Il mestiere di vivere/Secretum professionale (6 ott. '35 - 28 febbr. '36)
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Secretum professionale
Ott. - dic. 1935 e febbr. 1936, a Brancaleone
(Il Mestiere di poeta, 1934,
stampato in Lavorare stanca precede idealmente).
1935
6 ottobre.
Che qualcuna delle ultime poesie sia convincente, non toglie importanza al fatto che le compongo con sempre maggiore indifferenza e riluttanza. Nemmeno importa molto che la gioia inventiva mi riesca qualche volta oltremodo acuta. Le due cose, messe insieme, si spiegano coll’acquisita disinvoltura metrica, che toglie il gusto di scavare da un materiale informe, e insieme interessi miei di vita pratica che aggiungono un’esaltazione passionale alla meditazione su certune poesie.
Conta invece questo, che sempre piú inutile e indegno mi pare lo sforzo; e piú feconda che non l’insistenza su queste corde, la ricerca, da tempo concepita, di nuove cose da dire e quindi nuove forme da foggiare. Poiché la tensione alla poesia è data al suo inizio dall’ansia di realtà spirituali ignote, presentite come possibili. Un’ultima difesa contro la smania di tentativi violenti rinnovatori la trovo nella convinzione superba che l’apparente monotonia e severità del mezzo, che ormai possiedo, sia ancora per essere il miglior filtro d’ogni mia avventura spirituale. Ma gli esempi storici — se pure in materia di creatività spirituale è lecito fermarsi agli esempi di qualunque sorta — sono tutti contro di me.
Comunque, c’era un tempo che avevo ben vivo nella mente un ammasso passionale e semplicissimo di materia, sostanza della mia esperienza, da ridurre a chiarezza e determinazione organiche nel poetare. E ogni mio tentativo, sottilmente ma inevitabilmente, si riconnetteva a questo fondo e mai mi parve di sviarmi per stravagante che fosse il nucleo di ogni nuova poesia. Sentivo di comporre qualcosa, che superava sempre il pezzo (del momento) (attuale).
Venne il giorno che l’ammasso vitale fu tutto assunto nell’opera, e mi parve di non lavorare piú che di ritagli o di sofisticare. Tant’è vero che — e meglio me ne accorsi quando volli chiarirmi in uno studio il lavoro compiuto — scusavo ora le ulteriori ricerche della mia poesia come applicazioni di una consapevole tecnica dello stato d’animo e facevo invece una poesia-gioco della mia vocazione poetica. Ricadevo cioè nell’errore, che, identificato e fuggito, aveva giovato a lasciarmi all’inizio tanta fresca baldanza creativa, di poetare, e sia pure indirettamente, su di me poeta. (Exegi monumentum...) A questo senso di involuzione posso rispondere che invano ormai cercherò in me un nuovo punto di partenza. Dal giorno dei Mari del Sud1 in cui per la prima volta espressi me stesso in forma recisa e assoluta, cominciai a costruire una persona spirituale che non potrò mai piú scientemente sostituire, pena la negazione sua e la messa in questione di ogni mio futuro ipotetico slancio. Rispondo quindi al senso di inutilitá presente, umiliandomi nella necessitá di interrogare il mio spirito in quei modi soltanto che finora gli furono naturali e fruttuosi, rimettendo ogni scoperta alla feconditá di ciascun caso in particolare. Dato che la poesia viene alla luce tentandola e non prospettandola.
Ma perché, in quel modo che sinora mi sono limitato come per capriccio alla sola poesia in versi, non tento mai un altro genere? La risposta è una sola e forse insufficiente: per ragioni di cultura, di sentimento, di abitudine ormai e non per capriccio, non so uscire dal sentiero, e mi parrebbe dilettantesco il colpo di testa di mutare la forma per rinnovare la sostanza.
9 ottobre.
Ogni poeta s’è angosciato, meravigliato e ha goduto. L’ammirazione per un gran passo di poesia non va mai alla sua stupefacente abilitá, ma alla novitá della scoperta che contiene. Anche se proviamo un palpito di gioia a trovare un aggettivo accoppiato con riuscita a un sostantivo, che mai si videro insieme, non è stupore all’eleganza della cosa, alla prontezza dell’ingegno, all’abilitá tecnica del poeta che ci tocca, ma meraviglia alla nuova realtá portata in luce.
È da meditare la grande potenza di immagini come quella delle gru, del serpente o delle cicale; o del giardino, della meretrice e del vento; del bue, del cane, di Trivia, ecc. Anzitutto, sono fatte per le opere a vasta costruzione, poiché rappresentano l’occhiata data alle cose esterne nel corso della attenta narrazione di fatti d’importanza umana. Sono come un sospiro di sollievo, uno sguardo alla finestra. Con quella loro aria di particolari decorativi scoppiati fuori variopinti da un duro tronco, provano la inconscia austerità del creatore. Esigono la naturale incapacità di sentimenti paesistici. Adoperano chiaro e onestamente la natura come un mezzo, come qualcosa d’inferiore alla sostanza del racconto. Come uno svago. E questo va storicamente compreso, perché la mia idea delle immagini sostanza del racconto lo nega. Perché? Perché noi facciamo poesia breve. Perché noi afferriamo e martelliamo in un significato un singolo stato d’animo, che è principio e fine a se stesso. E non ci è dato quindi infiorare il ritmo del nostro condensato racconto con sfoghi2 naturistici, che sarebbero smanceria, ma o dobbiamo, preoccupati d’altro, ignorare la natura vivaio d’immagini, o esprimere appunto uno stato d’animo naturistico, dove lo sguardo alla finestra è la sostanza di tutta la costruzione. Del resto basta pensare a qualche opera moderna di vasta costruzione — romanzi, penso — ed ecco che ritroviamo in essa, attraverso un intrico di filtrazioni paesistiche dovute alla nostra insopprimibile cultura romantica, nitidi esempi di immaginismo-svago.
