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428 | ATTO SECONDO |
Leandro. Pare a voi che questo sonetto sia da lacerare? (glielo leva di mano)
Ottavio. Sarà bello, io sarò di cattivo gusto.
Leandro. Io sono un asino?
Ottavio. Non sarà vero. Averò fallato.
Leandro. Mi maraviglio di voi, e saprò vendicarmi.
Ottavio. Fatelo.
«Di questa qual si sia virtù negletta. (parte)
SCENA XV.
Ottavio, Lelio, Brighella e Caffettiere.
Brighella. Coss’è sta, signor? (ad Ottavio)
Ottavio. Niente; non lo conoscevo; ho letto un suo sonetto, e non conoscendolo, mi è scappato dalla bocca una barzelletta. Una barzelletta graziosa. Gli ho detto dell’asino tre o quattro volte.
Brighella. Védela, sior Ottavio? Queste le son quelle cose che gh’ho dito mi tante volte. L’è solito vossignoria a far de sti marroni. In loghi pubblici bisogna vardar come che se parla, co gh’è zente che no se conosse, bisogna saverse contegnir; succede spesso sti casi, che se parla de uno che se crede lontan, e el se gh’ha da visin. Ghe vol prudenza, signor, se no un zorno o l’altro la troverà quello del formaggio.
Ottavio. Oh caro Brighella, quello che mi dà pena, non è il signor Leandro. Ho qualche cosa di peggio.
Brighella. Coss’è sta, qualche altra disgrazia?
Ottavio. La signora Beatrice mi ha serrata la porta in faccia, e non vuol più vedermi.
Brighella. Cossa gh’aveu fatto?
Ottavio. Io non le ho fatto niente. Ho detto delle barzellette, ed ella è montata in collera.
Brighella. Eh, quella vostra lengua! Basta; andemo, vegnì con mi.
Ottavio. Dove?