Il mestiere di vivere/1936 (10 aprile)

1936 (10 aprile)

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Secretum professionale 1937

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1936

10 aprile1.

Quando un uomo è nel mio stato non gli resta che fare l’esame di coscienza.

Non ho motivo di rifiutare la mia idea fissa che quanto accade a un uomo è condizionato da tutto il suo passato; insomma, è meritato. Evidentemente, le ho fatte grosse per trovarmi a questo punto.

Anzitutto, leggerezza morale. Mi sono mai posto davvero il problema di che debbo fare secondo coscienza? Ho sempre seguito impulsi sentimentali, edonistici. Su questo non c’è dubbio. Persino il mio misoginismo (1930-1934) era un principio voluttuario: non volevo seccature e mi compiacevo della posa. Quanto questa posa fosse invertebrata si è visto poi. E anche nella questione del lavoro, sono mai stato altro che un edonista? Mi compiacevo del lavoro febbrile a scatti, sotto l’estro dell’ambizione, ma avevo paura, paura di legarmi. Non ho mai lavorato davvero e infatti non so nessun mestiere. E si vede chiara anche un’altra magagna. Non sono stato mai il semplice incosciente, che gode le sue soddisfazioni e se ne infischia. Sono troppo vile per questo. Mi sono sempre carezzato con l’illusione di sentire la vita morale, passando attimi deliziosi — è la parola giusta — a farmi dei casi di coscienza, senza risoluzione di risolverli nell’azione. Se poi non voglio dissotterrare la compiacenza che un tempo provavo nell’avvilimento morale a scopo estetico, sperandone una carriera da genio. E questo tempo non l’ho poi ancora superato. [p. 34 modifica]

Alla prova. Ora che ho raggiunta la piena abiezione morale, a che cosa penso? Penso come sarebbe bello se quest’abiezione fosse anche materiale, avessi per esempio le scarpe rotte.

Soltanto cosí si spiega la mia vita attuale da suicida. E so che per sempre sono condannato a pensare al suicidio davanti a ogni imbarazzo o dolore. È questo che mi atterrisce: il mio principio è il suicidio, mai consumato, che non consumerò mai, ma che mi carezza la sensibilità.

Il terribile è che tutto quanto mi resta ora non basta a raddrizzarmi perché nell’identico stato — a parte i tradimenti — c’ero già stato in passato e già allora non avevo trovato nessuna salvezza morale. Nemmeno questa volta mi indurirò, è chiaro.

Eppure — o che l’infatuazione mi inganna, ma non credo avevo trovato la via della salvezza. E con tutta la debolezza ch’era in me, quella persona mi sapeva legare a una disciplina, a un sacrificio, col semplice dono di sé. E non credo che questa fosse la virtú di Pierino, perché il dono di lei mi alzava all’intuizione di nuovi doveri, me li rendeva corpo dinanzi. Perché abbandonato a me, ne ho fatta l’esperienza, sono certo di non riuscirci. Fatto una carne e un destino con lei, ci sarei riuscito, ne sono altrettanto certo. Anche per la mia stessa viltà: sarebbe stato un imperativo al mio fianco.

Invece, che cosa ha fatto! Forse lei non lo sa, o se lo sa non gliene importa. Ed è giusto perché lei è lei ed ha il suo passato che le traccia l’avvenire.

Ma ha fatto questo. Che io ho avuto un’avventura, durante la quale sono stato giudicato e dichiarato indegno di continuare. Davanti a questo tracollo non è assolutamente piú nulla il rimpianto dell’amante che pure è cosí atroce, o la rovina della posizione, che pure è grave.

Si confonde, il senso di questo tracollo, con la martellata che nel 1934 aveva cessato di picchiarmi: via l’estetica, via le pose, via il genio, via tutte le balle, ho mai fatto qualcosa io nella vita che non fosse da fesso?

Da fesso nel senso piú banale e irrimediabile, da uomo che non sa vivere, che non è cresciuto moralmente, che è vano, che si sorregge col puntello del suicidio, ma non lo commette. [p. 35 modifica]

20 aprile.

