Atto II

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Atto I Atto III

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ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA.

Camera di Beatrice.

Beatrice e Corallina.

Beatrice. Non ne vuò più saper nulla. Vedo che egli è un ingrato.

Corallina. Se tanto fa ora, che ha bisogno di voi, figuratevi poi che cosa farebbe quando foste sua moglie.

Beatrice. Io non ho detto di volerlo sposare. (alterata)

Corallina. Non l’avete detto, ma si conosce...

Beatrice. Che cosa si conosce? Voi altre serve sempre pensate il peggio.

Corallina. Gran disgrazia è la mia! Quel ch’io dico, signora, [p. 414 modifica] lo dico perchè vi amo. E voi, che avete tanto sofferto per uno che viene di casa del diavolo, non volete tollerare ch’io vi parli per zelo.

Beatrice. Cara Corallina, lasciami stare: son fuor di me.

Corallina. Vi compatisco, signora, le vostre inquietudini hanno il loro fondamento.

Beatrice. Prepara la tavola, voglio desinare.

Corallina. Per quanti ho da prepararla?

Beatrice. Che domande!

Corallina. Ho da preparare per due?

Beatrice. Tu mi vorresti far dire... Vattene.

Corallina. Compatitemi, è vero: non son domande da farsi. Siete sola, e la preparerò per voi sola. Il signor Ottavio ha mangiato anche troppo in questa casa. (mostrando partire)

Beatrice. Dove vai?

Corallina. A preparare.

Beatrice. Per quanti?

Corallina. Per uno; siete sola.

Beatrice. E se viene Ottavio?

Corallina. Lo volete ancora alla vostra tavola?

Beatrice. Non voglio che egli dica, ch’io l’ho scacciato con una mala grazia. Lo licenzierò.

Corallina. Sì, signora, preparerò anche per lui. Dategli campo che vi dica dell’altre insolenze. (andando)

Beatrice. Temerario! Hai ragione; se viene a picchiare, non gli aprire la porta.

Corallina. Volete che egli venga dentro per la finestra?

Beatrice. A far che ha da venire?

Corallina. A pranzo.

Beatrice. Ma se non lo voglio!

Corallina. Ah! non lo volete? Ho capito. (La testa della padrona fa le giravolte). (da sè, parte) [p. 415 modifica]

SCENA II.

Beatrice sola.

Chi mai l’avrebbe creduto che Ottavio dovesse essere di sì mal cuore? Finchè ha avuto di me bisogno, era umile, amoroso, gentile; ora che spera altronde la sua fortuna, mi disprezza, m’insulta. Io non so intendere perchè vantasse in faccia mia il merito di Rosaura; che cosa spera da lei? Sposarla? No certamente. Suo padre non gliela darebbe. Potrebbe anche darsi, ch’egli l’avesse lodata così per capriccio, senza pensare ch’io di ciò mi potessi offendere. E quel maledirmi, e quel dire a Corallina che i miei dispiaceri sono pazzie? Saranno ingiurie, o che? Potrebbero anche essere inavvertenze. Egli è solito parlare senza riflettere. Questo è il suo difetto, e l’ho corretto più volte. Non mi pare poi ch’egli abbia un fondo cattivo. Mi ha protestata cento volte la sua gratitudine, l’amor suo.

SCENA III.

Corallina con un Servitore che porta un piccolo tavolino,
con sopra la tovaglia ed una posata; e detta.

Corallina. Ecco preparato, signora, comanda in tavola?

Beatrice. E Ottavio è venuto? (al servitore)

Corallina. Signora no; ma se verrà... Ehi, sentite, se viene il signor Ottavio, non gli aprite. (al servitore)

Beatrice. Chi dà questi ordini?

Corallina. Ma voi, signora...

Beatrice. Non le badare, aprigli quando viene. (al servitore)

Corallina. (È una bella testina!) (da sè)

Beatrice. Queste cose non si dicono ai servitori. (a Corallina)

Corallina. Ma se viene?...

Beatrice. Essi parlano, e mettono le padrone in ridicolo.

Corallina. Ma se viene il signor Ottavio?...

Beatrice. Se viene, venga. Metti l’altra posata. [p. 416 modifica]

Corallina. L’altra posata?

Beatrice. Sì, non voglio scene.

Corallina. E viva il signor Ottavio.

Beatrice. Ottavio deve andarsene di casa mia.

Corallina. Quando?

Beatrice. Quando vorrò io.

Corallina. Eh, non anderà poi altrimente.

Beatrice. Sì, se n’anderà.

Corallina. Mi creda, che non se n’anderà.

Beatrice. Temeraria, non fare ch’io mi sfoghi con te.

Corallina. (Non ci mancherebbe altro). (da sè)

Beatrice. Senti, è stato battuto.

Corallina. (Sarà lo scroccone). (da sè, forte)

Beatrice. Che dici?