Supremo sugli antichi e sui moderni — sull’immagine-svago e sull’immagine-racconto — è Shakespeare, che costruisce vastamente e insieme è tutto uno sguardo alla finestra; esce in un’immagine rampollante da un ceppo austero di umanità e insieme costruisce la scena, l’intero play come interpretazione immaginista dello stato d’animo. Questo deve nascere dalla felicissima tecnica drammatica, per cui tutto è umanità — la natura, inferiore — ma anche tutto, nel linguaggio immaginoso delle sue persone, è natura.
Ha sotto mano pezzi di lirica, di cui fa una struttura solida. Racconta, insomma, e canta indissolubilmente, unico al mondo.
10 ottobre.
Anche ammesso che io abbia raggiunta la nuova tecnica che cerco di chiarirmi, va però da sé che sparsi qua e là si trovano tratti colati in larve di altre tecniche. Questo m’impedisce di vedere chiaramente l’essenza del mio modo (sia detto con cautela contro Baudelaire, in poesia non è tutto prevedibile e componendo si scelgono talvolta forme non per ragione veduta ma ad istinto; e si crea, senza sapere con definita chiarezza come). Che io tenda a sostituire allo sviluppo oggettivo della trama, la calcolata legge fantastica dell’immagine, è vero, perché cosí difatti intendo; ma fin dove giunga questo calcolo, che cosa importi una legge fantastica, e dove finisca l’immagine e cominci la logica, sono bei problemini.
Questa sera, sotto le rocce rosse lunari, pensavo come sarebbe di una grande poesia mostrare il dio incarnato in questo luogo, con tutte le allusioni d’immagini che simile tratto consentirebbe. Subito mi sorprese la coscienza che questo dio non c’è, che io lo so, ne sono convinto, e quindi altri avrebbe potuto fare questa poesia, non io. Di qui ho pensato come dovrà essere allusivo e all-pervading ogni mio futuro argomento, allo stesso modo che doveva essere allusiva e all-pervading la fede nel dio incarnato nelle rocce rosse, se un poeta se ne fosse servito.
Perché non posso trattare io delle rocce rosse lunari? Ma perché esse non riflettono nulla di mio, tranne uno scarno turbamento paesistico, quale non dovrebbe mai giustificare una poesia. Se queste rocce fossero in Piemonte, saprei bene però assorbirle in un’immagine e dar loro un significato. Che viene a dire come il primo fondamento della poesia sia l’oscura coscienza del valore dei rapporti, quelli biologici magari, che già vivono una larvale vita d’immagine nella coscienza prepoetica.
Certamente dev’essere possibile, anche per me, far poesia su materia non piemontese di sfondo. Dev’essere, ma sinora non è stato quasi mai. Ciò significa che non sono ancora uscito dalla semplice rielaborazione dell’immagine materialmente rappresentata dai miei legami d’origine con l’ambiente: che, in altre parole, c’è nel mio lavorio poetico, un punto morto, gratuito, un sottinteso materiale, di cui non mi riesce di far senza. Ma è poi davvero un residuo oggettivo o sangue indispensabile?
11 ottobre.
Che tutte le mie immagini non siano altro che uno sfaccettamento ingegnoso dell’immagine fondamentale: quale il mio paese tale io? Il poeta sarebbe un’immagine impersonata, inscindibile dal termine di paragone paesistico e sociale del Piemonte.
L’essenza della sua parola importerebbe che lui e il suo paese visti in funzione reciproca sono belli. Tutto qui? Questo il fatal di Quarto?
O non piuttosto scorrono semplicemente tra me e il Piemonte relazioni, alcune coscienti e altre inconsce, che io oggettivo e drammatizzo come posso in immagini: in immagini-racconto? E cominciano queste relazioni dalla materiale simpatia del sangue col clima e il vento, e finiscono nella faticosa corrente spirituale che agita me e gli altri piemontesi? Ed io esprimo le cose spirituali con racconti di cose materiali e viceversa? E questo lavorio di sostituzione, di allusione, di immagine, vale in quanto segno della allusiva e all-pervading essenza nostra?
Contro il sospetto che il mio sia un Piedmontese Revival, sta la buona volontà di credere a un possibile allargamento dei valori piemontesi. La giustificazione? Questa: non è letteratura dialettale la mia — tanto lottai d’istinto e di ragione contro il dialettismo — ; non vuole essere bozzettistica — e pagai d’esperienza — ; cerca di nutrirsi di tutto il miglior succo nazionale e tradizionale; tenta di tenere gli occhi aperti su tutto il mondo ed è stata particolarmente sensibile ai tentativi e ai risultati nordamericani, dove mi parve di scoprire un tempo un analogo travaglio di formazione. O forse il fatto che ora non m’interessa piú per nulla la cultura americana, significa che ho esaurito questo punto di vista piemontese? Credo di sí; almeno, il punto di vista come l’ho tenuto finora.
15 ottobre.
Eppure ci vuole un nuovo punto di partenza. Essendosi la mente abituata a un certo meccanismo di creazione, è necessario uno sforzo altrettanto meccanico per uscirne e sostituire ai monotoni frutti spirituali, che si riproducono, un nuovo frutto che sappia di ignoto, di innesto inaudito. Non che occorra sostituire al lavorio mentale un impulso dall’esterno, ma trasformare corporalmente la materia e i mezzi per trovarsi di fronte a problemi nuovi; avuto il punto di partenza, s’intende che lo spirito riprenderà tutto il suo gioco. Senza questo scatto materiale, non posso uscire dalla pigra e anch’essa quindi materiale riduzione abitudinaria di ogni situazione in schema e sensibilità d’immagine-racconto. Occorre un intervento dall’esterno per mutar direzione all’istinto diventato cosa esterna e quindi prepararlo a nuove scoperte.