Vediamo se anche di qua si può cavare una lezione di tecnica.

La solita — banale, ma non ancora penetrata. È sommamente voluttuoso abbandonarsi alla sincerità, annullarsi in qualcosa di assoluto, ignorare ogni altra cosa; ma appunto — è voluttuoso — cioè, bisogna smettere. Se una cosa dovrebbe ormai essermi chiara, è questa: ogni fregata da me presa, è originata dal mio abbandono voluttuoso all’assoluto, all’ignoto, all’inconsistente. Non ho ancora compreso quale sia il tragico dell’esistenza, non me ne sono ancora convinto. Eppure è tanto chiaro: bisogna vincere l’abbandono voluttuoso, smettere di considerare gli stati d’animo quali scopo a se stessi.

Per un poeta è difficile. O anche molto facile. Un poeta si compiace di sprofondarsi in uno stato d’animo e se lo gode — ecco la fuga dal tragico. Ma un poeta dovrebbe non dimenticare mai che uno stato d’animo per lui non è ancor nulla, che quanto conta per lui è la poesia futura. Questo sforzo di freddezza utilitaria è il suo tragico.

Che occorra vivere tragicamente e non voluttuosamente, è provato da quanto ho patito sinora. Anzi, da quanto ho inutilmente patito. Mi ha aperto gli occhi la rilettura delle poesie del ’27. Ritrovare in quella sbrodolata e napoletana ingenuità, gli stessi pensieri e le stesse parole di questo mese scorso mi ha atterrato. Nove anni sono passati ed io rispondo ancora tanto infantilmente alla vita? E quella virilità che pareva cosa mia duramente conquistata negli anni del lavoro, era tanto inconsistente?

Meno che ad ogni altra cosa, la colpa di tale insufficienza va alla poesia. La poesia, se mai, mi ha insegnato a dominarmi, a raccogliermi, a veder chiaro; la poesia mi ha reso, nel piú pratico dei sensi. La colpa va alla sognería, cosa molto diversa, e nemica della buona arte. Va al mio bisogno di evitare le responsabilità, di sentire senza pagare.

Non è soltanto una similitudine il parallelo tra una vita di abbandono voluttuoso e il fare poesie isolate, piccole, una ogni tanto, senza responsabilità di insieme. Ciò abitua a vivere a scatti, senza sviluppo e senza principi.

La lezione è questa: costruire in arte e costruire nella vita, bandire il voluttuoso dall’arte come dalla vita, essere tragicamente. [p. 36 modifica] (Ciò non vieta, si capisce, di fare il porco ogni tanto, o il sonettuzzo e la novella; anzi, bisogna farlo. Solamente, ricordarsi che, per comporre una novella o una serata, non occorre scomodare cielo e terra).



Ciò spiegato e sottoscritto, è umano lasciarmi sfogare e meditare che torto piú grosso nessuno me lo aveva fatto mai. Non per la questione dell’amore — ne abbiamo le palle piene, dell’amore — ma per quell’altra ragione che proprio questa volta andavo cercando di pagare, di rispondere, di legarmi e limitarmi, di tragicizzare il voluttuoso insomma. È bene che mi sia accaduto il contrario: si proverà cosí se la mia virilità può riprendersi. È bene, è bene, ma pure è stata una grossa villania. E a pensarci sopra, a escludere volenterosamente ogni voluttuosa sognería e passione, chi può dire se la mia tortura non nasca proprio da questo, — che mi è stata fatta una cosa ingiusta, — una cattiva azione? E non si trova anche qui una lezione di tecnica, una poetica?

22 aprile.

La verità è che nulla del mondo mi è ancora passato attraverso lo spirito, proiettandosi in radiografia nella sua struttura di realtà costitutiva e metacorporea. Non sono ancora giunto al grigio e sempiterno scheletro che c’è sotto.

Ho veduto dei colori, annusato degli odori e carezzato gesti, contentandomi di una gioia elettrice e riordinatrice. Ho scherzato come con amici e goduto da solo.