Corallina. Niente, signora, vado a vedere. (parte, poi ritorna)

Beatrice. Farmi però, che senza un forte motivo non avesse dovuto esaltare cotanto la beltà, il vezzo della signora Rosaura. Costui n’è innamorato. E ardisce in faccia mia di vantarlo?

Corallina. Signora. (portando Coltra posata)

Beatrice. E forse quel temerario d’Ottavio?

Corallina. No, signora. Non è lui.

Beatrice. E perchè porti quella posata?

Corallina. Perchè me l’avete comandato.

Beatrice. Se non è lui, non occorre.

Corallina. La porterò via.

Beatrice. Aspetta... mettila lì.

Corallina. (Per verità, la mi vuol far impazzire). (da sè)

Beatrice. Chi ha picchiato?

Corallina. Il signor Lelio.

Beatrice. A quest’ora?

Corallina. Credeva aveste pranzato.

Beatrice. Che cosa voleva egli da me?

Corallina. Farvi una visita.

Beatrice. L’hai tu licenziato? [p. 417 modifica]

Corallina. Avendogli detto che siete per andar a tavola, se n’è andato.

Beatrice. Credi tu che ritornerà?

Corallina. Egli ha della stima per voi.

Beatrice. Sì, il signor Lelio ha della bontà per me, e le sue visite mi sono care.

Corallina. Quello sarebbe a proposito, signora padrona... Ma non si può parlare.

Beatrice. Parla, chi te lo impedisce?

Corallina. Eh signora, siete troppo prevenuta in favore del signor Ottavio.

Beatrice. Non è vero. Mi sono quasi disingannata.

Corallina. Se fosse vero, mi azzarderei a dirvi un non so che a proposito del signor Lelio.

Beatrice. Parla liberamente. Sono in istato di sentir tutto con pienissima indifferenza.

Corallina. Egli mi ha confidato, signora, che ha dell’amore per voi.

Beatrice. Per me? (dolce)

Corallina. E ve lo farebbe sapere con maggior fondamento, s’ei non temesse un rivale nel signor Ottavio.

Beatrice. Tutti credono che io sia schiava di Ottavio, ma il mio cuore è un cuor libero. Il signor Lelio è un giovane che non mi dispiace.

Corallina. Più che ci penso, più lo trovo al caso vostro.

Beatrice. Sì, ha delle circostanze buone: non lo nego.

Corallina. Volete che così dolcemente gli dia qualche buona speranza?

Beatrice. Non t’impegnare. Digli qualche parola studiata, che non significhi, ma che si possa interpretare... tu mi capisci.

Corallina. Vi capisco, ma capisco anche... non vo’ dir altro.

Beatrice. Parla.

Corallina. Ecco il degnissimo signor Ottavio. (con ironia)

Beatrice. (In veggendolo, mi si rimescola il sangue). (da sè)

Corallina. Vuole in tavola? (a Beatrice)

Beatrice. Aspetta. (con collera) [p. 418 modifica]

SCENA IV.

Ottavio e le suddette.

Ottavio. Perdonate, signora, se vi ho fatto un poco aspettare.

Beatrice. Sarete stato sinora dal signor Pantalone.

Ottavio. Sì, sono stato, ma non sinora.

Beatrice. L’avete veduta la signora Rosaura?

Ottavio. L’ho veduta. (ridendo) Oh che sciocca!

Beatrice. Prima la lodaste tanto, ed ora la disprezzate?

Ottavio. Io ho lodato la sua beltà, la sua grazia: cose tutte che sono vere, e che cogli occhi si vedono. Ma poi a parlar con lei, è una scimunitella. Non sa niente. Giuoca colla bambola. Sono cose da crepar di ridere.

Beatrice. Voi direte così, credendo di farmi piacere.

Ottavio. Oibò, dico la verità.

Beatrice. Io per altro non son da metter a confronto con lei.

Ottavio. Per bacco, val più una dramma del vostro spirito, che non vale tutta la sua bellezza.

Beatrice. Corallina.

Corallina. Signora.

Beatrice. In tavola.

Corallina. (Via, via, ho capito). (da sè, vuol partire)

Ottavio. Aspettate. (a Corallina)

Corallina. Ha da comandarmi qualcosa, signore? (con ironia)

Ottavio. Signora, vi domando scusa se mi sono presa una libertà. (a Beatrice)

Beatrice. Dite pure.

Ottavio. Venendo a casa, ho trovato l’amico Lelio che voleva farvi una visita. Mi è scappato detto, se voleva pranzar con noi. Egli ha accettato l’invito, ed io, senza avvedermene, mi sono arrogato una libertà che non mi conviene.

Corallina. (Eh sì, il signor padrone!) (da sè)

Beatrice. Non so che dire. Quando ha accettato da voi l’invito, non deggio esser io quella che lo discaccia. Dov’è il signor Lelio? [p. 419 modifica]

Ottavio. È in sala, che non ardisce...