Se veramente questi quattro anni di poesia li ho vissuti, tanto meglio: ciò non potrà che giovarmi con una maggiore incontestabilità e un miglior senso dell’espressione. Le prime volte, mi parrà di essere ritornato ai miei tempi arcaici e mi parrà anche di non aver nulla da dire. Ma non debbo dimenticare com’ero smarrito prima dei Mari del Sud e come il mio mondo lo presi a conoscere via via che lo creavo. Non prima. Non però che manchi un peggioramento di difficoltà, oggi. In Lavorare stanca entrava tutta la mia esperienza fin dal giorno in cui apersi gli occhi, ed era tanta la gioia di scavare al sole il mio primo oro, che non sentivo monotonia. Tutto allora in me era da scoprire. Ora, che ho saccheggiato la vena, mi sono troppo esausto e ben definito per avere ancora la forza di gettarmi su uno scavo con grandi speranze. Il paese è tutto sondato e misurato, e la mia originalità so in che consiste. Inoltre, negli innumerevoli tentativi prepoetici lasciai appunto cadere, sgualcendoli, i modi del racconto in prosa e del romanzo. Conosco troppo gli ostacoli di questa strada, cui ho tolto anche la gioia tonificante del primo contatto. Eppure bisogna percorrerla.
16 ottobre.
Espresso ormai, secondo l’intenzione, il parallelo soddisfatto tra me e Piemonte, quale sarà la nuova atmosfera della mia poesia? Il nuovo valore, astratto ed empirico insieme, che potrà unificare i vari pezzi isolati? Fare un libro di una raccolta?
Quest’atmosfera e valore dev’essere tale da giustificarmi nella storia. Ora, a che cosa di storico credo io attualmente? Forse alle rivoluzioni? Ma, tralasciando che non si è cavato mai buona poesia dall’idea di una rivoluzione in atto, io non mi entusiasmo per loro se non a fior di pelle. Naturalmente non si tratterebbe di descrivere i tumulti, l’oratoria, il sangue e i trionfi, ma di vivere nell’atmosfera morale della rivoluzione, e di qui contemplare e giudicare la vita. Provo io questo rinnovamento morale? No, ed ho anzi sinora rivelato una tendenza a celebrare nella vita piuttosto le facoltà statiche goditrici che non quelle attive rinnovatrici. L’incapacità quindi a fare il gran passo rinnovatore, dopo il quale potrei s’intende giudicare e godere la vita, nella nuova atmosfera quanto piú contemplativamente mi piacesse. Non posso che sperare di incontrarmi in altri valori storici che non siano le rivoluzioni violente e, di questi, secondo le mie facoltà, fare immagini.
Che è molto ragionevole. A sentire, non esistono ora che gli impulsi alle rivoluzioni violente. Ma tutto nella storia è rivoluzione; anche un rinnovamento, una scoperta impercettibili e pacifici. Via quindi anche il preconcetto oratorio del rinnovamento morale che ha bisogno (magari da parte di altri, gli attivi) detrazione violenta. Via questo bisogno infantile di compagnia e di fracasso. Io devo contentarmi della minima scoperta contenuta in ogni singola poesia, e mostrare il mio rinnovamento morale nell’umiltà con cui mi sottopongo a questo destino, che è la mia natura. Che è molto ragionevole. Se non è però pigrizia o vigliaccheria.
17 ottobre.
Avendo ripreso stamattina e finito la poesia della lepre, di cui, appunto per via della lepre, disperavo, mi sento una tal quale baldanza a perseverare nello sforzo inglorioso. Mi pare davvero di avere acquistato un istinto tecnico tale che, senza pensarci deliberatamente, ormai le mie fantasie mi escon fuori immaginate secondo quella fantastica legge che nominavo il 10 ottobre. E questo ho gran paura voglia dire che è ora di cambiar musica, o almeno, strumento. Se no, arrivo al punto che prima ancor di comporre la poesia, ne abbozzo il saggio critico. E diventa un affare burlesco come il Letto di Procuste.
Ed ecco trovata la formula per l’avvenire: se un tempo mi dannavo l’anima a creare un misto dei miei lirismi (apprezzati per foga passionale) e del mio stile epistolare (apprezzabile per controllo logico e immaginoso) e il risultato furono i Mari del Sud con tutta la coda; ora debbo trovare il segreto di fondere la fantastica e sentenziosa vena del Lavorare stanca con quella, pazzerellona e realisticamente intonata a un pubblico, della pornoteca3. Ed è indubitato che ci vorrà la prosa.
Perché una cosa sola (tra le molte) mi pare insopportabile all’artista; non sentirsi piú all’inizio.
19 ottobre.
Rileggendo il 16 ottobre, penso che appunto perché espressi già il parallelo tra me e il Piemonte, nella mia poesia futura questo elemento non dovrà piú mancare. Poiché immagino che nessuna mia ricerca possa perdersi e il progresso consista in un sempre piú comprensivo macinare esperienze, gettando le nuove sulle vecchie.
21 ottobre.
«...sicut nunc foemina quaeque
cum peperit, dulci repletur lacte...»
27 ottobre.
«in gremium matris terrae praecipitavit».
28 ottobre.
Comincia la poesia quando uno sciocco dice del mare «Sembra olio». Non è affatto una piú esatta descrizione della bonaccia, ma il piacere di avere scoperto la somiglianza, il solletico di un misterioso rapporto, il bisogno di gridare ai quattro venti che si è notato.
È però altrettanto sciocco fermarsi qui. Cominciata cosí la poesia, bisogna finirla e comporre un ricco racconto di rapporti che equivalga abilmente a un giudizio di valore.
