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1936

16 febbraio.

Il caso mi ha fatto cominciare e finire Lavorare stanca con poesie su Torino — piú precisamente, su Torino come luogo da cui si torna, e su Torino luogo dove si tornerà. Si direbbe il libro l’allargamento e la conquista di S. Stefano Belbo su Torino. Tra le molte spiegazioni del «poema» questa è una. Il paese diventa la città, la natura diventa la vita umana, il ragazzo diventa uomo. Come vedo, «da S. Stefano a Torino» è un mito di tutti i significati escogitabili per questo libro.

Altrettanto curioso è che le poesie composte dopo l’ultimo Paesaggio, tutte, parlano d’altro che non Torino. Il caso sembra volermi insegnare a trasformare la mia disgrazia in un deciso rivolgimento di poesia.

Sorpassare Torino e giochi connessi, significherà costruire un altro mondo, di cui le basi saranno, come sempre, un periodo ben determinato di dolore e di silenzio. Perché, qualunque cosa scriva in questi mesi di ozio febbrile, sarà sempre soltanto una «curiosità» per il futuro, cioè silenzio. Cadono in questi mesi molti valori del passato e si distruggono abitudini interiori, che — straordinaria fortuna — nulla per ora sostituisce. Debbo imparare a prendere questa rovina futile, questa faticosa inutilità come un benedetto dono — quale ne hanno soltanto i poeti — come un tendone davanti alla rappresentazione che dovrà poi ricominciare. Mi spiego. Ritorno a uno stato larvale d’infanzia, meglio d’immaturità, con tutte le rozzezze e le disperazioni del periodo. Ritorno l’uomo che non ha ancora scritto Lavorare stanca. Passare ore a rosicchiarmi le unghie, a disperare degli uomini, a disprezzare luce e natura, a temere per paure infantili e pure atroci, è un ritorno ai miei ven-