Beatrice. Corallina, fallo passare; metti un’altra posata, e fa che mettano in tavola.

Corallina. (Può essere che tu abbia introdotto il signor Lelio per tuo malanno). (da sè, parte)

SCENA V.

Ottavio e Beatrice.

Beatrice. Voi avete detto a Corallina, ch’io sono una pazza.

Ottavio. Io ho detto questo?

Beatrice. Sì, certamente, ed ella è pronta a sostenerlo anche in faccia vostra.

Ottavio. Signora Beatrice, vi giuro sull’onor mio, non me ne ricordo.

Beatrice. Voi parlate senza pensare.

Ottavio. Io non credo d’averlo detto.

Beatrice. L’avete detto. (alterata)

Ottavio. Non l’avrò detto con animo d’oltraggiarvi.

Beatrice. Così non si parla di chi si ama.

Ottavio. Ditemi, signora Beatrice, in via d’onore, avete mai detto voi, fra voi stessa almeno, ch’io sono un pazzo?

Beatrice. Se l’ho detto fra me medesima, non lo ha sentito nessuno.

Ottavio. Dunque il male non è, ch’io l’abbia detto, ma che voi lo abbiate saputo. Corallina ha la colpa.

Beatrice. Signor Ottavio, voi vi prendete spasso di me.

Ottavio. Sentite, vi amo tanto, conosco tanto i benefizi che voi mi fate, che se dovessi diventare un principe senza di voi, giuro a tutti i numi del cielo, rinunzierei qualunque fortuna; e se quel che io vi dico, non lo dico di cuore, prego il cielo che mi fulmini, che mi incenerisca, e non mi lasci mai aver bene.

Beatrice. (Povero Ottavio, è di buon cuore). (da sè) [p. 420 modifica]

SCENA VI.

Lelio ed i suddetti.

Lelio. Scusate, signora, se per cagione del signor Ottavio sono ad incomodarvi.

Beatrice. Spiacemi, che avrete un misero trattamento.

Ottavio. Via, senza cerimonie. Qua il cappello, la spada. In tavola. (prende la spada ed il cappello, lo ripone)

Lelio. (Grande autorità ha costui in questa casa). (da sè)

SCENA VII.

Il Servitore con la zuppa. Corallina colla posata, e detti.

Corallina. Quando comanda, è in tavola. (a Beatrice)

Beatrice. Favorite. (a Lelio)

Lelio. (Vuol prender l’ultimo posto.)

Ottavio. Qui, qui, presso la padrona di casa. (siedono)

Corallina. (Mi fa una rabbia colui, che lo scannerei). (da sè)

Ottavio. (Dando la zuppa) Avete saputo, signor Lelio, che io sono impiegato nel negozio Bisognosi?

Lelio. Me ne rallegro.

Ottavio. Io con quel vecchio ci starò volentieri. È una casa all’antica; egli ha più del pescatore, che del mercante: ma è buon uomo, di buon cuore.

Lelio. (Fa un bell’onore al suo principale). (da sè)

Beatrice. Via, signor Ottavio, mangiate, e non discorrete.

Lelio. Questa zuppa è preziosa.

Ottavio. Oibò, è insipida. In questa casa non si mangia mai una cosa saporita. O insipida, o salata.

Corallina. Ma vossignoria con tutto questo tira di lungo.

Ottavio. Oh, oh, la cameriera si risente. Non l’avete già fatta voi.

Corallina. Se non l’ho fatta io...

Beatrice. Zitto lì. Caro signor Ottavio, se non vi piace, lasciate stare, ma non disprezzate... [p. 421 modifica]

Ottavio. Compatitemi, signora, ho qualche cosa per il capo. Caro amico, non mi abbadate. Qualche volta sono una bestia.

Corallina. (Oh cara quella bocca! Ha detto una volta la verità). (da sè)

Lelio. Io non son qui per criticare le azioni vostre. Son favorito...

Ottavio. Oh via, stiamo allegri. In tavola. (chiama)

Corallina. Subito, Eccellenza. (parte)

SCENA VIII.

Ottavio, Lelio, Beatrice; poi il Servitore che porta in tavola.

Beatrice. Vorrei che aveste un poco di prudenza, (piano ad Ottavio)

Ottavio. Perdoni, signora Beatrice, oggi sono di gala.

Servitore. (Con un piatto, e lo mette in tavola.)

Ottavio. Questa roba che cosa è? (al servitore)

Servitore. Agnello, signore.

Ottavio. Agnello? È pecora. (assaggiandolo) Alla signora Beatrice non gliene do.

Beatrice. Perchè, signore?

Ottavio. Cane non mangia di cane. (ridendo)

Beatrice. Questo vostro barzellettare...