Questa sarebbe la poesia tipica, l’idea. Ma solitamente le opere sono fatte di sentimento — la esatta descrizione della bonaccia che a tratti spumeggia in scoperte di rapporti. Può darsi che la poesia tipica sia irreale e — come noi viviamo anche di microbi — quel che si è fatto sinora consti di puri pezzi mimetici (sentimento) di pensieri (logica) e di rapporti alla bell’e meglio (poesia). Una combinazione piú assoluta sarebbe forse irrespirabile e sciocca4.
1° novembre.
È interessante l’idea che il sentimento in arte sia il puro pezzo mimetico, l’esatta descrizione della bonaccia. Una descrizione cioè, fatta con termini proprii, senza scoperte di rapporti immaginosi e senza intrusioni logiche.
Ma se è concepibile una descrizione che non conti immagini (che forse la natura stessa del linguaggio nega), può darsi una descrizione al di qua del pensiero logico? Non è già espressione di giudizio osservare che l’albero è verde? O se pare ridicolo trovare un pensiero in simile banalità, dove finisce la banalità e comincia il vero giudizio logico? Rimando a miglior filosofo il secondo capoverso. Mi pare comunque esatto che sentimento sia il descrivere propriamente. Adoperare le commozioni per scoprirvi rapporti è infatti già elaborare razionalmente queste esperienze.
E com’è che la natura del linguaggio nega la possibilità di non usare immagini? Che verde scenda da vis, e alluda alla forza della vegetazione, è un bel rapporto e indiscutibile; ma anche indiscutibile è la semplicità attuale di questa parola e il suo richiamarsi immediato a un’unica idea. Che arrivare significasse una volta approdare, e all’inizio fosse fare un’immagine nautica dire che l’inverno arrivava, non toglie l’assoluta obiettività della stessa osservazione fatta adesso. Era quindi stupida la mia parentesi. E mangiamo le noci.
9 novembre.
La ricerca di un rinnovamento è legata alla smania costruttiva. Ho già negato valore poetico d’insieme al canzoniere che pretenda a poema, eppure penso sempre come disporre le mie lirichette, onde moltiplicarne e integrarne il significato. Torna a parermi di non far altro che presentare degli stati d’animo. Torna a mancarmi dinanzi il giudizio di valore, la revisione del mondo.
Certo è che la collocazione calcolata delle poesie nel canzoniere-poema non risponde altro che a una compiacenza decorativa e riflessa. Cioè, date le poesie dei Fleurs du Mal, che esse siano disposte cosí o cosí, può essere leggiadro e chiarificatore, critico magari, ma niente piú. Date le poesie come già composte, ma il fatto che Baudelaire le abbia composte cosí ad una ad una convincenti e avvincenti nel loro insieme come un racconto, non potrebbe derivare dalla concezione morale, giudicante, esauriente del loro tutto?5. Forse che una pagina di Divina Commedia perde il suo valore intrinseco di nota di un tutto, se divelta dal poema o spostata?
Ma, rimettendo a miglior tempo l’analisi del’unità della Commedia, è possibile dare un valore d’appartenenza-a-un-insieme a una poesia concepita a sé, secondo il frutto di un’ispirazione? Che poi Baudelaire non concepisse a sé una poesia, ma la pensasse in addentellato con le altre, non mi pare verosimile.
C’è altro. Dato che una poesia non è chiara all’autore nel suo significato piú profondo se non quand’è tutta compiuta, com’è possibile a questo costruire il libro se non riflettendo sulle poesie già fatte? Il canzoniere-poema è dunque sempre un aftertbought. Resta però sempre l’obiezione che è pure stato possibile concepire come un tutto — lasciamo stare la Commedia — ma certo i drammi shakespeariani. Bisogna dirlo: l’unità di queste opere proviene proprio dalla realistica persistenza del personaggio, dal naturalistico svolgersi del fatto, che avendo luogo in una non frivola coscienza perde la sua materialità e acquista significato spirituale, diviene stato d’animo.
10 novembre.
Perché chiedo sempre alle mie poesie il contenuto esauriente, morale, giudicante? Io che non mi capacito che l’uomo giudichi l’uomo? La mia pretesa non è altro che un volgare voler dire la mia. Che dista molto dal distribuire la giustizia. Rendo io giustizia nella mia vita? M’importa qualcosa della giustizia nelle cose umane? E allora perché la pretendo pronunziata in quelle poetiche?
Se figura c’è nelle mie poesie, è la figura dello scappato di casa che ritorna con gioia al paesello, dopo averne passate d’ogni colore e tutte pittoresche, pochissima voglia di lavorare, molto godendo di semplicissime cose, sempre largo e bonario e reciso nei suoi giudizi, incapace di soffrire a fondo, contento di seguir la natura e godere una donna, ma anche contento di sentirsi solo e disimpegnato, pronto ogni mattino a ricominciare: i Mari del Sud insomma.
12 novembre.
Ciò che precede può essere una generalizzazione. Bisognerebbe fare l’inventario delle poesie del libro, quali non entrano nel quadro tracciato. È evidente che non sarà divario di vicende a differenziare i gruppi, tanto piú che il mio protagonista «ne passa d’ogni colore», ma divario nel sentire, per esempio: capacità di soffrire a fondo, insofferenza della solitudine, scontento della natura, cautela e malignità. L’unico di questi proposti atteggiamenti che trovo eccezionalmente già realizzato è l’impazienza della solitudine nel rispetto sessuale (Maternità e Paternità). Ma presento che la via nuova non sarà né nel senso corso già in lungo e in largo né nei vari «non» escogitati per opposizione; ma nello sfruttamento di qualche modo laterale che, conservando il personaggio già realizzato, sposti insensibilmente gli interessi e l’esperienza. Questo è accaduto al tempo di Una stagione, quando, interessandomi della vita carnale sin allora spregiata, ho conquistato un nuovo mondo di forme (balzo dai Mari del Sud al Dio caprone). È sterile insomma la ricerca di un nuovo personaggio, fecondo l’interesse umano dell’antico personaggio per nuove attività.