Ho ignorato la parola pensata. Le mie parole furono soltanto sensazioni. I miei ritratti furono quadri, non drammi. Mi sono fissato su figure e le ho tanto rimuginate e contemplate, da riprodurne una trasfigurazione soddisfatta. Ho semplificato il mondo a una banale galleria di gesti di forza o di piacere. C’è lo spettacolo della vita in quelle pagine, non la vita. È tutto da ricominciare. [p. 37 modifica]

24 aprile.

Bisogna aver sentito la smania dell’autodistruzione. Non parlo del suicidio: gente come noi innamorata della vita, dell’imprevisto, del piacere di «raccontarla», non può arrivare al suicidio se non per imprudenza. E poi, il suicidio appare ormai come uno di quegli eroismi mitici, di quelle favolose affermazioni di una dignità dell’uomo davanti al destino, che interessano statuariamente, ma ci lasciano a noi.

L’autodistruttore è un tipo insieme piú disperato e utilitario. L’autodistruttore si sforza di scoprire entro di sé ogni magagna, ogni viltà, e di favorire queste disposizioni all’annullamento, ricercandole, inebriandosene, godendole. L’autodistruttore è in definitiva piú sicuro di sé di ogni vincitore del passato, egli sa che il filo dell’attaccamento all’indomani, al possibile, al prodigioso futuro è un cavo piú robusto — trattandosi dell’ultimo strattone che non so quale fede o integrità.

L’autodistruttore è soprattutto un commediante e un padrone di sé. Egli non lascia nessuna opportunità di sentirsi e di provarsi. È un ottimista. Spera ogni cosa dalla vita, e si va accordando a rendere sotto le mani del caso futuro i suoni piú acuti o significativi.

L’autodistruttore non può sopportare la solitudine.

Ma vive in un pericolo continuo; che lo sorprenda una smania di costruzione, di sistemazione, un imperativo morale. Allora soffre senza remissione, e potrebbe anche uccidersi.

Bisogna osservare bene questo: ai nostri tempi il suicidio è un modo di sparire, viene commesso timidamente, silenziosamente, schiacciatamente. Non è piú un agire, è un patire.

Chi sa se tornerà ancora al mondo il suicidio ottimistico?

Esprimere in forma d’arte, a scopo catartico, una tragedia interiore, può farlo soltanto l’artista che attraverso la tragedia vissuta già andava sottilmente tendendo i suoi fili costruttivi, già svolgeva incubazione creatrice insomma. Non esiste la tempesta sofferta [p. 38 modifica] pazzamente e poi la liberazione attraverso l’opera, pena il suicidio. Tant’è vero che gli artisti che veramente si sono uccisi per i loro tragici casi, sono solitamente leggeri cantori, dilettanti di sensazioni, che nulla accennarono mai nei loro canzonieri del profondo cancro che li rodeva. Da cui s’impara che l’unico modo di sfuggire all’abisso è di guardarlo e misurarlo e sondarlo e discendervi.

È di una desolatezza tonificante — come un mattino invernale — patire un’ingiustizia. Ciò rimette in vigore, secondo i nostri piú gelosi desideri, il fascino della vita; ridà il senso del nostro valore di fronte alle cose; adula. Mentre, soffrire per un puro caso, per una disgrazia, è avvilente. Ho provato, e vorrei che l’ingiustizia, l’ingratitudine fossero state ancora maggiori. Questo si chiama vivere e, a ventotto anni, non essere precoci.

Per l’umiltà. È cosí raro però soffrire una bella totalitaria ingiustizia. Sono cosí tortuosi i nostri atti. In genere, si trova sempre che un po’ di colpa ce l’abbiamo anche noi e addio mattino invernale.

Non solo un po’ di colpa, ma tutta la colpa, non c’è scampo. Sempre.

Che la coltellata venga tirata per scherzo, per ozio, da una persona fatua, non allevia le fitte, ma le rende piú atroci, disponendo a meditare sulla casualità della cosa e sulla propria responsabilità nel non aver preveduto la caduta.