Lelio. (Ottavio ha una gran confidenza). (da sè)

Ottavio. È agnello, o pecora? (al servitore)

Servitore. Pare a lei ch’io le volessi dar della pecora? E agnello, le dico.

Ottavio. Via, quand’è così, prenda. (ne dà a Beatrice) Prenda dell’agnellino innocentino come lei. (ridendo)

Beatrice. Bravo! spiritoso! (con ironia)

Lelio. (No, no, non ci vengo più). (da sè)

Ottavio. Da bere. (il servitore va per prenderne) Con licenza della padrona di casa, portate di quel vino che ho mandato io ieri mattina. Sentirete un bicchier di vino prelibato. (a Lelio)

Beatrice. Parrà, signor Ottavio, che in casa mia non ci sia del vino. Voi non provvedete la mia cantina. [p. 422 modifica]

Ottavio. Oh, si sa bene; non lo dico già per questo; sentirete. (a Lelio)

Beatrice. (Mi fa venire i rossori sul viso). (da sè)

Servitore. (Porta da bere a Lelio e ad Ottavio-)

Ottavio. Questo è vino vecchio.

Lelio. Sarà buono.

Ottavio. Sì, piace anche alla signora Beatrice. È di quello che mette forza,

«Declinando l’età matura e frale.

Beatrice. Come?

Ottavio. Niente. (ridendo forte)

Lelio. Signor Ottavio, voi prendete troppo la mano colla signora Beatrice.

Ottavio. Io? Oh, la mia padroncina, e poi non più.

Beatrice. Meno spirito e più prudenza, signore.

Ottavio. Non posso essere che prudente, se sto con lei.

Beatrice. Perchè, padrone?

Ottavio. «Della matura età prudenza è figlia.

(recita il verso con caricatura)

Beatrice. Voi vi abusate della mia tolleranza. (s’alza)

Ottavio. Come? Perchè?

Beatrice. Siete un temerario. (parte)

SCENA IX.

Ottavio e Lelio.

Ottavio. Avete sentito? (a Lelio)

Lelio. In fatti, la pungete un po’ troppo.

Ottavio. Io scherzo. Lo fo per ridere.

Lelio. Questi scherzi sono troppo avanzati.

Ottavio. Voi le date la ragione per farmi dire.

Lelio. Le do la ragione, perchè la merita.

Ottavio. Eh via! Vi conosco; volete farmi taroccare.

Lelio. Alle donne conviene portar rispetto.

Ottavio. Niuno più di me rispetta e stima la signora Beatrice. [p. 423 modifica]

Lelio. I vostri motteggi non lo dimostrano.

Ottavio. Io lo fo per allegria, per bizzarria, per gala. Son di questo naturale. Quando mi viene un frizzo in bocca, non lo perderei per cento doppie.

Lelio. Voi così vi rovinerete.

Ottavio. Eh, minchionerie.

SCENA X.

Corallina e detti.

Corallina. Signor Lelio,

Lelio. Che c’è, Corallina?

Corallina. La mia padrona desidera parlarvi, e vi aspetta nella sua camera.

Lelio. Eccomi. (s’alza)

Ottavio. Sì, andiamo ad accomodarla. (vuol andar con Lelio)

Corallina. Vuole il signor Lelio, e non vuole voi. (ad Ottavio)

Ottavio. Eh, che sei pazza! Andiamo.

Lelio. Per me obbedisco il comando. (entra nella stanza)

Ottavio. Son qui con voi. (vuol entrare, in questo)

SCENA XI.

Beatrice sulla porta e detti.

Beatrice. Andate. Di voi non cerco. (chiudendo la porta in faccia ad Ottavio)

Ottavio. A me un tale affronto?

Corallina. Vostro danno. Meritate peggio. Ora vi ha serrato fuori di camera, e fra poco vi serrerà fuori di questa casa. (parte)

Ottavio. A me un affronto simile? Cacciarmi fuori di camera? E perchè? Per averle dette due barzellette. Ma non m’importa. Me n’anderò di questa casa. Amo Beatrice, ho ricevuto del bene, le sono grato; ma giuro al cielo, non soffrirò una [p. 424 modifica] ingiuria nemmen per ischerzo, a costo di rovinarmi, di esser povero per tutto il tempo di vita mia: in questa casa non ci verrò mai più. (parte)

SCENA XII.

Strada con bottega da caffè.

Florindo, Leandro e Caffettiere.

Florindo. Caro amico Leandro, dispensatemi.

Leandro. Avrei piacere che mi diceste la vostra opinione.

Florindo. Ho la mente confusa, non sono in caso di giudicare.

Leandro. Un sonetto si legge presto. Lo leggerò io. Favoritemi di sentirlo.

Florindo. (Questi poeti sono pure i gran seccatori). (da sè)

Leandro. Può essere che non vi dispiaccia.