16 novembre.
Il problema estetico, mio e dei miei tempi, piú urgente è senz’altro quello dell’unità di un’opera di poesia. Se si debba accontentarsi dell’empirico legame accettato nel passato o spiegare questo legame come una trasfigurazione di materia in spirito poetico o cercare un nuovo principio ordinatore della sostanza poetica. Hanno sentito questo problema e hanno negato i tre punti suddetti i polverizzatori odierni della poesia, i poeti di precisione. Bisogna tornare alla poesia di situazione. Accettando tali e quali le situazioni del passato o dando una nuova spirituale maniera di situare i fatti?
La nuova maniera che io credevo di avere attuato — l’immagine-racconto — mi pare ora non valga piú di un qualunque mezzo retorico ellenistico. Una semplice trovata, cioè, del genere della ripetizione o dell’in medias res, che ha un’occasionale grande efficacia, ma non basta a costituire una visuale sufficiente.
17 novembre.
Standone lontano, comincio a inventare (frequentativo di invenire) una funzione condizionatrice dell’arte proprio nel Piemonte e centralmente in Torino. Città della fantasticheria, per la sua aristocratica compiutezza composta di elementi nuovi e antichi; città della regola, per l’assenza assoluta di stonature nel materiale e nello spirituale; città della passione, per la sua benevola propizietà agli ozi; città dell’ironia, per il suo buon gusto nella vita; città esemplare, per la sua pacatezza ricca di tumulto. Città vergine in arte, come quella che ha già visto altri fare l’amore e, di suo, non ha tollerato sinora che carezze, ma è pronta ormai se trova l’uomo, a fare il passo. Città infine, dove sono nato spiritualmente, arrivando di fuori: mia amante e non madre né sorella. E molti altri sono con lei in questo rapporto. Non le può mancare una civiltà, ed io faccio parte di una schiera. Le condizioni ci sono tutte.
24 novembre.
Mi pare di scoprirla la nuova vena. Si tratterebbe della contemplazione inquieta di cose, sia pure, piemontesi. M’accorgo che prima lavoravo di contemplazioni trasognate (Mari del Sud, Paesaggio a Tina, Ritratto d’autore) e che, non solo dopo il 15 maggio, ma già in cose precedenti di quest’anno (Lavorare stanca, Ulisse, Avventure, Esterno) entravano un tremore, una tristezza, una sofferenza, prima ignoti o duramente coartati. Va da sé che, dopo il maggio-agosto, questa è diventata la regola. Fonde insieme, questa nuova ricerca, toni piú trepidi, piú spirituali, e una rinnovata materialità passionale di sicura promessa. Che siano i miei whispers of heavenly death? Ad ogni modo, per avere un’idea chiara del passaggio, confrontare il Paesaggio del fucile con la Luna d’agosto: ciò che nel primo era spiritualizzazione di scena tutta descrittiva, nel secondo è veramente creazione di un mistero naturale intorno a un’angoscia umana.
5 dicembre.
Deve avere qualche significato il fatto che, scoprendo la mia maniera, non mi sono per nulla aiutato con la facilità della materia sessuale. Mari del Sud, Antenati, Fumatori di carta, ignorano questa vena. E se entravo nell’argomento, era in modo sdegnoso e saputo (ricordare Donne Perdute, il Blues dei blues, Maestrine). Cominciò la nuova preoccupazione con Canzone di Strada e Tradimento, in forma di vivida descrizione di esperienze sensoriali. Finché scoppiò come nuova materia proiettata nel mondo in Una stagione. Qui l’argomento era proprio l’importanza e la all-pervadingness del sesso, la riduzione di tutte le esperienze sensoriali a equivalenti del sesso («il vento di marzo sui vestiti»). Un ritorno all’abbassamento malizioso delle sensazioni sessuali può essere una via d’uscita dal pantano di abitudinaria facilità descrittiva attuale. Come andranno però d’accordo questa malizia sessuale con l’ inquietudine contemplativa segnalata il 24 novembre? A prima vista parrebbe che malizia e inquietudine contrastassero.
6 dicembre.
Bestemmiare, per quei tipi all’antica che non sono perfettamente convinti che Dio non esista, ma, pure infischiandosene, se lo sentono ogni tanto tra carne e pelle, è una bella attività. Viene un accesso d’asma e l’uomo comincia a bestemmiare con rabbia e tenacia: con la precisa intenzione di offendere questo Dio eventuale. Pensa che dopotutto, se c’è, ogni bestemmia è un colpo di martello sui chiodi della croce e un dispiacere fatto a colui. Poi Dio si vendicherà — è il suo sistema — farà il diavolo a quattro, manderà altre disgrazie, metterà all’inferno, ma capovolga anche il mondo, nessuno gli toglierà il dispiacere provato, la martellata sofferta. Nessuno! È una bella consolazione. E certo ciò rivela che dopotutto questo Dio non ha pensato a tutto. Pensate: è il padrone assoluto, il tiranno, il tutto; l’uomo è una merda, un nulla, e pure l’uomo ha questa possibilità di farlo irritare e scontentarlo e mandargli a male un attimo della sua beata esistenza. Questo è davvero il «meilleur témoignage que nous puissions donner de notre dignité». Come mai Baudelaire non ci ha fatto sopra una poesia?
7 dicembre.