Immagino che sarebbe un conforto sapere che la persona feritrice si macera di rimorsi, annette importanza alla cosa? Non può nascere da altro questo conforto che dal bisogno di non essere solo, di serrare legami tra il proprio io ed altri. Inoltre, se quella persona soffrisse il rimorso di aver straziato non me in particolare, ma soltanto un uomo in quanto creatura, desidererei questi suoi rimorsi? Bisogna quindi che proprio io, e non l’uomo che è in me, venga riconosciuto, rimpianto e amato. [p. 39 modifica]

E non si apre il campo a un’altra durevole tortura, ricordando che la persona feritrice non è fatua, oziosa e leggera? Ricordando che essa è solitamente seria, comprensiva, tesa, e che soltanto nel mio caso ha scherzato?

Non solo quella persona non soffre il rimorso di avere straziato me in particolare, ma si sente divertita proprio nel mio caso particolare. Non ci sarebbe che un modo di trovare umana la situazione, ed io mi sento nella situazione opposta. Sempre piú bello.

25 aprile.

Quest’oggi, niente.

26 aprile.

C’è poi anche il tipo che, piú cade a terra e dovrebbe pensare soltanto a rialzarsi, piú lui pensa a volare e se n’esalta. È anzitutto il gusto dei contrasti e l’abitudine di contemplarsi. Nessuno che non abbia il vizio di guardare a sé come a un altro — un importantissimo altro — può durante il dolore o la preoccupazione esaltarsi invece nel piacere e nella libertà.

Un uomo che ha vissuto dodici anni con un ideale — tanto piú se inconfessato — , quando viene il risveglio, si trova inevitabilmente compromesso col suo carattere e non sfugge piú all’abitudine di quell’ideale. Ora, tra le molte cose mostruose, bruttissima è l’abitudine di un ideale. E da tutto ci si corregge, non da questo. Potrà provare a mutare la direzione all’ideale, non altro.

Fortuna che di tutte le abitudini spirituali — passioni, deformazioni, compiacenza, serenità, ecc. — l’unica che sopravvive ai giorni è la calma. Tornerà.

Bisogna andare adagio a comunicare le scoperte psicologiche di perversità potenti a chi ignorava di essere tale; perché la prima vittima ne sarà lo scopritore veritiero. La vecchia storia del toro di Perillo. [p. 40 modifica]

Chi rivela a una donna l’essere potenziale di lei, ne sarà il primo cornuto.

È matematico. Appunto, matematico.

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Quale mezzo migliore per una donna che vuol fottere un uomo, se non portarlo in un ambiente non suo, vestirlo in un modo ridicolo, esporlo a cose di cui è inesperto, e — quanto a lei — avere nel frattempo altro da fare, magari quelle cose stesse che l’uomo non sa fare? Non solo lo si fotte davanti al mondo, ma — importante per una donna, che è l’animale piú ragionevole che esista — ci si convince che va fottuto, si conserva la buona coscienza. Perché con l’abilità e l’esperienza si giunge a questa cosa incredibile: predisporre le cose e i fatti — le catene di causalità — in modo che, quanto si desidera, avvenga senza offendere i propri principi di comportamento etico.

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27 aprile.

Racconta:

«Mi ha detto un giorno, come mi avrebbe trattato. Era a quel tempo ansioso in cui nulla era accaduto ma doveva avvenire. La facevo parlare del suo passato, nella smania di conoscere quanto piú potevo di lei, e avere posto alla mia sognería.

Raccontava di un giovanotto semplice che l’aveva attaccata in treno. Descriveva colui come determinato e comune. Con poca fatica l’aveva infatuato. A parole e a gesti. (Pure con me ha fatto un viaggio). Poi aveva concluso, dandogli un falso nome.

E il giovanotto le aveva scritto una domanda di matrimonio». [p. 41 modifica]

28 aprile.

«Che al signore piacciano le cose chiare, mi sa bene per il suo buon gusto. Ma rifletta il signore che le cose chiare sono subito digerite e poi torna l’appetito. Molto meglio rodere nel difficile, arrabattarsi a trovare il pezzetto, far durare di piú la speranza insomma».