Florindo. Lo so che siete bravo, ma ora non ho la mente serena.

Leandro. Che cosa avete, che vi dà fastidio?

Florindo. Ve lo dirò, acciò non crediate che io per disprezzo ricusi di sentire il vostro sonetto.

Leandro. Eh, so che altre volte avete sentite delle composizioni mie assai più lunghe.

Florindo. (Pur troppo). (da sè) Sappiate, amico...

Leandro. E le avete compatite.

Florindo. Sì, meritamente applaudite. Ora sappiate...

Leandro. Questo sonetto non dovrebbe esser cattivo.

Florindo. Oh, a rivederci. (in atto di partire)

Leandro. Come! così mi piantate? Mi promettete dirmi un non so che, e poi...

Florindo. Se vorrete ascoltarmi, ve lo dirò.

Leandro. Dite, dite, che se vi trovo materia a proposito...

Florindo. Che cosa farete?

Leandro. Un sonetto, subito.

Florindo. Per descrivere il mio infortunio, non basterebbe un canto.

Leandro. Anche un poema, se bisogna. I versi mi cadono dalla penna.

«Come il liquido umor scorre dal monte.
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Florindo. Alla corte. Voi conoscete il signor Pantalone de’ Bisognosi.

Leandro. Sì, è uno de’ miei mecenati.

Florindo. Sappiate che egli ha una figlia.

Leandro. Lo so, le ho fatto il suo ritratto.

Florindo. Il suo ritratto? Come?

Leandro. In quattordici versi.

Florindo. Oh bene, io nel vederla più volte, di lei mi sono invaghito. Parlarle non ho potuto, poichè in casa la tengono con una grandissima e somma gelosia. L’ho fatta chiedere al padre, ed egli me l’ha negata.

Leandro. E per questo vi disperate? V’insegnerò io.

Florindo. Che cosa m’insegnerete?

Leandro. Fatele fare un sonetto.

Florindo. Sarebbe inutile. Ella non ascolta...

Leandro. Se resiste a uno de’ miei sonetti, la stimo la donna più crudele del mondo; sapete quante ne ho io convertite con i miei versi?

Florindo. I vostri versi servono a un bell’uffizio.

Leandro. Sentite questo sonetto.

Florindo. Voi mi tormentate.

Leandro. Sentitelo: può essere ch’egli faccia a proposito per il caso vostro. Vi è un poco di analogia.

Florindo. Via, sentiamolo.

Leandro. Sediamo. Avete bevuto il caffè?

Florindo. Non ancora. (sedendo)

Leandro. Ordinatelo, che lo beveremo.

Florindo. Sì, come volete. Ehi, due caffè. (al caffettiere)

Leandro. Eccolo.

Amante tenero a bella donna ch’è di cuor duro.

 SONETTO.
Donna, del vostro cor l’irato sdegno
     Nel mio povero sen fa strage assai.
     Dal momento primier ch’io vi mirai,
     Rimasi come un duro sasso, un legno.

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Di pensieri amorosi io son sì pregno,

     Che la testa e il cervello io mi gonfiai;
     E non ho speme di guarir giammai,
     Se di dolce triaca io non son degno.
Va l’Asia tutta, e va l’Europa in guerra,
     Ed io sol resterò misero amante.
     Cogli occhi al cielo, e con i piedi in terra?
Oh nemica di sè macchina errante!
     Ecco amor che v’innalza e che vi afferra.
     Globo voi siete, ed è Cupido Atlante.

Ah? Che vi pare? Caffè.

Florindo. (Oh che roba!) (da sè)

Leandro. Avete avuto piacere a sentirlo?

Florindo. Sì, molto.

Leandro. Eppure non mi costa che cinque o sei ore di tempo.

Florindo. Si vede che avete della facilità.

Leandro. Se credeste che presentandolo alla signora Rosaura...

Florindo. No, no, vi ringrazio. (Non ci mancherebbe altro).(da sè)

SCENA XIII.

Ottavio e detti.

Ottavio. (Serrarmi la porta in faccia?) (da sè)

Leandro. Chi è questo? (a Florindo)

Florindo. Non lo conosco.

Leandro. Ehi. (al caffettiere) Questo signore chi è?

Caffettiere. È un forestiere. È un uomo dotto, che parla bene.

Leandro. È dotto sì?

Caffettiere. Almeno ho sentito dirlo.

Leandro. Fategli leggere questo sonetto, così come la cosa venisse da voi, senza dirgli che sono io.

Caffettiere. Sarà servita.

Leandro. Voglio sentire che cosa dice. (a Florindo)

Florindo. Bene, bene. Accomodatevi. [p. 427 modifica]

Ottavio. Caffè. (sedendo)

Caffettiere. Eccola servita. (gli porta il caffè) Se vuol divertirsi, gli darò una bella composizione.

