, che si meravigliava di quel bizzarro capriccio della natura. Vi furon mandati alcuni studenti dell’accademia di medicina. Una rispettabile signora, di altissima nascita, pregò il guardiano di quel giardino, con lettera riservata, di mostrare ai figli quel raro fenomeno, e, possibilmente, di unirvi una spiegazione introduttiva ed edificante per la gioventù.
Questi fatti formaron la delizia de’ visitatori mondani, necessari a ogni discorso, ove cercasi di svagare le signore, e ove le argute raccolte di notizie vanno sempre più scemando. Invece, un gruppetto di persone onorevoli e ben pensanti se ne mostrò scontentissimo; anzi un signore, sdegnato, ebbe a dire di non comprendere come nel secolo civile in cui viviamo potevan diffondersi cotali voci false e assurde, meravigliandosi che il governo non rivolgesse più vigili cure sull’argomento. Quel signore, evidentemente, era di coloro che vogliono mischiare da per tutto il governo, magari ne’ pettegolezzi quotidiani con le proprie mogli.
Dopo di che... ma qui la storia copresi novellamente di un denso velo e di quel che avvenne dopo non si sa niente addirittura.
III.
Avvengono nel mondo scioccherie d’ogni sorte, e i fatti talora non hanno alcuna verisimiglianza: or quello stesso naso che girava in divisa di consigliere di Stato e suscitava nella città tanto scalpore, si ritrovò d’improvviso, non si sa come, al suo posto preciso, fra le due guancie del maggiore Kovalev. Ciò avvenne il 7 di aprile.
Svegliatosi, e guardandosi nello specchio, il maggiore vide il suo naso! Vi portò la mano... Era davvero davvero il suo naso.
— Ah, ah! — esclamò Kovalev, e poco mancò non si desse a ballare coi piedi scalzi per la stanza. Ne fu impedito dall’arrivo d’Ivan. Gli comandò di portargli subito da lavarsi, e lavandosi, si guardava nello specchio; il naso era là, ben piantato. Si asciugò con un pannolino, e si mirò novellamente nello specchio... il naso era sempre là.
— Guarda qui, Ivan; mi sembra di aver sul naso un foruncoletto, — disse: intanto, pensava: «Il guaio sarà che Ivan mi dirà: — Ma lei, signor mio, non solo non ha foruncolo, ma neppur naso».
Invece, Ivan rispose:
— Non c’è niente; nemmeno l’ombra di foruncolo: il suo naso è intatto.
— Benissimo! Or il diavolo mi porti! — disse fra sè il maggiore, e fece schioccar le dita.
In quel momento apparve sull’uscio il barbiere Ivan Iakovlevic, dall’aria paurosa d’un gatto frustato.
— Dimmi prima: hai le mani nette? — gli gridò di lontano Kovalev.
— Nettissime.
— Menti.
— Giuro a Dio che sono nette, signore!
— Orsù: fammele vedere.
Kovalev sedette. Ivan Iakovlevic gli attorse al collo un asciugamano, in men che si dica gl’insaponò la barba e parte delle guancie con un pennello in crema, come quella che vendono i gelatieri nelle feste. «Vedi, ve’!», disse fra sè Ivan Iakovlevic, dopo aver guardato il naso! e poi, chinando il capo di lato, osservato nell’altro senso: «Vedi! Sta proprio a dovere!», soggiunse; e stette per un pezzo a contemplare il naso. Alla fine, con vigile cura e prudenza, come si fa per sè stessi, egli strinse due dita per prenderne la punta.
Era il metodo di Ivan Iakovlevic.
— Su, via! bada! — gridò Kovalev. Ivan Iakovlevic lasciò cader la mano, perdette la testa e si sconvolse come non mai sino allora. Cominciò alla fine a raspare accuratamente col rasoio sotto la barba, e sebbene gli fosse difficile il radere senza poggiar le dita sulla parte olfattiva del corpo, tuttavia aiutavasi alla meglio col pollice posato sulla guancia e sulla gengiva inferiore, e, bene o male, giunse a vincer le difficoltà e conseguì l’operazione.