Va approfondita l’affermazione che il segreto di molta grande arte stia negli impedimenti che, sotto forma di regole, il gusto contemporaneo impone. Le regole d’arte, proponendo un ideale definito da raggiungere, dànno all’artista uno scopo che impedisce il lavorío a vuoto dell’ingegno. Bisogna però aggiungere che mai il valore delle opere sta per noi nelle regole osservate, ma — vista l’eterogeneità dei fini — in strutture cresciute sotto mano all’artista durante la sua ricerca di ciò che la regola — il gusto — richiede. L’ingegno surriscaldato da un gioco razionale, qual è il tentativo di raggiungere certi risultati reputati di valore, supera l’astratto valore di convenzione di essi «gusti» e crea rapitamente nuove architetture. Senza saperlo; e ciò è logico, se si pensa che il segreto di una struttura artistica sfugge al creatore finché, chiarendosela, egli non le tolga interesse. Cosí risolvo il bisogno di «intelligenza» in arte: c’è applicazione cosciente di essa, ma soltanto a quegli scopi contemporanei che, valendo per l’artista e per i tempi, vanno fusi poi nella eruzione di poesia nata dal surriscaldamento dell’ingegno. L’artista lavora di cervello a scopi che perderanno valore davanti ai posteri; ma, cosí facendo, il suo «cervello» crea precriticamente nuove realtà intellettuali. Esempio: la smania del «conceit» tra gli elisabettiani e il risultato shakespeariano dell’immagine-racconto. Il gusto dell’esempio concreto nel mondo scientifico classico e la risultante visione cosmica di Lucrezio.
15 dicembre.
Quanto a me, la composizione di una poesia avviene in un modo che — se non me lo mostrasse l’esperienza — mai avrei creduto. Muovendomi intorno a un’informe situazione suggestiva, mugolo a me stesso un pensiero, incarnato in un ritmo aperto, sempre lo stesso. Le diverse parole e i diversi legamenti colorano la nuova concentrazione musicale individuandola. E il piú è fatto. Non resta ora che ritornare su questi due, tre, quattro versi, quasi sempre già a questo stadio definitivi e iniziali e tormentarli, interrogarli, adattare loro svariati sviluppi, finché càpito su quello giusto. La poesia è tutta da estrarre dal nucleo che ho detto. E ogni verso che si aggiunge lo determina sempre meglio ed esclude un numero sempre maggiore di errori fantastici. Sinché le possibilità intrinseche del punto di partenza sono tutte individuate e svolte secondo le mie forze; via via si sono andati formando sotto la penna nuovi nuclei ritmici, identificabili nelle varie singolari «immagini» del racconto; e giungo, svogliatamente perché l’interesse sta ormai finendo, all’ultimo verso conclusivo, quasi sempre disteso e riposato e riconnesso all’inizio e ricapitolante allusivamente i vari nuclei. Che sia la cristallizzazione di Stendhal? Ho davanti un complesso ritmico — pieno di colori, di passaggi, di scatti e di distensioni — dove i vari momenti di scoperta, di passo avanti — i nuclei, insomma — si scambiano, s’illuminano, perennemente attivati dal sangue ritmico che scorre dappertutto. Ci fumo sopra e tento pensare ad altro, ma sorrido stimolato dal segreto.
16 dicembre.
Sia caso, non sia, spiegando il mio modo ho lasciato da parte l’immagine-racconto. Parlo di una situazione suggestiva: di nuclei, di sangue, di complessi ritmici. E dico che ogni nucleo è un’immagine nel racconto.
Di qui si vede chiaro che l’immagine-racconto non è stato altro che un tentativo di interpretazione tecnica della mia poesia; probabilmente un traslato esso stesso; comunque, non certo un programma attuale. Che le varie immagini, che «si scambiano e s’illuminano», siano il progressus di ciascuna poesia è uno stato di fatto, e lascia intentata la questione se la poesia sia racconto di immagini o non piuttosto gioco di immagini asservite a un nucleo primitivo d’importanza etica e ritmica. Non ci sarebbe piuttosto da svolgere una ricerca sulla sentenziosità (etica e ritmo) di queste poesie? È un fatto che piú sovente una mia pagina balza di immagine in immagine, si ubriaca di mugolio ritmico, gioca, per concludere poi (non importa se al fondo materiale) in una sentenza, in un proverbio che getta luce sul tutto. Se i gangli della composizione fossero i sayings e non i miti; per esempio, se nell’ultimo Paesaggio il punto non fosse sui cavalli o sullo scappato di casa, ma sul verso conclusivo?
Aggiungo che una delle mie poesie piú meramente immaginate - Grappa a settembre — finisce appunto con la massima che unifica tutte le immagini: «cosí le donne non saranno le sole a godere il mattino».
Che sinora mi sia sottilmente sbagliato?
18 dicembre.
Ma allora, se il punto delle mie poesie sta nella sentenza, variamente espressa o dissimulata, molte cose che teoricamente ricercavo, le avevo già ottenute. Il che, tra l’altro, dev’essere inequivocabilmente vero, se è vero che ho già composto qualche poesia che tocca il definitivo. Per esempio, ecco ottenuto il giudizio morale sulle cose di questo mondo, ecco la serietà di ragioni, ecco la rivincita sulla sensualità mera. Ecco l’universalità del mondo interiore espresso, che io temevo fosse un puro gioco letterario. Ecco tutto, insomma. Oggi è veramente la giornata bianca.
20 dicembre.
La vita senza fumo è come il fumo senza l’arrosto.
O poliziotti o delinquenti.
29 dicembre.
Dei due, poetare e studiare, trovo maggiore e piú costante conforto nel secondo. Non dimentico però che mi piace studiare in vista sempre del poetare. Ma in fondo il poetare è una ferita sempre aperta, donde si sfoga la buona salute del corpo.
1936
16 febbraio.