Ottavio. Lasciate vedere. (prende il sonetto, e legge) Sonetto di Leandro Zucconi. Sì, sì, di quell’asino di Leandro: ne ho veduti degli altri. (legge piano)

Leandro. Avete sentito? (a Florindo)

Florindo. Vi vuol prudenza. (a Leandro) (Meglio è ch’io parta). (da se, parte)

Leandro. (Pagherei uno scudo a non esser qui. Me ne anderei, ma non vorrei perdere il mio sonetto). (da sè)

Ottavio. Oh che bestia! Oh che ignorantaccio! Si può far peggio? (legge piano)

Leandro. Signor mio...

Ottavio. Avete sentito questo sonetto?

Leandro. Sì, l’ho sentito.

Ottavio. Si è mai intesa una simile bestialità?

Leandro. Eppure...

Ottavio. Basta dire che sia di quel somaraccio di Leandro Zucconi.

Leandro. (Or ora gli metto le mani addosso). (da sè)

SCENA XIV.

Brighella e detti.

Brighella. Servo de lor signori; sior Leandro, ghe son servitor.

Ottavio. Chi è quello? (a Brighella)

Brighella. El sior Leandro Zucconi, quel bravo poeta.

Ottavio. (Oh corpo del diavolo!) (da sè) Signor Leandro, vi domando scusa.

Leandro. Non si strapazzano così i galantuomini.

Ottavio. Non vi aveva conosciuto.

Leandro. E non conoscendomi ancora, perchè dirmi le impertinenze che mi avete dette?

Ottavio. Compatitemi. [p. 428 modifica]

Leandro. Pare a voi che questo sonetto sia da lacerare? (glielo leva di mano)

Ottavio. Sarà bello, io sarò di cattivo gusto.

Leandro. Io sono un asino?

Ottavio. Non sarà vero. Averò fallato.

Leandro. Mi maraviglio di voi, e saprò vendicarmi.

Ottavio. Fatelo.

Leandro. «Farò co’ versi miei giusta vendetta

«Di questa qual si sia virtù negletta. (parte)

SCENA XV.

Ottavio, Lelio, Brighella e Caffettiere.

Brighella. Coss’è sta, signor? (ad Ottavio)

Ottavio. Niente; non lo conoscevo; ho letto un suo sonetto, e non conoscendolo, mi è scappato dalla bocca una barzelletta. Una barzelletta graziosa. Gli ho detto dell’asino tre o quattro volte.

Brighella. Védela, sior Ottavio? Queste le son quelle cose che gh’ho dito mi tante volte. L’è solito vossignoria a far de sti marroni. In loghi pubblici bisogna vardar come che se parla, co gh’è zente che no se conosse, bisogna saverse contegnir; succede spesso sti casi, che se parla de uno che se crede lontan, e el se gh’ha da visin. Ghe vol prudenza, signor, se no un zorno o l’altro la troverà quello del formaggio.

Ottavio. Oh caro Brighella, quello che mi dà pena, non è il signor Leandro. Ho qualche cosa di peggio.

Brighella. Coss’è sta, qualche altra disgrazia?

Ottavio. La signora Beatrice mi ha serrata la porta in faccia, e non vuol più vedermi.

Brighella. Cossa gh’aveu fatto?

Ottavio. Io non le ho fatto niente. Ho detto delle barzellette, ed ella è montata in collera.

Brighella. Eh, quella vostra lengua! Basta; andemo, vegnì con mi.

Ottavio. Dove? [p. 429 modifica]

Brighella. Subito da siora Beatrice.

Ottavio. A far che?

Brighella. Ve dirò per strada. Andemo.

Ottavio. Atti di viltà non ne fo sicuramente.

Brighella. Gh’è un in casa con ela. So che i parla de certe cose... L’è ben che andemo a interromper.

Ottavio. Sì, andiamo. Sto a vedere che Lelio mi tradisca.

Brighella. Ho paura de sì.

Ottavio. Giuro al cielo, lo ammazzerò. Dopo averlo io introdotto, invitato a pranzo, che mi facesse una sì nera azione!

Brighella. Mo perchè invidarlo?

Ottavio. Andiamo. (prova se la spada esce del fodero)

Brighella. No, non faremo gnente. Ghe vol flemma. Femo cussì, andemo prima da sior Pantalon.

Ottavio. No, voglio andare da Beatrice.

Brighella. Sior Pantalon aspetta quel conto.

Ottavio. Ecco il conto. Portateglielo voi per me.

Brighella. Mo sior no, non va ben.

Ottavio. Quegli... è Lelio.

Brighella. Sior sì, l’è lu.

Ottavio. Per bacco, voglio che mi renda conto. (parte)

Brighella. Fermeve; sentì. Oh che testa! Oh che omo! Oh che bestia senza giudizio! (va dietro ad Ottavio)

SCENA XVI.

Camera in casa di Pantalone.