Perché prendersela tanto? Siamo ritornati al ’29. Composto poesie oziose, sofferto per l’incapacità di lavorare, solo e contrito in mezzo alla vita, vagabondo arrabbiato dello spettacolo pubblico. Che cosa manca? I sette anni trascorsi?

Ma via: ha mai contato la giovinezza nel mio mestiere? E se i sette anni non mancassero, fossero tutti finiti bene, cioè: composto poesie durature, trovato da lavorare con soddisfazione, accoppiato e riconoscente nella vita, accasato lieto dello spettacolo pubblico; se tutto fosse andato cosí, avrei qualcosa di piú? Sarebbe valsa la pena? Sarei seduto a questo tavolo con piú gioia?

E, se rispondessi che sarei lieto di essere legato, di avere dei doveri, non direi una cosa inutile, dato che di doveri uno ne ha sempre, purché voglia?

E allora, allora proprio soltanto lei rimpiango? Lei che mi ha fottuto? Ma, se tutto il resto è inalterato, che cosa rappresenta piú lei se non una banale delusione sentimentale?

Allegro giovanotto, non è nemmeno lecito sprofondarsi in un grande tracollo; non esiste il tracollo; siamo come prima, abbiamo bruciato sette anni, ci sono accadute delle amabilità; ricominciamo, ma senza urlare, e teniamo presente che non c’è ragione perché fra altri sette anni non rifacciamo lo stesso discorso. E poi ancora, e poi ancora. Ma chi ci ha detto che la vita fosse da godere? Ragazzo, abbiamo ancora le illusioni giovanili.

Ma, se è vero che a tutti càpiti cosí, come mai i vecchi non han tutti facce stravolte, indemoniate, macellate, spaccate, e sono invece cosí tranquilli?

L’unica cosa chiara è perché i morti si putrefacciano. Con tutto quel veleno nel corpo. [p. 42 modifica]

1° maggio.

Che la poesia nasca dalla privazione, lo appoggia anche il fatto che la poesia greca sugli eroi si compie quando gli epigoni sono cacciati dalle patrie contenenti le tombe degli eroi (cfr. Psiche, I, p. 43).

5 maggio.

Il peccato non è un’azione piuttosto che un’altra, ma tutta un’esistenza mal congegnata. C’è chi pecca e chi no. Le stesse cose (odiare, fottere, oziare, maltrattare, umiliarsi, insuperbirsi) in uno sono peccati, in altri no.

Aver peccato vuol dire restar convinto che quell’azione è in un modo misterioso creatrice d’infelicità propria per l’avvenire, che essa ha offeso qualche legge misteriosa d’armonia e non è che un anello in una catena di disarmonie precedenti e future. Vivere è come fare una lunga addizione, in cui basta aver sbagliato il totale dei due primi addendi per non uscirne piú. Vuol dire ingranarsi in una catena dentata; ecc.

9 maggio.

Anche il conforto di umiliarsi cade nelle solite voluttà o è un principio valido?

Ci si umilia cioè, come per sfruttare un contraccolpo dell’esperienza facendone pretesto a un autospettacolo gratuito (senza impegni morali) o per scavare un filone di condotta etica, per ricercare insomma un piano coscienzioso di doveri?

Che ci sia una compiacenza nell’umiliazione propria, è un fatto. Distinguere se si gode voluttuosamente o tragicamente pare impossibile.