Il caso mi ha fatto cominciare e finire Lavorare stanca con poesie su Torino — piú precisamente, su Torino come luogo da cui si torna, e su Torino luogo dove si tornerà. Si direbbe il libro l’allargamento e la conquista di S. Stefano Belbo su Torino. Tra le molte spiegazioni del «poema» questa è una. Il paese diventa la città, la natura diventa la vita umana, il ragazzo diventa uomo. Come vedo, «da S. Stefano a Torino» è un mito di tutti i significati escogitabili per questo libro.
Altrettanto curioso è che le poesie composte dopo l’ultimo Paesaggio, tutte, parlano d’altro che non Torino. Il caso sembra volermi insegnare a trasformare la mia disgrazia in un deciso rivolgimento di poesia.
Sorpassare Torino e giochi connessi, significherà costruire un altro mondo, di cui le basi saranno, come sempre, un periodo ben determinato di dolore e di silenzio. Perché, qualunque cosa scriva in questi mesi di ozio febbrile, sarà sempre soltanto una «curiosità» per il futuro, cioè silenzio. Cadono in questi mesi molti valori del passato e si distruggono abitudini interiori, che — straordinaria fortuna — nulla per ora sostituisce. Debbo imparare a prendere questa rovina futile, questa faticosa inutilità come un benedetto dono — quale ne hanno soltanto i poeti — come un tendone davanti alla rappresentazione che dovrà poi ricominciare. Mi spiego. Ritorno a uno stato larvale d’infanzia, meglio d’immaturità, con tutte le rozzezze e le disperazioni del periodo. Ritorno l’uomo che non ha ancora scritto Lavorare stanca. Passare ore a rosicchiarmi le unghie, a disperare degli uomini, a disprezzare luce e natura, a temere per paure infantili e pure atroci, è un ritorno ai miei vent’anni. Quale mondo giaccia di là di questo mare non so, ma ogni mare ha l’altra riva, e arriverò. Mi disgusto ora della vita per poterla assaporare un’altra volta.
Quel che è certo, le poesie scritte ora — Parole, Altri tempi, Poetica, Mito, Semplicità, Un ricordo, Paternità, L’istinto, Tolleranza, U steddazzu — vanno spiritualmente con il Dio caprone, Balletto, Pensieri di Dina, Gelosia, Creazione, Dopo, Agonia e le dimenticate: sarà questo un libretto di Epaves, non l’opera del futuro.
Il futuro verrà da un lungo dolore e un lungo silenzio. Presuppone uno stato di tale ignoranza e smarrimento che sia umiltà, la scoperta insomma di nuovi valori, un nuovo mondo. L’unico vantaggio che avrò sui miei primi vent’anni sarà la mano fatta, l’inconscio istinto. Lo svantaggio, la messe precedente e l’esaurimento del fondo.
Però — che lo sappia — la nuova opera comincerà soltanto alla fine del dolore. Per ora non posso che almanaccare estetica, il problema dell’unità, e studiare domande per finire il dolore.
17 febbraio.
È bene rifarsi a Omero. Qual’è l’unità dei suoi poemi? Ogni libro ha una sua unità sentimentale, di posizione, per cui armonicamente, e fisicamente anche, lo si legge come un insieme. Libro VIII Odissea: il conforto della poesia, della danza, della gara; il canto, il mito aureo, scherzoso; la rivincita della nobiltà di vita, in un’oasi di godimento e di lacrime ideali. Libro X Odissea: l’avventura, il susseguirsi di ostacoli, il pianto umano e l’indurirsi. Libro III Iliade: la bella donna e la guerra per la donna, e l’amore snervante. E via. Pensava a queste definizioni Omero o chi per esso? Non credo, ma è rivelatore che il libro dove vive tutta la Grecia sia fatto in questo modo o, che è lo stesso, sia possibile interpretarlo cosí.
Ma stiamo attenti. Il grande fascino dei due poemi è l’unità materiale dei loro personaggi, che a volta a volta si accende in queste conflagrazioni di poesia. Abbiamo cioè, fin dal primo esempio di grande poesia intenzionale, questo doppio gioco: naturale svolgersi di casi (che potrebbero anche essere il doppio o la metà, senza danno) e successive ed organiche illuminazioni poetiche. Il racconto cioè, e la poesia. L’unione dei due elementi non è piú che abilità.
Ora si apre il problema se, in poesie separate, non sia possibile rifare il miracolo; non per altra ragione che tendendo sempre la mente all’unità in tutte le sue manifestazioni. Comporre secondo l’estro, ma con sotterranea abilità far concorrere i vari pezzi a un poema.
Il modo piú semplice parrebbe quello di conservare uno stesso elemento protagonista nelle successive poesie. E questo non va, perché allora sarebbe meglio fare senz’altro il poema raccontato, cosa dimostrata assurda.
Resta, di rintracciare in un gruppo di poesie le sottili, e quasi sempre segrete, corrispondenze di argomento (materiale unità) e di illuminazione (unità spirituale).
Rintracciare vuol dire mettercele componendo; e i modi sono: abituarsi a considerare la natura (mondo di argomenti) un tutto ben determinato, cedere giudiziosamente agli echi e richiami da poesie precedenti, cercare insomma gli argomenti a testa fredda calcolandone il posto e abbandonarsi intuitivamente a testa calda all’ondata ritmica del passato. Dirsi, componendo una poesia: scopro un altro lembo del mondo che già in parte conosco, aiutarsi a questa scoperta con richiami al già noto, sorvegliare insomma quanto è buono e giusto il proprio passato. Non pretendere mai di fare il salto nell’ignoto, di rinascere di colpo un mattino. Utilizzare le cicche della sera prima e convincersi che il tempo il prima e il poi — è soltanto una fissazione. Ma soprattutto non fare mai il serpente, non rigettare mai la pelle: poiché, che cosa ha l’uomo di proprio, di vissuto, se non ciò ch’è appunto già vissuto? Ma tenersi in equilibrio, perché che cosa ha l’uomo da vivere, se non appunto ciò che ancora non vive?