Pantalone e Rosaura.

Pantalone. Cara siora, vegnì qua che nissun ne senta. Cossa me andeu disendo?

Rosaura. Dico così, che vorrei fare anch’io quello che hanno fatto la signora Flamminia, la signora Luisa e la signora Costanza.

Pantalone. Vorressi donca maridarve anca vu, come le ha fatto ele?

Rosaura. Maritarmi? Non dico questo io. [p. 430 modifica]

Pantalone. Mo donca cossa?

Rosaura. Vorrei avere uno sposo.

Pantalone. Mo sposo e mario no xelo ristessa cossa?

Rosaura. Sarà, io non me n’intendo.

Pantalone. E cossa vorressi far del sposo? Cossa vorressi far del mario?

Rosaura. Oh bella! Quello che fanno la signora Flamminia, la signora Luisa e la signora Costanza.

Pantalone. Cara fia, avè pur sempre dito, che volè andar co vostre àmie; perchè mo ve voleu muar de opinion?

Rosaura. Il signor Ottavio mi ha detto...

Pantalone. Sappiè, che tutto quel che v’ha dito sior Ottavio, le xe tutte busie.

Rosaura. Non è vero che lo sposo sia una bella cosa?

Pantalone. No, fia mia, no xe vero.

Rosaura. Datemene uno, e se non è vero, anderò dalla signora zia.

Pantalone. (Ah poveretto mi! In che intrigo che m’ha messo quel desgrazià). (da sè)

Rosaura. Uno solo.

Pantalone. Mo no ti sa, che quando s’ha tolto uno sposo, un mario, nol se lassa più fina alla morte?

Rosaura. Bene, dopo che sarà morto, anderò dalle signore zie.

Pantalone. Ti pol morir ti avanti de élo.

Rosaura. Allora quello che averei da far io, lo farà lui.

Pantalone. Mo va là, che ti xe una gran sempia!

Rosaura. Oh già, sempre mi dice così.

Pantalone. Chi vustu che te toga, chi vustu che te voggia?

Rosaura. Cosa m’importa a me, se nessuno mi vuole?

Pantalone. Se nissun te vol, no ti pol sperar de sposarte.

Rosaura. Lo sposo lo voglio io.

Pantalone. Ben, ma se élo... Son più matto mi a badarle.

Rosaura. Se viene il signore Ottavio, vi farò dire quel che mi ha detto a me. Ha parlato così bene, che in verità neanche la fattora parla come ha parlato lui.

Pantalone. (Se el vien sto furbazzo, lo voggio consolar). (da sè) [p. 431 modifica]

Rosaura. E poi... sì, ora me ne ricordo. Mi ha detto dei teatri, dei festini. Oh, le signore zie non mi cuccano.

Pantalone. (Alo mo fatto una bella cossa?) (da sè) Mi no so cossa dir. Co to àmie mi non ho dito de volerle metter per forza; se ti ghe vol andar, vaghe, se ti vol star in casa, staghe, e se ti te vol maridar, co capiterà l’occasion, te contenterò.

Rosaura. Oh non mi basta, signor padre.

Pantalone. Cossa vorressistu de più?

Rosaura. Lo sposo lo voglio presto.

Pantalone. E cossa vustu che mi te fazza?

Rosaura. Trovatene uno.

Pantalone. Dove vustu che el trova?

Rosaura. Compratelo.

Pantalone. Via, gnocca. I marii se compra?

Rosaura. Io non so come si faccia. Verrà il signor Ottavio.

Pantalone. E se vegnirà el sior Ottavio, l’anderà via per l’istessa strada che el vien; e vu, siora, coi omeni no ve n’avè da impazzar. Perchè no ve divertìu colla piavola?

Rosaura. La bambola non parla, non si muove. È meglio uno sposo. Me l’ha detto anche il signor Ottavio.

Pantalone. Maledetto sia el sior Ottavio.

SCENA XVII.

Florindo di dentro e detti.

Florindo. O di casa. Vi è nessuno? (di dentro)

Pantalone. Vien zente. Presto, andè via de qua. (a Rosaura)

Rosaura. Oh, questo lo conosco.

Pantalone. Come lo cognosseu?

Rosaura. Ogni volta che mi vede, mi saluta.

Florindo. Si può venire? (di dentro)

Pantalone. Adess’adesso. (a Florindo) Animo; andè via, ve digo. (a Rosaura)

Rosaura. E una volta mi voleva dare...

Pantalone. Cossa ve volevelo dar? [p. 432 modifica]

Rosaura. Non andate in collera.

Pantalone. Via, disè suso.

Rosaura. Mi voleva dare...

Pantalone. Cossa?

Rosaura. Un bamboccio.

Pantalone. Via, via presto.

Rosaura. Ma io, se vorrò dei bambocci, farò come hanno fatto la signora Flamminia, la signora Luisa e la signora Costanza, (parte)

Pantalone. Oh che pampalughetta: ma per altro...