In fondo, siccome non ho trovato altro rimprovero alla voluttà che di rovinare chi la esercita (di farlo «inutilmente soffrire»), basterebbe chiarire se l’autoumiliazione faccia inutilmente soffrire o meno. E nel mio caso, come uscire dalla solita direttiva di controllare la legittimità del mio stato con la sua fecondità o sterilità [p. 43 modifica] creatrice? Perché certo questa direttiva è falsa, o almeno insufficiente — dato che non tutti fanno il mestiere dei creatori. Utile o inutile sofferenza si determineranno in rapporto a tutta un’esistenza. E che l’interessato sia poi anche un creatore, non riguarda per nulla la coscienza. Si tratta qui di esigenze che scavano alle fondamenta, di là dal mestiere, dalla classe e dalla nazione. Ma leva questo, leva quello, che cosa resta a far da servo ai doveri? Bisogna quindi non escludere il mio stato di creatore per scendere in cantina a cercare la pietra angolare, ma considerare semplicemente che, oltre a creatore, sono anche un uomo e un disoccupato e un apolitico e un ragazzo e altre cose che mi sfuggono. È un bel lavoro esaminare l’effetto dell’autoumiliazione su tutti questi stati e trovare il massimo comune divisore. E non solo nel presente, ma in tutto il mio passato. Poiché, ricordare, il peccato non è un’azione piuttosto che un’altra, ma tutta un’esistenza mal congegnata.

È dunque un peccato la mia autoumiliazione?

Un’idea. Come ho saputo ragionare di estetica soltanto quando ho avuto innanzi un branco di poesie mie, dove ho sviscerato il problema (e veduto come tutto fosse da ricominciare), ecco che dovrò mettermi innanzi un numero di azioni etiche mie e qui meditarle e decidere quali potrò riprendere e quali no, quali sono i motivi costanti se ci sono (senza dubbio), e tutto il resto. La difficoltà è isolare queste azioni, per maneggiarle, come maneggio ogni singola poesia. E dopotutto non è una novità. Già sovente ho fatto questo lavoretto.

16 maggio.

Che alla produzione di un’opera occorra il pubblico, è indubitabile. Ci sono però molte opere che sono nate senza quell’apparente cerchia ansiosa e turbolenta e disordinata, che fa sorgere la grande arte.

Ma il pubblico non mancava. Semplicemente, l’autore se l’era immaginato, l’aveva creato (che vuol dire: definito, scelto e amato). In genere gli antichi, fino al romanticismo, ebbero la cerchia materialmente intesa; i moderni sono distinti dall’assenza di questa e rivelano anzitutto la loro grandezza (come gli antichi la [p. 44 modifica] rivelarono nella istintiva comprensione del vero pubblico, al di là dei pedanti) nella scelta e creazione che sanno farsi dei loro lettori.

Osservo pure che è falso credere possibile una progressiva creazione di un proprio pubblico da parte di uno scrittore. Cosí si crea il pubblico materiale, se mai, quello dell’editore. Ma il pubblico vero dev’essere tutto supposto fin dalla prima opera.

6 settembre.

Ho dunque scoperto un tipo d’uomo che prende tragicamente sul serio i doveri morali. Pensa subito che un principio morale va affermato anche dinanzi alla prigione, alla morte, alla ruota ecc.; e, atterrito da tanta obbligazione, non osa risolversi a definire e servire il suo principio morale. Costui vive infatti voluttuosamente (cfr. 20 aprile) e non ha principi. In fondo è nobiltà di sentire.

13 settembre.

Tra i segni che mi avvertono esser finita la giovinezza, massimo è l’accorgermi che la letteratura non mi interessa piú veramente. Voglio dire che non apro piú libri con quella viva e ansiosa speranza di cose spirituali che, malgrado tutto, un tempo sentivo. Leggo e vorrei leggere sempre piú, ma non ricevo ormai come un tempo le varie esperienze con entusiasmo, non le fondo piú in un sereno tumulto prepoetico. La stessa cosa mi accade passeggiando per Torino; non sento piú la città come un pungolo sentimentale e simbolico alla creazione. Già fatto, mi viene da rispondere ogni volta.

Tenuto il giusto conto delle ammaccature varie e rovelli e stanchezze e maggesi, rimane chiaro che non sento piú la vita come una scoperta e tanto meno quindi la poesia — ma piuttosto come un freddo materiale di speculazioni e analisi e doveri. Qui batte ora la mia vita: la politica, la pratica, tutte cose che si giovano dei libri, ma i libri non amano come invece fa la speranza di creazione.