Altro punto interessante in Omero sono gli appellativi e i versi ritornanti: tutto ciò insomma che costituisce in ciascun caso un nervo lirico di indiscutibile valore, e ogni volta viene trascritto, uguale o press’a poco, senza darsi pena di rivedere la primitiva intuizione. (Anche qui, non vale la verità che si tratti di lingua poetica, di gergo consacrato, di frasi diventate nell’uso un vocabolo solo, di cristallizzazioni ieratiche d’un sentimento. Sarà, anzi è; ma a me fanno un altro effetto ed ho ogni diritto di ragionarci come fossero una scelta deliberata di Omero. Non conta l’intenzione sua, conta quel che ci vedo io, lettore).
Credo, perciò, si tratti di un modo tecnico molto importante, da cui ottenere parte dell’unità dei singoli libri. Non so se ogni lettore abbia notato come ciascun libro ha la caratteristica di un certo gruppo di appellativi e di versi ritornanti a lui riservati. Parrebbe che la materialità di certi gesti, di certe figure, di certi ritorni si colori, in questo modo, di poesia — sia pure mnemonica e cristallizzata — per nascondere la obbligata povertà inventiva. Che insomma il primo Greco abbia senz’altro sentita l’opposizione tra racconto e poesia, e si sforzi cosí — per il nostro gusto, ingenuamente — di colmarla. Va da sé che mutando libro muta pure ma non sempre, si capisce — il tono dei ritorni, data la singolare colorazione o se vogliamo, fissazione di ciascun libro.
Concludendo, un modo per ottenere l’unità, è la ricorrenza di certe formule liriche che ricreino il vocabolario, trasformando un appellativo o frase in semplice parola. Di tutti i modi di inventare la lingua (l’opera del poeta) questo è il piú convincente e, a pensarci, il solo reale. E spiega come in tutta quella parte dell’opera, dove ricorrano le formule uguali, circoli un’aria di unità: è lo stess’uomo — inventore — che parla.
23 febbraio.
Piú ci penso e piú mi appare notevole il fare omerico del libro-unità. A uno stadio, che tutto dovrebbe far supporre incline all’uniformità, si rivela invece il gusto dell’arazzo circoscritto e variegato, lo studio dell’unità differenziata. È, in realtà, uno scrittore di novelle variamente condizionate (l’amore, la passione eroica, l’avventura, la guerra, l’idillio, il ritorno, il mondo gaudente, il gusto sociale, la vendetta, l’ira, ecc.). In questo è come i consorti Dante e Shakespeare: potenti, favolosi costruttori che si deliziano del particolare, sentito fino allo svolazzo, che respirano tutta la vita a regolari e perfetti respiri quotidiani. Soprattutto, essi non sono gli uomini del grido improvviso e monotono, che erompe dall’esperienza e la sottintende e la unifica in una sensazione; ma veggenti benparlanti, tutti cose, tranquilli e impassibili suscitatori della varietà, i sornioni dell’esperienza, che la sfaccettano in figure come a gioco, finendo a sostituirla, astutissimi. Mancano soprattutto d’ingenuità.
Cosí intesi, i creatori appaiono bene condizionati a quel lavoro di grandiosa e sottilissima abilità, astuzia, che si richiede a soddisfare il gioco di ponte tra racconto e poesia. Sono mirabili nel compromesso, l’arte tutta sociale e prudenziale dell’esperienza. Invece di derivare una grandezza dalla violenza del sentire, essi la derivano dall’arte del saper vivere. Questa base biografica è l’unica cosa che abbiano in comune i lirici e i creatori. Ma mentre per i lirici tutto si estingue in questa violenza, per essi, per i maestri, il saper vivere è un’arte che semplicemente giova a tornire il materiale umano, liberato a sé, ripulito, ultimato: posto a disposizione di tutti. Cosí essi scompaiono nell’opera, mentre i lirici vi si sfigurano.
28 febbraio.
C’è un parallelo tra questo mio anno e la considerazione della poesia. Come la sofferenza atroce non l’ho avuta nei grandi momenti (15 maggio, 15 luglio, 4 agosto, 3 febbraio), ma in certi lassi furtivi dei periodi intermedi; l’unità del poema non consiste nelle scene-madri, ma nella sottile corrispondenza di tutti gli attimi creativi. Vale a dire, l’unità non deve tanto alla costruzione grandiosa, all’ossatura identificabile della trama quanto all’abilità scherzosa dei piccoli contatti, delle riprese minute e quasi illusorie, alla trama dei ritorni insistenti sotto ogni diversità.
Che cosa soffro di lei? Il giorno che alzava il braccio sul corso asfaltato, il giorno che non venivano ad aprire e poi è comparsa con i capelli scossi, il giorno che parlava piano con lui sull’argine, le mille volte che mi ha fatto fretta. Ma questa non è piú estetica, sono lamenti. Volevo elencare i bei minuti ricordi, e non ricordo che spasimi.
Via, servono lo stesso. La mia storia di lei non è dunque fatta di grandi scene, ma di sottilissimi momenti interiori. Cosí un poema deve essere. È atroce questa sofferenza.
15 marzo.
Finito confino.
Note
- ↑ La poesia che apre il volume Lavorare stanca [N. d. E.].
- ↑
Sul manoscritto leggiamo: sfoghi [N. d. E.]. svaghi - ↑ Sulla «pornoteca» cfr. ne Il mestiere di poeta, in appendice a Lavorare stanca, p. 163 [N. d. E.].
- ↑ Le parole e sciocca sono aggiunte a matita [N. d. E.].
- ↑ Sottolineato con matita blu [N. d. E.].