SCENA XVIII.

Pantalone e Florindo.

Florindo. Tornerò, se ha da fare. (di dentro)

Pantalone. No, no, la resta servida. Squasi, squasi, se el la volesse, ghe la daria; ma no gh’ho cuor de farlo.

Florindo. Perdoni, signor Pantalone, se gli sono importuno. (esce)

Pantalone. La perdona èla, se l’ho fatta aspettar.

Florindo. Son qui per un affare curioso.

Pantalone. La diga pur, che l’ascolto.

Florindo. Questa mattina voi avete detto di non volermi concedere la vostra figliuola in isposa, perchè ella è destinata per un ritiro, e non ha inclinazione per il matrimonio, non è la verità?

Pantalone. Sior sì, xe vero.

Florindo. Ed io, con vostra buona grazia, ho saputo che ella è dispostissima a maritarsi, e non vede l’ora di farlo.

Pantalone. Chi v’ha dito sta cossa?

Florindo. L’ha detto alla servitù di casa, e l’hanno già pubblicato.

Pantalone. No, sior. Mia fia no xe in stato...

SCENA XIX.

Rosaura e detti.

Rosaura. Lo voglio, lo voglio, lo voglio.

Pantalone. Ande via de qua.

Florindo. Signora, se vi degnaste... [p. 433 modifica]

Pantalone. La parla con mi, sior, e vu andè via. (a Rosaura)

Rosaura. Vado, vado. (si scosta) Signor padre. (di lontano)

Pantalone. Cossa gh’è?

Rosaura. Lo voglio. (parte)

SCENA XX.

Pantalone e Florindo.

Pantalone. Me vien i suori freddi.

Florindo. La sentite, signor Pantalone?

Pantalone. Quella xe una gazziòla, fio caro; la dise quel che la sente a dir, ma no la sa gnente.

Florindo. Ma, caro signor Pantalone, se ella dice voglio lo sposo, può parlar più schietto?

Pantalone. Bisogna veder se la sa gnanca cossa che sia sto sposo che la domanda.

Florindo. Eh signore, queste cose vi vuol poco a farle capire a chi per sorte non le intendesse. Dite piuttosto, che per fini vostri particolari non la volete accasare, o che io non sono degno di averla.

Pantalone. Sior Florindo, vu ve ingannè; no la xe cussì da galantomo.

Florindo. Io credo che sia così; ma voi nel primo caso sarete un padre tiranno, e nel secondo un mancator di parola.

Pantalone. Mi son un omo d’onor, sior, e se no ve dago mia fia, lo fazzo per una delicatezza da galantomo, acciò un zorno no ve ne abbiè da pentir.

Florindo. Ma se io mi contento, ma se la prendo com’è, se con tutti li vostri avvertimenti non averò mai cagione di lamentarmi di voi. Dopo tutto questo, credetemi, signor Pantalone, la vostra ostinazione o è barbara, o è misteriosa.

Pantalone. Sior Florindo, la voleu?

Florindo. Sì, la desidero.

Pantalone. Animo, se ve ne pentire, sarà vostro danno; se Rosaura ve vol, ve la dago. [p. 434 modifica]

SCENA XXI.

Rosaura e detti.

Rosaura. Lo voglio, lo voglio, lo voglio.

Pantalone. Lo voglio, lo voglio, lo voglio. Cossa farastu col sarà to mario? Zogherastu alle piavole?

Rosaura. M’informerò.

Pantalone. Con chi? Col sior Ottavio?

Rosaura. Colla signora Flaminia, colla signora Luisa...

Pantalone. E colla signora Costanza?

Florindo. Niente, signora Rosaura, se mi amate, da voi non esigo di più.

Rosaura. Io voglio bene a tutti, e vorrò bene anche a voi.

Pantalone. Sentìu? (a Florindo)

Florindo. Questa sua innocenza mi piace assaissimo, e col tempo la ridurrò a mio modo.

Pantalone. (Vardè ben el fatto vostro, perchè una donna poi più pericolar per semplicità, che no xe per malizia), (piano a Florindo)

Florindo. (Lasciate il pensiere a me). Voi dunque sarete la mia sposa.

Rosaura. Io? Signor no.

Pantalone. Oh bella!

Florindo. Come no?

Rosaura. Voi sarete mio.

Florindo. Sì, sì, vi ho capito. Io sarò vostro.

Rosaura. Quando sarete mio?

Florindo. Lo sono fin da questo momento.

Rosaura. Andiamo, andiamo. (a Florindo)

Florindo. Dove, signora?

Rosaura. Voglio farvi vedere le mie bambole. (parte con Florindo)

Pantalone. Eh via, siora, no gh’è giudizio! (parte con loro)

Fine dell’Atto Secondo.



Note