Ora, anche da giovane mi sistemavo eticamente: trovata la posizione dell’impassibile cercatore, la vivevo e sfruttavo in creazione. [p. 45 modifica] Ora che di sfruttarla in creazione ho smesso sul serio, m’accorgo che nemmeno mi basta a vivere.

È un dilemma grave: ho sinora perso del tempo puntando sulla poesia oppure lo stato attuale è premessa di una piú profonda e vitale creazione?

14 settembre.

D’accordo con Berg.4 che tanto il razzismo quanto la bontà naturale dell’uomo sono miti politici da giudicarsi alle loro realizzazioni, ma è disonesto scusare la riconosciuta debolezza filosofica del razzismo col fatto che ora si è riconosciuta debole filosoficamente anche la bontà naturale. Perché un mito per essere storicamente legittimo va creduto al suo tempo, e deve essere l’ultima parola della critica del suo tempo. Tale era la bontà naturale nel ’700, tale non è il razzismo nel ’900.

Lo stesso accade per le strutture della poesia dei vari tempi. Che le favole del passato per noi siano miti è pacifico, ma per fare grande poesia il poeta ha dovuto credere alle sue favole, crederle cioè l’ultima parola della critica dei suoi tempi.

15 settembre.

Se tento un bilancio della mia opera poetica, non ci trovo poi tutti quei vantaggi. Lascio stare la gloria o il disonore — mi esamino come se non avessi pubblicato — e trovo che il mondo ha ora perso per me tutto il suo aspetto incantato, poiché molte cose che mi piacevano e contentavano si sono ora spente nella pagina scritta che le incenerí. Rivelando a me stesso, colla realizzazione, la natura tutta fantastica di quei miei trasporti e scatti e amori e attaccamenti, li ho ora, per lo stesso fatto della realizzazione compiuta, resi vuoti e inutili. Chiarisco: non mi tormenta amor di novità per ambizione; mi sta chiaro innanzi che quelle scoperte non avevano che significato prepoetico e perciò — una volta poetificate — hanno assolto il loro compito. [p. 46 modifica]

Questa era la ragione per cui sostenevo che il genio poetico dev’essere fecondissimo e durare tutta la vita. Il suo spirito non deve mai cessare di produrre scoperte, da usare in poesia, perché, se si arresta, rivela con ciò che quelle poche fatte non provenivano da temperamento nato a scoprire, ma erano velleità sentimentali d’azione scambiate per scoperte prepoetiche.

Io non so ancora se sono un poeta o un sentimentale, ma certo che questi mesi atroci sono la prova decisiva. Se, come spero, anche i piú grandi scopritori hanno passato di simili mesi, allora non è a buon mercato la gioia di comporre. Si vendica, e bene, la vita, se qualcuno le ruba il mestiere. Non è niente la preoccupazione del comporre — il famoso tormento — dinanzi a quella dell’aver composto e poi che cosa fare.

Il libro Lévy-Bruhl Mythologie Primitive lascia supporre che pensando la mentalità primitiva la realtà come scambio continuo di qualità e di essenze, come flusso perenne in cui l’uomo può diventare banano o arco o lupo e viceversa (ma non l’arco diventare lupo, per esempio), la poesia (immagini) nasce come semplice descrizione di questa realtà (il dio non somiglia al pescecane, ma è pescecane) e come interesse antropocentrico.

Insomma, le immagini (ciò m’interessa!) non sarebbero gioco espressivo, ma positiva descrizione. Alle origini, s’intende. Quanto all’antropocentrismo, non ne dubitavo.

2 ottobre.

Finalmente qualcosa di positivo. Quell’orrore del baccano pubblico, quello schifo dei gesti meschini altrui, quel rimorso delle esitazioni e indegnità formali mie, sono la prova di una mia sufficienza, di un mio senso del contegno, che hanno del dignitoso. Persino la mia ricerca di poesia oggettiva voleva dir questo.

