Cesare Pavese

Italo Calvino 1931 Indice:Pavese - Poesie edite e inedite.djvu poesie letteratura Le maestrine Intestazione 8 marzo 2024 100% Da definire

I mari del Sud Donne perdute
Questo testo fa parte della raccolta Poesie edite e inedite


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Le maestrine

Le mie terre di vigne, di prugnoli e di castagneti
dove sono cresciute le frutta che ho sempre mangiato,
le mie belle colline — hanno un frutto migliore
che fantastico sempre e non ho morso mai.
Quando si hanno sei anni e si viene in campagna
solamente l’estate, è già molto riuscire
a scappar sulla strada e mangiar frutta acerba
coi ragazzotti scalzi, in pastura alle vacche.
Sotto il cielo d’estate, distesi nei prati,
si parlava di donne tra un gioco e una lite
e quegli altri sapevan misteri e misteri
sussurrati ghignando nell’ozio divino.
Sulla strada davanti alla villa si vedono ancora
— la domenica — parasolini passar dal paese;
ma è lontana la villa e non c’è piú ragazzi.

Mia sorella era allora ventenne. Venivano sempre
sul terrazzo a trovarci bei parasolini,
vesti chiare d’estate, parole ridenti:
maestrine. Parlavan magari di libri
imprestati tra loro — romanzi d’amore —
e di balli, di incontri. Io ascoltavo inquieto
e non pensavo ancora alle braccia scoperte,
ai capelli assolati. Il mio solo momento
era quando sceglievano me per guidare il gruppetto
a mangiare dell’uva e sedersi per terra.
Mi scherzavano insieme. Una volta mi chiesero
se non avevo già l’innamorata.
Fui seccato, piuttosto. Io stavo con loro

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per distinguermi: come sapevo salire su un albero,
per trovare i bei grappoli e correre forte.

Una volta incontrai sulla Strada Ferrata
la piú schiva di queste ragazze, una faccia un po’ assorta
ma bruciata di biondo e parlava italiano.
La chiamavano Flora. Io gettavo in quel mentre
sassi al disco dei treni. L’amica mi chiese
se sapevano a casa di quelle prodezze.
Io confuso. E la povera Flora mi prese con sé
perché andava — mi disse — a trovar mia sorella.
Era un gran pomeriggio dei primi d’estate
e per stare un po’ all’ombra e arrivare piú presto
ci buttammo nei prati. Vicino a me Flora
mi chiedeva qualcosa che piú non ricordo.
Arrivammo a un ruscello ed io volli saltarlo:
finii mezzo nell’acqua, tra l’erba.
Dall’altra parte Flora rise forte,
poi si sedé e ordinò che non guardassi.
Ero tutto agitato. Sentivo sciacquare
la corrente, sciacquare e mi volsi improvviso.
Svelta com’era e forte nel corpo nascosto,
la mia amica scendeva la riva, le gambe scoperte,
abbagliante. (Era ricca Flora e non lavorava).
Mi rimproverò un poco coprendosi subito,
ma ridemmo alla fine e le porsi la mano.
Per la via del ritorno ero troppo felice.
Ma quando fummo a casa, niente busse.

Come Flora, a ventine ce n’è ai miei paesi.
Sono il frutto piú sano di quelle colline,
i parenti arricchiti le fanno studiare
e qualcuna ha mietuto nei campi. Hanno volti sicuri
che ti guardano seri e son tanto golosi:
signorine si vestono come in città.
Hanno nomi fantastici presi nei libri,
Flora, Lidia, Cordelia ed i grappoli d’uva,
i filari dei pioppi, non sono piú belli.
Me ne immagino sempre qualcuna che dica:

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Il mio sogno è di vivere fino a trent’anni
in una casa in cima a una collina
ben battuta dal vento e accudire soltanto
alle piante selvatiche spuntate lassú.
Sanno bene che cos’è la vita: alle scuole
passano in mezzo a tutte le miserie,
le bestialità aperte di piccoli bruti,
e sono sempre giovani. Da vecchie...
ma non voglio pensarle da vecchie, per me
le avrò sempre negli occhi, le mie maestrine,
col bel parasolino, vestite di chiaro,
— la collina un po’ scabra e bruciata, per sfondo —
il mio frutto, il piú buono, che ogni anno rinnova.