Quando fu pronta ogni cosa, Kovalev si affrettò a vestirsi; prese un cocchiere e andò difilato a una dolceria. Entrando, ancor lontano, gridò: «Giovinotto! Una tazza di cioccolatte!» e si guardò nell’un tempo in uno specchio: il naso era proprio a posto! Si volse allegramente, e con aria spavalda osservò, strizzando l’occhio, due militari, uno dei quali aveva il naso più piccolo di un bottone da corpetto.
Si recò poi nella cancelleria del Ministero, dove sollecitava per aver un posto di vice-governatore; e, in caso avverso, almeno quello di usciere; traversando la sala da ricevere, si guardò ancora nello specchio; il naso era sempre là.
Si diresse poi da un altro assessore di collegio, un maggiore, grandissimo burlone, motteggiatore, al quale soleva dire in risposta a’ frizzi mordaci: «Oh, io ti conosco, io: tu sei pungente!». Pensava per via: Se il maggiore non scoppia a ridere nel vedermi, sarà segno che in me tutto sta bene. Ma l’assessore di collegio non c’era. Benissimo! Ottimamente! Se lo porti il diavolo, disse fra sè Kovalev. Incontrò per via la moglie dell’ufficiale superiore, signora Podtocina, con la figlia, le fece una riverenza, e fu accolto da liete manifestazioni: non gli mancava dunque niente. Conversò a lungo, e, apposta, aperta la tabacchiera, fiutò il tabacco, dinanzi a loro, per le due narici, dicendo fra sè: «Pigliate, ora, femmine, popolo di galline! Io non sposerò punto tua figlia. A meno che lei non consenta... simplement par amour!9 Allora, sia!
E il maggiore Kovalev girò per la Prospettiva della Nevà, pei teatri, da per tutto. E il naso, come se niente fosse, gli restò lì, piantato in faccia, senza pur l’ombra di piegar da lato. E da quel giorno in poi il maggiore Kovalev sembra di buon umore, sorridente, e cercatore appassionato di belle donne; lo si vide anche una volta in un banco del Gostini comperar un nastro cavalleresco; non si può sapere il motivo, perchè lui non era cavaliere di niun ordine.
Questa è la storia avvenuta nella capitale settentrionale del nostro vasto impero. Ora, ora, a ben considerare ogni cosa, vediamo che vi sono molte inverosimiglianze: senza pensar di quel che è stupefacente in quello staccarsi subitaneo del naso, del suo comparir in vari luoghi sotto l’aspetto di segretario di Stato, come mai Kovalev non capì che per un naso non può farsi l’annunzio su d’un giornale? E qui non voglio discutere l’alto prezzo da sborsare per una inserzione, poichè io non sono punto da metter fra le persone avare; ma la cosa è indecente, goffa e sconveniente.
E questo ancora: come mai il naso si trovò in un pane cotto, e come mai Ivan Iakovlevic stesso fu a trovarlo...? No, io non posso affatto capir codesto; davvero, non capisco. Ma ciò ch’è ancora più curioso, più incomprensibile, è che qualche scrittore possa scegliere simili argomenti. Lo confesso; anche questo è per me inconcepibile e, davvero... no, no! Non ci capisco niente! E proprio non so che...
Eppure, in fin dei conti, forse in fondo in fondo si potrà ammettere prima una cosa, poi una seconda, poi una terza, e via via... Giacchè, a dirla fra noi, dove non si trovano rassomiglianze? E quando si pensi a ciò, sicuro, qualcosa c’è. Si ha un bel dire; ma fatti simili avvengono nel mondo; di rado sì, ma avvengono.
Fine.
Note
- ↑ Pud: misura di peso, che vale 10 chilogrammi e mezzo.
- ↑ Assessore di collegio: si chiama il funzionario di ottava classe nel cin. Nell’esercito si chiama maggiore, nelle scienze dottore. Ecco perchè più giù si dice non potersi comparare chi riceva quel grado con le pergamene a chi lo guadagna, combattendo, nel Caucaso.
- ↑ Grande via di Pietroburgo, come la Prospettiva della Nevà, ancora più grande.
- ↑ Quinto grado del cin.
- ↑ Grande bazar, o mercato.
- ↑ Settimo grado del cin.
- ↑ Carrozza da nolo.
- ↑ Grivenik: moneta di 10 copeki, o 40 centesimi; gros: 2 copeki, 8 centesimi.
- ↑ In francese nel testo.