Oggi però sono desolato di aver sempre sinora trascurato le forme, le maniere, di non essermi fatto uno stile di comportamento, ma di aver sempre agito a casaccio fidandomi del mio gusto sdegnoso e commettendo cosí infinite stonature romantiche. [p. 47 modifica]

Perché le donne in genere hanno migliori maniere che gli uomini? Perché debbono attendere tutto dal loro effetto formale, mentre gli uomini agiscono o pensano. Bisogna diventar piú donna.

13 ottobre.

Balzac ha scoperto la grande città come covata di mistero e il senso che ha sempre sveglio è la curiosità. È la sua Musa. Non è mai né comico né tragico, è curioso. S’inoltra in un intrico di cose sempre con l’aria di chi fiuta e promette un mistero e va smontando tutta la macchina a pezzo a pezzo con un gusto acre e vivace e trionfale. Guardare come si accosta ai nuovi personaggi: li squadra da tutte le parti come rarità, li descrive, scolpisce, definisce, commenta, ne fa trasparire tutta la singolarità e assicura meraviglie. Le sue sentenze, osservazioni, tirate, motti non sono verità psicologiche, ma sospetti e trucchi da giudice istruttore, pugni sul mistero che perdio si deve chiarire. Per questo, quando la ricerca, la caccia al mistero si placa e — all’inizio del libro o nel corso (mai alla fine, perché ormai col mistero tutto è svelato) — Balzac disserta del suo complesso misterioso con un entusiasmo sociologico, psicologico e lirico, egli è ammirevole. Vedere l’inizio di Ferragus o l’inizio della seconda parte di Splendeurs et misères des courtisanes. È sublime. È Baudelaire che si annuncia.

28 dicembre.

Si potrebbe vedere il reale dal disotto recluso, dove non resti che il meditabondo sprofondarsi e allargarsi nell’acqua. La compagnia non sarebbe che l’irriducibile resto della società, paragonabile alla casacca e all’abitudine dei sensi — vedere un muro, sentire una voce, respirare il cielo. Il sostrato della vita di chiunque fatto presente, e penetrato con fermezza, stante che chiunque può capitare in quel posto e qualcuno c’è sempre, anche se sia un altro; e la vita non consiste che in adornare variamente questo eterno reale. Lo sforzo sarebbe di raggiungere subito l’adattamento senza sbavatura residua. [p. 48 modifica]

Si scopre cosí che nella vita quasi tutto è passatempo, onde il proposito che formerebbe il prigioniero di vivere, se uscirà, come l’eremita, succhiando il suo passatempo, cavandone tutto il midollo. Che si propongono tutti i prigionieri. E la vita passata risulterebbe spensierata e febbrile, per le disordinate pretese che l’hanno viziata. Qui il pensiero ridotto a superfluità, rivela quanto nella vita sia strambo vivere per mezzo suo lottando e progettando. Non mai dimenticare che, sotto tutto, l’uomo è nudo. C’è un caso in cui ci si spoglia nudi e ci si mostra: ed è per fare la cosa meno ragionevole e piú vergognosa della vita.

I punti sono: che il reale è reclusione dove appunto si vegeta e sempre si vegeterà; e che tutto il resto, il pensiero, l’azione, è passatempo, tanto dentro che fuori. Conta quindi, possedere bene questo reale, passando tutto il resto. Anche perché, se non ci fosse la compagnia, come fu un tempo, non si sfrutterebbe nemmeno il passatempo pensiero-parola, ma si starebbe come un tronco, vivendo. Qui è (ripeto) il dramma: dir male del pensiero-parola, e perciò della vita-passatempo, rimpiangendo in silenzio tutto il resto ed esaltando dalla rabbia il reale, sempre possibile in chiunque come segregazione intera.


Note

  1. Questo «esame di coscienza» del 10 aprile 1936 è scritto su quattro foglietti di quaderno a quadretti, numerati da 1 a 4. La numerazione delle pagine del diario, che continua sino alla fine, comincia dal 20 aprile 1936 [N. d. E.].
  2. Omesse sette righe [N.d.E.].
  3. Omesse sette righe [N.d.E.].
  4. Bergson? [N.d.E.].